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Sotto una luce scialba corre, danza, si torce senza ragione la Vita, chiassosa ed impudente

Lorenzo De Caprio

Navigare necesse est, vivere non necesse.
I greci si servivano dei due termini: zoè e bìos, parole semanticamente e morfologicamente distinte, per signi-ficare la “cosa” che indichiamo con “vita”. Con zoé, si riferivano all’essenziale “essere un vivente”. Vita naturale che accomuna animali, uomini o divinità. Con bìos indicavano la forma ed il modo di vivere che caratterizzano nel segno del valore l’esistenza di un individuo, di un popolo. Quando Platone nel Fedro menziona tre generi di vita e Aristotele, nell’Etica Nicomachea, distingue la vita contemplativa del filosofo (bìos theoreticòs), dalla vita di piacere (bìos apolausticòs) e dalla vita politica (bìos politicòs), essi non avrebbero mai potuto servirsi del termine zoè … per il semplice fatto che per entrambi non era in questione in alcun modo la semplice vita naturale, ma una vita qualificata [1]. Da un lato, un vivere per sopravvivere; zoè non riconosce altro scopo che la conservazione di se stessa. Dall’altro, il vivere che, sottoposto a valori superiori, lo qualificava nell’umano. Non che zoè non avesse di per sé valore, anzi. Non si dà bìos senza zoè. Il fatto è che agli occhi aristocratici del greco, quando la vita si riduceva allo stato naturale, appariva come una cosa morta.
<<l’uomo che="" non="" ha="" nulla="" da="" scambiare="" coi="" propri="" mali,="" è="" turpe="" desideri="" vivere="" a="" lungo.="" gioia="" dare="" un="" giorno="" dopo="" alla="" morte,="" mentre="" ce="" ne="" allontana,="" ci="" avvicina?="" bene="" deve="" l’uomo="" nobile="" o="" altrimenti="" morire="" bene.="" e’="" tutto="">>[2]. Parole di Aiace, eroe suicida per aver perso il proprio onore di capo, di guerriero, d’uomo migliore. In quel suo darsi la morte troviamo in embrione il suicidio filosofico, che capolavoro dell’autonomia della volontà, chiama su di sé lo splendore del giorno, il raggio della gloria; anche compiuto in solitudine, si espone a tutti gli sguardi; la ragione che lo governa esige l’approvazione di tutti; vi troviamo l’immagine attiva e maschia del ferro rivolto contro di sé, prova di una libertà sempre presente al termine di una battaglia perduta[3].
Siffatto tragico, greco atteggiamento non ha riscontro nella cultura veterotestamentaria. La vita della carne è nel sangue… il sangue è la vita… la vita di ogni vivente è il suo sangue, in quanto sua vita, (Levitico 17,5). Potrai mangiare carne a tuo piacere… tuttavia astieniti dal mangiare il sangue, perché il sangue è la vita, tu non devi mangiare la vita insieme con la carne, (Deuteronomio 12, 26).
Ierofania di Dio, la vita, il sangue è sacro. Da qui la legge che vieta di versare il sangue e le prescrizione rituali di purezza/contaminazione che proibiscono di toccare il sangue; di divorare, con la carne, la vita che è nel sangue. Il termine nefes, tradotto impropriamente dai “Settanta” con “psiche”, starebbe invece ad indicare la mera vita dei viventi e ne designerebbe il carattere caduco, indigente e bisognoso. Come espressione delle necessità vitali senza di quale l’uomo non può sopravvivere, la nefes finisce con il coincidere con la vita[4]. In virtù di questa coincidenza, il Sacro si materializza nel sangue che sacralizza la vita.
La vita s’oppone all’alterità irriducibile della morte. L’uomo non è che polvere che ritornerà alla polvere. La vita è Bene assoluto che si oppone al Male più assoluto. Di faccia all’uomo sono la vita e la morte, il bene e il male. Di fronte al male sta il bene, e di fronte alla morte la vita, (Ecclesiastico 33,15). Nulla di sorprendente che gli autori veterotestamentari la pensino in modo diverso da Aiace, Antigone, Socrate, Virginia, Bruto, Catone, ... Un cane vivo, per il suo semplice esser vivo , è stimato di gran lunga migliore di un leone morto (Ecclesiaste 9,4); la salute del corpo è bene superiore ad ogni ricchezza (Ecclesiastico 30,16) e, di conseguenza, il medico deve essere onorato perché è il Signore che lo creato(Ecclesiastico 38,1).
Non la conoscenza tecnica, ma la pratica della filosofia, l’esercizio della sapienza aggiungevano valore alla figura del medico ippocratico fino a farlo apparire simile al dio[5]. Il culto pagano dei morti divinizzava gli eroi: figure d’ uomini che, per le azioni memorabili di cui erano stati protagonisti, avevano elevato la qualità delle loro esistenze fino a renderle modelli esemplare di valore “divino”. Nulla del genere troviamo nella tradizione biblica. Mosè, servo del Signore, morì nel paese di Moab. Fu sepolto nella valle, nessuno fino ad oggi ha saputo dove sia la sua tomba, (Deuteronomio 34,12). Mosè venne pianto e celebrato, non divinizzato. La sua tomba non poteva divenire luogo di culto “eroico”, potenzialmente idolatra ed alternativo a quello che riserva a sé il Signore. La corporeità della cultura veterotestamentaria non impedisce a Giobbe, nell’obbedienza e nel timor di Dio, di sollevare l’ esistenza dalla zoologia e santi-ficare la vita. I Maccabei e gli eroici suicidi di Masada, giungono a sacri-ficarla.
Il cristianesimo, a modo suo, s’appropria del culto degli eroi. La Chiesa universale si fonda sul sangue dei martiri. Uomini, donne che in Cristo, con Cristo, per Cristo, si sono sacri-ficati affrontando la morte. La Chiesa post-tridentina beatificherà e santificherà intere legioni di “eroi”. Uomini pii e caritatevoli, donne timorate e misericordiose le cui esistenze hanno un valore aggiunto così elevato da poter essere offerte al pericolante popolo credente come modelli di santità da imitare. L’istituzione religiosa conferisce ai santi poteri sovrannaturali, esattamente come nell’antico culto degli eroi che conservano dopo la morte, virtù eccezionali che li mettono in grado di esercitare un’attività benefica sui vivi. Per questo vennero eretti in Grecia numerosi santuari dedicati agli eroi, tra i quali possono figurare anche quelli di Asclepio[6].
Gli stati moderni e laici propongono altri modelli eroici: capi di stato, politici, generali, scienziati, giuristi, artisti, scrittori, filosofi, soldati,... Quelli che in vita nelle imprese, nel pensiero e nell’estremo guerresco sacrificio hanno accresciuto la gloria nazionale, vengono trasferiti da morti nella dimensione tutta laica, ma non per questo meno esemplare, della “immortalità sociale e culturale”[7]. Pasteur ha dedicato tutta la sua esistenza alla Scienza; si è sacri-ficato per il bene dell’Umanità. Certo Pasteur è morto, ma è vivo nella memoria. La sua opera continua a vivere, non ha mai smesso di fruttificare.
Religioni, scienze, filosofie, istituzioni politiche e sociali, opere d’arte, tecniche… in una parola i prodotti della Cultura sono “forme” che, nate sub specie aeternitatis, mirano a trascendere l’incessante ritmo di una zoologia che ricerca e s’appaga di più vita[8]. La trascendenza è ciò di cui tratta la cultura. La cultura concerne l’allargamento dei confini temporali e spaziali dell’essere, e il suo obiettivo è smantellarli completamente. La cultura umana è, da un lato, un gigantesco e spettacolarmente riuscito tentativo ininterrotto di dar significato alla vita umana; dall’altro un ostinato sforzo di reprimere la consapevolezza del carattere irreparabilmente succedaneo e fragile di tale significato. Se per un motivo o per l’altro i suggerimenti della cultura perdono questa qualità, del tutto in parte, la vita perde significato e la morte diviene la sola cura per l’angoscia e il tormento di cui essa stessa è la prima causa. Il “suicidio anomico” di Durkheim giunge quando la cultura smette di allettare e sedurre[9].
Questo per dire che la civiltà occidentale ha nella sua storia fatto suo il detto che recita : “navigare necesse est, vivere non necesse!”. Navigare è necessario, vivere non altrettanto. Se nel gioco della vita non si può arrischiare la puntata massima, la vita stessa s’impoverisce, perde interesse. E diventa insulsa e vuota come un flirt in cui, fin dall’inizio si può star certi che non accadrà nulla[10].
Nel 1918, nel suo ultimo saggio, il teutonico filosofo della “metafisica della vita” notò, o credette di notare, nella moderna civiltà europea un inaridirsi della capacità della cultura di dar significato alla vita e l’emergere di una altra “visuale dell’universo”. E’ col passaggio al XX secolo che più vasti strati dell’Europa spirituale stendono la mano verso un nuovo motivo fondamentale per la costruzione d’una visuale dell’universo: il concetto della vita tende a conquistare il posto centrale in cui hanno il loro punto di scaturigine e d’incrocio la realtà e i valori, tanto metafisici quanto psicologici, tanto etici quanto artistici[11]. Un cambiamento che gli sembrò foriero di ulteriore, inarrestabile declino. Forse ciò è possibile solo in un epoca in cui le forme di civiltà suscitano la sensazione di un terreno esausto, che ha dato quel che poteva dare.[12] Affermazione a prima vista scontata se si pensa che s’era alla fine della grande guerra e della Germania guglielmina.
Schopenauer e Nietzsche sarebbero stati come i profeti e gli apostoli del nuovo paradigma. Il primo, alla domanda: “cos’è la vita? qual è il significato della vita?” non risponde, ma parla di una generica “volontà di vivere”. Espressione che sta a significare che la vita non ha e non può avere scopo e senso diverso da se stessa. Il secondo ritiene che la vita tenda naturalmente alla potenza, necessariamente all’aumento continuo, alla sviluppo illimitato, alla crescita che aggiunge solo più vita alla vita. Per entrambi il valore della vita umana dunque non sta più in un suo fine determinabile, ma nello svolgimento di se stessa, mediante cui acquista, pel fatto che diviene sempre più vita, un valore che si eleva all’infinito[13]. La questione capitale che accomuna Schopenauer e Nietzsche e li separa da tutti i precedenti filosofi è questa: Che cosa significa la vita, qual è il suo valore semplicemente come vita? Circa la conoscenza e la morale, circa l’Io e la ragione, circa l’arte e Dio, circa la felicità e la sofferenza, essi (Schopenauer e Nietzsche) possono investigare solo dopo che abbiano risolto quel primo enigma, e la soluzione di esso decide di tutti i problemi. Solo quel fatto primordiale che è la vita dà a tutto significato e misura, valore positivo o negativo[14].
I filosofi non avevano inventato nulla. Preso atto della risposta che la scienza aveva dato alla domanda <<cos’è la="" vita?="">>, avevano messo in evidenza che la vita umana era appiattata sulla rappresentazione meccanicistica e afinalistica che la filosofia della natura aveva da tempo accreditato. Avevano annunciato che il senso della esistenza era collocato nella dimensione “naturale” della sopravvivenza, della conservazione e dell’accrescimento.
Questione, confermeranno gli scienziati del XX sec, della fisico-chimica.
Haldane, 1928: qualsiasi modello autoperpetuantesi di reazioni chimiche può chiamarsi vivente[15]. J.W.S. Pringle 1952: L’organismo, come meccanismo unitario, emerge da un diffuso sistema di reattività chimiche [16]. J.D.Bernal 1954: I processi biologici presentano una stretta analogia con quelli di una fabbrica chimica; la cellula può essere considerata un piccolo mondo, in cui s’è concentrata l’intera serie delle reazioni chimiche[17].
J.D Watson 2004: Per il vitalismo la scoperta della doppia elica fu come il rintocco di una campana a morto. Gli scienziati seri, anche quelli con inclinazioni religiose si resero conto che la piena comprensione della vita non richiedeva la rivelazione di nuove leggi della natura. La vita era semplicemente una questione di fisica e di chimica – benché di una fisica e chimica squisitamente organizzate. Il compito successivo sarebbe stato quello di scoprire in che modo le istruzioni della vita, svolgessero la propria funzione. In particolare, come faceva il macchinario molecolare delle cellule a leggere i messaggi codificati nelle molecole del DNA? >>[18]. <Il segreto della vita si trasferisce nella strana riedizione dell’ immagine arcaica di due serpenti che s’attorcigliano in doppia spirale. DNA, molecola creatrice, vita essa stessa, che contiene tutte istruzioni della vita. DNA che ha come sua propria funzione quella di istruire normali processi fisici e chimici una volta che il macchinario molecolare delle cellule ha letto gli ordini del “Gene”. Entità dalla chimica “strana” quest’ultima visto che ora è “egoista”, ora è macchina indistruttibile: immortale, ora è del tutto “indifferente”, ora è dotata di un’intenzionalità buone o cattive ma sempre arbitrarie[20]. Un gene porta le istruzioni per compiere una determinata funzione biologica: specificare la composizione e la struttura di una determinata proteina. Le proteine costituiscono l’hardware ed il software del nostro corpo.[21] E’ il gene a fare, per così dire, il bello ed il cattivo tempo [22], più o meno come costumava ADN, Adonai: Il Signore.
Definizioni riduttive che non piacciono a tutti i biologi. I tentativi di definire la “vita” sono assai futili, poiché è ora del tutto evidente che non vi può più essere alcuna speciale sostanza, oggetto o forza fisica che possa essere identificabile con la vita. Tuttavia il processo vitale è identificabile. Non v’è dubbio che gli organismi viventi possiedono alcuni attributi che non si trovano, o non si trovano nello stesso modo, negli oggetti inanimati[23]. Questi potrebbero essere così elencati: la complessità, l’organizzazione, l’unicità, la qualità, la variabilità, il programma genetico, la storicità, la selezione naturale, l’indeterminatezza, l’automantenimento, l’autoriproduzione, l’autoregolazione… Attributi, anche d’aristotelica memoria, ma tutti sgraditi ai materialisti di stretta osservanza che vi intravedono i fantasmi del vitalismo, del finalismo, del creazionismo.

Vivere necesse est, navigare non necesse
Eutanasia, suicidio assistito, testamenti di vita, “morte pietosa” dividono l’opinione pubblica. Pochi mesi fa, nel caso Schiavo, non solo le associazioni “Pro Life” si sono energicamente e violentemente mobilitate, ma anche il presidente degli Stati Uniti è sceso in campo mettendo in subbuglio gli organi del corpo dello stato pur di difendere insieme l’antica sacralità ed il moderno diritto alla vita. In Italia non siamo ancora a questo punto, ma intanto, a dispetto di tutti i discorsi antimedici sull’accanimento terapeutico, sulla dignità del morire, sul rispetto che disumani dottori devono alla persona morente; diritto laico e sacralità religiosa s’alleano in difesa della vita ed ecco che la giurisprudenza obbliga il corpo di Eluana Englaro alle macchine che come materno seno l’ alimentano. Lo costringono in uno stato che non si sa che sia. Lo trasfigurano in un “essere” che non si riesce a collocare da nessuna parte visto che partecipa della vita e della morte. Si potrebbe dire che nella relazione tra materia organica e la mamma-macchina che infonde letteralmente “più vita”, si realizzi qualcosa che sta tra il cadavere elettrificato dal dottor Frankenstein e l’uomo-macchina del dottor de la Mettrie. Esistenza d’automa, di salma rianimata, non vita umana, quella della Englaro. Materia che sopravvive per tecnico artificio; ma tuttavia corpo che soddisfa la definizione scientifica del vivente: qualsiasi modello autoperpetuantesi di reazioni chimiche può chiamarsi vivente.[24]
Se accettate questa definizione, (e la dovete accettare perché quando la Scienza parla, tutti zitti, che non voli una mosca!), vi accorgerete che non c’è bisogno d’alcun credo tradizionale per iscrivervi dalla parte dei movimenti “Per la Vita”. Vi basta essere “religiosamente” scientifici.
Se la nostra vita, come autorevolmente sostiene il genetista Watson, non è altro che un insieme sofisticato di reazioni chimiche, la sospensione dell’alimentazione parenterale, interrompendo la serie delle reazioni si configura come omicidio. I dottori vanno assolti dal reato di accanimento ed i giudici, meglio dei medici, hanno fatto tutto il possibile in difesa della Chimica organizzata.
A partire dalla Techne ippocratica, la medicina occidentale ha sempre evitato l’accanimento; ha respinto la tentazione di competere con la morte. L’impegno del medico a fare “tutto il possibile” pur di salvare una vita umana anche quando non c’è più nulla da fare, discende da un obbligo recente: è un prodotto della modernità. Non per caso l’arzigogolo moralista da un lato condanna l’accanimento dei medici, e dall’altro prima distingue e poi confonde eutanasia attiva e passiva, vale a dire l’uccidere deliberatamente con il lasciar morire. Se il termine eutanasia significa omicidio premeditato il “lasciar morire” quando le tecniche salvavita si dimostrano, per così dire inutili, non può essere confuso con l’uccidere deliberatamente. L’espressione “eutanasia passiva” criminalizza il rispettoso lasciar morire d’ippocratica e cristiana memoria; spinge all’accanimento e fa capire quanto forte sia l’obbligo sociale e giuridico che “costringe” il medico a fare tutto il possibile in difesa della … Chimica sofisticata.
I medici abortisti negli USA rischiano la vita. La guerra tra gruppi antiabortisti e i loro oppositori è una nuova versione delle guerre civili di religione. La questione dell’aborto sta lacerando l’America. E’ fonte di turbamento anche per la politica e disorienta il suo diritto costituzionale.[25]
Grazie alla legge 40, in Italia la controversia è destinata ad assumere sempre di più i toni accesi di uno scontro di tipo religioso. L’aborto, la soppressione deliberata di un embrione umano in via di sviluppo, è dai legittimisti considerata sangue versato che grida vendetta.
Direttamente collegato alla liceità dell’aborto è l’ingarbugliata questione dello statuto dell’embrione. E’ persona o non è persona? Se l’embrione è persona bisogna che giuristi e legislatori riscrivano costituzioni, leggi, codici, codicilli e pandette. Se l’embrione è persona bisogna che gli scienziati si fermino e che i sostenitori dell’aborto vadano in galera.
Finché le dispute sono poste in termini di opposizione, le parti non hanno niente su cui discutere. Chi pensa che l’embrione sia già un soggetto morale non può accordarsi con chi ritiene che si tratti di un mero insieme di cellule; di un oggetto non diverso dall’uovo appena fecondato di una gallina.
E’ diffusa nei contendenti la prassi biologista di appellarsi ai fatti della Scienza, come a chiederle di schierarsi, di scegliere tra opinioni e credenze che si negano a vicenda. Il cardinale Ratzinger ci offre un buon esempio di questo tipo di percezione, specifico della nostra epoca. Il cardinale esige che la cellula fecondata, prima ancora che si annidi nella mucosa uterina, sia riconosciuta come “vita umana”, e descrive l’oggetto ricorrendo ai termini propri della più moderna embriologia. L’“istruzione” della Congregazione per la Dottrina della Fede conferisce così ad un oggetto definito biologicamente un carattere di realtà, mentre a ben vedere ne fa il tema di un postulato morale-religioso. Secondo la Costituzione dogmatica approvata dal Concilio Vaticano nel 1870 era ancora possibile scorgere con sicurezza “la presenza di una persona” con la “luce naturale della ragione umana”; ora scorgiamo tale presenza “nell’apparizione di un essere umano”. Infine, il luogo di tale apparizione il fotogenico zigote, viene celebrato come “risultato dell’embriologia” e “come preziosa indicazione di presenza di persona”[26].
La cosiddetta “tesi dei 14 giorni” segue lo stesso copione. I suoi sostenitori affermano che prima che scocchi la ventiquattresima ora del 14° giorno dalla fecondazione, l’embrione non è persona e dunque sono leciti l’aborto e qualunque sua manipolazione. Al rintocco del primo secondo del quindicesimo giorno, argomenti fondati su fatti scientifici trasformano prodigiosamente l’embrione in soggetto di diritti. Questi argomenti moralizzano i seguenti fatti: la stria primitiva, la gemellarità, le chimere, la mola vescicolare. Anche in questo caso, l’evoluzione del processo biologico fa materialmente la persona. E’ veramente curioso come la tesi dei 14 giorni, nella sua pretesa d’essere rigorosamente scientifica, resusciti la dottrina aristotelica e tomista dell’animazione.
Allo stesso modo il biologismo detta legge sul fronte laico. Maurizio Mori propone di distinguere tra l’effettiva presenza di razionalità e la capacità potenziale di tale esercizio, e, sulla base, di questa distinzione, ritiene di poter dimostrare che l’embrione, anche in una fase più avanzata di sviluppo, senza le funzioni di coscienza connesse alla presenza della corteccia cerebrale, non può essere considerato un individuo razionale più maturo, o, addirittura adulto, ossia provvisto della effettiva capacità razionale[27]. Sarà dunque lo sviluppo del substrato organico, nel caso la corteccia cerebrale, a trasformare il concepito in persona e l’aborto sarà possibile almeno nei primi mesi di gravidanza.
Se l’essere della persona è la vita di un uomo; se “persona” è la concreta fisicità dell organismo vivente a partire dalla sua prima più primitiva organizzazione è vita personale da prolungare ad ogni costo anche la chimica sofisticata di Terri Schiavo e di Eluana Englaro. Osserviamo- ad un livello, se si vuole più banale- che la presenza di tecnologie vitali sofisticate o di complesse tecniche di riproduzione artificiale insieme estende il concetto di vita e tende a creare una sorta di separazione, o per lo meno di complicazione tra la vita biologica ed il suo valore [28]. L’osservazione è tutt’altro che banale. Di questo passo finiremo con l’estendere “il concetto di vita” anche al cadavere in putrefazione. Nessuno può negare che reazioni chimico-fisiche continuino nel morto; vale a dire che vi sia … vita personale. Tuttavia sull’ultimo confine, la cultura cattolica non si limita a respingere l’accanimento terapeutico, non si limita ad invocare doveroso rispetto alla persona del morente ed alle sue scelte, ma con la dottrina del “doppio effetto”, arriva a proporre la sua versione di “morte pietosa”. Nel caso lo Schiavo, erano le sette delle chiese “cristiane” riformate ed i fondamentalisti laici del “diritto alla vita” a schierarsi a difesa della chimica ad oltranza.
Per questi motivi, i redenti dalla Biologia, i convertiti alla soteriologia Biochimica ancora di più difenderanno l’embrione in quanto chimica in sviluppo appartenente alla specie animale umana. Che l’embrione o pre-embrione siano un modello autoperpetuantesi di reazioni chimiche, non v’è dubbio; che abbia gli attributi che la scienza concede all’organismo vivente non v’è alcun dubbio.
Ma come può lo status di persona essere spinto nello zigote ad affondare le proprie radici semplicemente nella presenza del patrimonio genetico della specie umana? Come può quell’insieme di cellule che la scienza riconosce “vivente” in quanto capace di automantenersi, di autoregolarsi, di svilupparsi etc, etc diventare “persona”? Suggerirei: perché la cultura contemporanea non riesce a dare un valore alla vita umana; non ha una definizione di vita umana da opporre a quella scientifica di vita. Perché le scienze cosiddette “dell’uomo” riconoscono il vivente umano nei modi dettati dalla biologia. Perché la cellula può essere considerata un piccolo mondo vivente, in cui s’è concentrata l’intera serie delle reazioni chimiche.
Alle radici della definizione di morte cerebrale si ritrovano simili atteggiamenti. Due “progressi” della tecnica medica costringono ad abbandonare il criterio tradizionale basato sul documentato arresto dell’attività cardiaca. 1° ) Le tecniche di rianimazione cardiopolmonare che, rinviando sine die la morte di pazienti irrecuperabili, finiscono con l’esaurire comunque la disponibilità di posti letto sottraendoli a malati ragionevolmente recuperabili. 2°) Il trapianto d’organo che per avere maggiori possibilità di successo preferisce prelievi a cuore battente. Progressi che ci costringono a scelte, ma scelte morali da cui siamo esonerati per grazia ricevuta dalla definizione scientifica che misercordiosa ci assolve.
La ricerca della definizione di un qualsiasi concetto, si converte in ricerca del criterio per definire il concetto, e il criterio porta a ricercare il modo operativo su cui legittimare il criterio che legittimerà la definizione del concetto. Al fisico non interessa sapere cos’è la lunghezza, come al medico non importa sapere cos’è la vita o cos’è la morte. Entrambi legittimano le loro definizioni attraverso i criteri, i modi, le procedure. E’ chiaro che noi sappiamo che cosa intendiamo per lunghezza (o per morte ), solo se sappiamo dire qual è la lunghezza di un qualsiasi oggetto, (o qual è in un dato paziente il risultato di procedure cliniche che misurano l’assenza di quelle attività cerebrali assunte a segni equivalenti della vita). Il fisico, (come il medico) non chiede altro. Per trovare la lunghezza di un oggetto dobbiamo compiere certe operazioni fisiche, (ricorrere ad un modo tecnico per misurare il fatto). Il concetto di lunghezza, (come quello di morte) , viene così fissato quando le operazioni mediante le quali essa viene misurata, sono definite; in altri termini, il concetto di lunghezza (o di morte) non implica nulla di più e nulla di meno dell’insieme delle operazione mediante il quale la lunghezza (e la morte) è determinata[29]. Il concetto di Morte s’identifica nella definizione di morte cerebrale, ed è sinonimo delle operazioni cliniche che la veri-ficano, allo stesso quello di vita è sinonimo delle misurabili reazioni chimiche corrispondenti e quello di persona nella verificabile organizzazione dell’ embrione. Il che significa un mutamento di ampia portata in tutti i nostri ambiti di pensiero, in quanto non ci permetteremo più di usare come strumenti, concetti di cui non possiamo dare una descrizione adeguata in termini di operazioni.[30]
Nulla di sorprendente se la morte cerebrale assunta a legge dell’italico Stato ed a quasi “dottrina” della Chiesa, vacilli poi in ambito medico delegittimando Stato e Chiesa. E’ bastato agli scienziati verificare in altro modo gli stessi fatti. Misurare meglio i fatti; misurare altri fatti, operare con altri mezzi in altro modo[31]. Rinviata la decisione si ripropone. La scelta da prendere, irrisolvibile nell’ambito tecnico-scientifico, è assiologica e non data da una presunta nuova definizione scientifica di morte [32]
Non importa se siate pro o contro trapianti e morte cerebrale, pro o contro la persona dell’embrione. Il punto è un altro. E’ chiaro che in nessun caso si può prescindere dai fatti; ma qui non ci si limita a confondere i giudizi di fatto coi giudizi di valore, si fondano i secondi sui primi trasfigurando i fatti provvisori della scienza in articoli di fede, in assiomi sempre veri da cui con infallibile procedimento dedurre la morale universale. La biologia non ha assiomi o dogmi ma fatti; e sulle questioni non offre argomenti a nessuna delle parti per l’elementare ragione che non ha mai trattato “la persona”, “la vita”, “la morte” ma ha sempre e solo studiato oggetti vivi o morti: esseri umani, scimmie, cavie, gatti, cani, ratti. Evidenze scientifiche diventano dunque fonte della morale nel garbuglio universale. Tutto questo a dispetto del fatto non ci sono fatti morali che possano essere sperimentalmente dimostrati e nessuna nuova morale che su una moralità biologicamente dimostrata possa essere inventata.
Maria Luisa Boccia e Grazia Zuffa dietro la legge 40, intravedono operante il “biologismo legittimista”; un’ideologia diffusa e trasversale che legittima in senso “pro life” le proprie scelte legittimiste come sacralizzando la vita biologica[33]. Interpretazione che coincide con quella di Barbara Duden.
Nelle disincantate società postmoderne sarebbe ampiamente presente un atteggiamento che riveste la semplice esistenza di significato “religioso”. La “vita” viene ipostatizzata. La parola “vita” viene impiegata come sostantivo per designare una forma biologicamente specifica di esistenza materiale. Tale termine non designa altro che stadi di organizzazione di tessuti e cromosomi verificabili solo in laboratorio. Ciò nonostante in ambito costituzionale diventano un criterio determinante dell’esistenza giuridica di “una vita”. Il Bundestag assume il mandato per la regolamentazione dei diritti di soggetti la cui esistenza non può essere confermata, in senso giuridico, da alcun testimone oculare. La Chiesa, la cui conoscenza dell’essenza dell’uomo deriva non dalle scienze naturali, ma dalla rivelazione, si assume la tutela di questi stadi cellulari umani…. La novità di questo modo di pensare e di parlare passa spesso inosservata, in quanto il discorso sulla vita viene condotto come se l’oggetto in discussione fosse sempre un soggetto identico all’attuale “vita”. Come se il legislatore da secoli cercasse di tutelare la vita prenatale; come se la Chiesa avesse sempre posto l’esistenza umana e la “vita” sullo stesso piano [34].
Sebastiano Maffettone evita ogni polemica ma opportunamente e più efficacemente nota che il cerchio della vita s’allarga e diventano “persone” soggetti di diritti anche gli animali. Nulla ovviamente contro i difensori d’una Natura martoriata; ma in certe manifestazioni estreme potremmo parlare di un biocentrismo che conduce a una sorta di culto della vita. I diversi matrimoni culturali tra questo biologismo… e l’ ipotesi nietzscheiana secondo cui la vita “ costituisce la più intima essenza dell’essere” danno luogo a pericolose commistioni di assolutismo intellettuale e politico. Curiosamente, lo stesso problema, sembra valere, se non altro in parte, anche per le visioni affatto opposte del valore della vita, quali sono quelle che fanno riferimento agli interessi economici e sociali, oppure ad un’interpretazione scientifica della vita…In entrambi i casi, difetta quell’argomento fondazionale e giustificativo che serve a creare un’ontologia morale critica, su cui dovrebbe a sua volta basarsi una concezione condivisibile del valore della vita… Sostengo che non si dà un concetto della vita senza una concezione filosofica che presupponga un’adeguata teoria del valore [35].
Le grandi battaglie sull’aborto e sull’eutanasia vertono in realtà sul valore cosmico, intrinseco che noi, sia laici che credenti, in quanto viventi necessariamente attribuiamo alla nostra vita; per questo che questi conflitti hanno una natura quasi religiosa. Coloro che gridano all’assassinio sottolineano l’argomento che la vita umana inizia con il concepimento, che l’embrione è persona fin dall’inizio non perché pensano o possano dimostrare) che il feto abbia diritti e interessi, a solo per enfatizzare la profondità della loro convinzione, che l’aborto è sbagliato in quanto deliberata distruzione della vita di in organismo umano… Qualcuno si esprime in termini simili anche riguardo all’eutanasia: sembra loro naturale dire che consentire a Nancy Cruzan di morire fu una forma di assassinio. Ma intendono dire che la vita di Nancy, sia pure ridotta in quell’orribile stato, era ancora vita ; non intendono dire che fosse necessariamente contro gli interessi di Nancy permetterle di morire. Potrebbero perfino ammettere, al contrario, che fosse nel suo interesse morire [36].
Il conflitto non è tra cultura della vita ed una pretesa cultura della morte, ma, secondo Dworkin tra due modi “religiosi” d’intendere la vita; tra quelli che ritengono che la vita umana sia “sacra” in quanto biologia e quelli che sostengono che la biologia debba avere qualità aggiunte, tali da renderla vita “sacralizzata” nell’umano. L’opposizione di valore tra “quantità della vita” versus “qualità della vita” ,ciò non di meno, s’è dimostrata inconcludente. Dire che la vita abbia o debba avere delle qualità intrinseche non è la stessa cosa di attribuire valore alla vita. Se la quantità della vita è Bene che la medicina misura in ore, giorni, settimane, mesi, anni di vita aggiunta, sottratta alla morte, in che modo definire la qualità della vita? Chi può valutarla e con quali operazioni misurarla?
Nella cultura del passato un sovrastante sistema di valori condivisi attribuiva qualità alla vita; nella postmodernità nessun sistema di valori relativi sovrasta la qualità forte della vita in quanto tale. Mancano in ultimo, i significanti più forti, quelli in grado di dar valore all’esistenza umana.
L’idea fondamentale che condividiamo è che la vita umana non ha solo valore intrinseco ma è “sacra”. Alcuni lettori avranno qualche riserva nei confronti del termine “sacro”, perché suggerirà loro che la convinzione che ho in mente sia necessariamente teistica. Cercherò di spiegare perché non lo è e come possa essere interpretata, come del resto accade, sia in modo laico, sia nel modo religioso. Ma il termine “sacro” ha connotazioni religiose ineliminabili, perciò al suo posto userò talvolta “inviolabile” per intendere la stessa cosa[37].
Il termine “sacro” viene comunemente ed erroneamente confuso con le forme storiche che assume il sacro e che istituzionalizzano nel sociale e nel morale la vita religiosa. Si tratta di un termine che rimanda ad un concetto più ampio da non identificare nella reliquia di un santo, in un rito, in una confessione o in una organizzazione chiesastica. “Sacro” è l’attributo che gli storici delle religioni conferiscono ad un “oggetto” separato, inviolabile, intoccabile. Una pietra, un monte, un animale, un albero, un uomo, un’immagine da cui promana un significato trascendente percepibile. Sacro è l’oggetto ierofanico in cui il sovrannaturale si manifesta. E’ la rappresentazione simbolica e la rivelazione concreta di una potenza che appartiene ad una sfera altra, che separata dal profano quotidiano è la fonte dei suoi significati. Per quanto molteplici possano essere le forme storiche con cui le culture organizzano la vita sociale, questa inevitabilmente ruota intorno al centro simbolo di quel Sacro da cui essa scaturisce ed a cui confluisce. Quali che siano i processi che sacralizzano gli inviolabili confini della patria, la bandiera nazionale, i diritti umani o la squadra di pallone, questi sono gli stessi che hanno trasfigurato femori umani in reliquie miracolose ed antichi scritti in “Sacre Scritture”. In tutti i casi, “oggetti” inviolabili che devono essere onorati sopra ogni cosa, che impongono diritti e doveri su cui non si discute e per i quali, se necessario, si può uccidere e morire.
Ogni società fonda la propria esistenza su concetti fondamentali vincolanti, che non sono giusti né sbagliati, né veri né falsi ma “semplicemente così”. Tali concetti si rivelano in modo categorico, ovvero in qualcosa di concreto, come esistenza trascendente, valida al di là di ogni cosa concreta. L’oggetto concreto, nel quale si manifesta la trascendenza dei dati acquisiti a livello sociale, conserva la definizione di “sacro”. Nella nostra società non viene attribuito alcun carattere “religioso” ai concetti fondamentali vincolanti situati al di là del nostro orizzonte di esperienza vissuta>> Questo però non dovrebbe impedirci di supporre la possibilità dell’apparire del “sacro” da qualche altra parte. << Non trovo una spiegazione migliore della manifestazione della “vita” nel feto; dobbiamo ritenerla un “sacro” dell’epoca contemporanea>>[38].
La digressione sul “Sacro” suscita una domanda: e se la zoé dei greci, facesse parte integrante della nostra moderna “religione”? Ci acconteremo di qualche suggerimento.
Dall’età dei lumi la cultura occidentale si considera diversa, migliore di tutte le altre nascondendosi dietro l’arrogante pretesto che sarebbe secolarizzata e razionale. Poiché non esiste alcuna società che non si sia fondata su tradizioni e credenze condivise, niente sta ad indicare che la società occidentale ne sia sprovvista. La secolarizzazione ha progressivamente ristretto, se non addirittura tolto, alle Chiese organizzate il monopolio delle credenze condivise; vale a dire: credute vere ed accettate per tali dall’insieme del corpo sociale. Tuttavia, dal punto di vista dell’antropologia culturale, la marginalizzazione delle istituzioni religiose tradizionali non comporta la scomparsa nel sociale del “sacro religioso”. Esso emigra altrove, e soprattutto la dove non lo si aspetta, in particolare in quello che passa generalmente per profano[39]. Impallinati nella post-modernità tutti i volatili valori che si sollevano a qualche metro d’altezza, il diritto alla vita così ci apparirà, come propone Dworkin, né più né meno come la riformulazione laica della sacralità della vita. Diritto ampiamente condiviso che nel consenso generale rende la vita “inviolabile” poiché non abbiamo altro che la nostra biologia. Zoé religiosamente intesa nei modi chimici e nelle forme fisiche proposte dall’ istituzione che ha oggi il monopolio delle credenze condivise. Vita esattamente intesa dal dottor Bichat come l’insieme delle funzioni che resistono alla morte.[40]
Il consenso sulla divinizzazione della vita si spiega con uno spostamento semantico finora passato inosservato. Il nuovo peso attribuito alla “sopravvivenza”. Il gusto per la vita è determinato non dalla gioia per la vitalità…bensì dalla paura per la vita, per il suo possesso, per la sua sicurezza… Per riassumere storicamente dopo la morte di Madre Natura e del Dio vivente[41]… sotto una luce scialba corre, danza, si torce senza ragione la Vita, chiassosa ed impudente[42].

[1] G.Agamben, Homo Sacer, Einaudi, Torino 1995:3.
[2] Sofocle, Aiace, F.M.Pontani ( a cura di), Sofocle, Tutte le Tragedie, Newton, Roma 1991:78.
[3] J.Starobinski, Tre Furori, Garzanti, Milano 1978: 11.
[4] U.Galimberti, Il Corpo, Feltrinelli, Milano 1994:34.
[5] Trattato ippocratico; Sulla Decenza, citato da D.Gracia, Fondamenti di Bioetica, San Paolo, Milano 1993:93
[6] M.Barzaghi. Il Razionalismo e l’Incubo. Socrate e Rousseau. Rubettino, Catanzaro 2004 :27.
[7] D.Mengozzi, La Morte e l’Immortale. La Morte Laica da Garibaldi a Costa. P.Laicata editore, Bari 2000.
[8] G.Simmel, Il Conflitto della Civiltà Moderna, SE, Milano 1999: 11-25.
[9] Z.Bauman, Il Teatro dell’Immortalità, Il Mulino, Bologna 1995:13.
[10] S.Freud, Considerazioni attuali sulla Guerra e la Morte Caducità, Editori Riuniti, Roma 1982: 74-75.
[11] G.Simmel, op.cit21
[12] Ibidem: 22
[13] Ibidem: 23.
[14] Ibidem: 23.
[15] J.B.S.Haldane,The Origin of Life, Rationalist Annual 1928: 148-153.
[16] J.W.S.Pringle,L’Evoluzione della Materia Vivente, in AA.VV. L’Origine della Vita, Feltrinelli, Milano 1962:142-159.
[17] J.D. Bernal, Le Basi Fisiche della Vita, in AA.VV. L’Origine della Vita, Feltrinelli, Milano 1962:41
[18] J.D.Watson, A.Berry, DNA, Il segreto della vita, Adelphi, Milano 2004:73.
[19] Ibidem: 12.
[20] R.Dawkins, Il Gene Egoista, Mondadori, Milano 2003.
[21] E.Boncinelli, Genoma, il Grande Libro dell’Uomo, Mondadori, Milano: 19
[22] Ibidem: 46
[23] E.Mayr, Storia del Pensiero Biologico, Bollati Boringhieri 1990: 53.
[24] J.B.S.Haldane,The Origin of Life, Rationalist Annual 1928: 148-153.
[25] R.Dworkin, Il Dominio della Vita, Edizioni di Comunità, Milano 1994:5.
[26] B.Duden, Il Corpo della Donna come Luogo Pubblico, Bollati Boringhieri, Torino 1994: 29-30.
[27] R.Prodomo, L’Embrione tra Etica e Biologia, ESI, Napoli 1998:43.
[28] S.Maffettone, Il Valore della Vita, Mondadori, Milano 1998:78.
[29] P.W.Bridgman, La Logica della Fisica Moderna,Bollati, Boringhieri, Torino 1965:5
[30] Ibidem
[31] R.D.Truog. E’ Venuto il Momento di Abbandonare la Morte Cerebrale, in R.Barcaro e P.Becchi (a cura di), Questioni Mortali. L’Attuale Dibattito sulla Morte Cerebrale e il Problema dei Trapianti, ESI, Napoli 2004: 205-230
[32] R.Barcaro e P.Becchi (a cura di), op. cit.: 25
[33] M.L.Boccia, G.Zuffa, L’Eclissi della Madre, Pratiche Editrice, Milano 1998,
[34] B.Duden, op.cit, 123.
[35] S.Maffettone, op.cit.: 120-121.
[36] R.Dworkin, Il Dominio della Vita, Ed. di Comunità,Milano 1994:27
[37] Ibidem: 33.
[38] B.Duden, op.cit.:122-123
[39] G.Rist, Lo Sviluppo. Storia di una Credenza Occidentale, Bollati Boringhieri, Torino 1997:28.
[40] S.Bichat, Ricerche Fisiologiche sopra la Vita e la Morte, Domenico Chianese, Napoli, 1806: 11
[41] B.Duden, op.cit.:124
[42] C.Baudelaire, La Fine del Giorno in I Fiori del Male, Feltrinelli, Milano 1964:249.

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