La scelta di procreare tra liberta’ e limiti: considerazioni a margine della recente legge sulla procreazione medicalmente assistita*
Franca Meola
1. Il recente dibattito parlamentare sulla procreazione medicalmente assistita, che proprio in questi giorni conclude il lungo e travagliato iter di approvazione della legge[1]che ne disciplina le modalità e i limiti di accesso, dà oggi nuova centralità ad uno dei più delicati e controversi temi della bioetica.
Il ricorso alle più moderne tecniche di riproduzione elaborate dalla scienza medica costituisce, infatti, da sempre una delle più intricate problematiche del dibattito bioetico.
A riprova di ciò, sarebbe sufficiente riflettere sui numerosi interrogativi di natura etica sollevati dall’impiego di talune tecnologie altamente sofisticate, al limite della manipolazione genetica.
Ad essi, peraltro, si sono contemporaneamente accompagnate più stringenti preoccupazioni di natura normativa riguardanti sia la definizione del trattamento giuridico da riservare a tali tecniche, sia la determinazione dello status dell’embrione.
La complessità della tematica in esame, tuttavia, è destinata a perdersi nel caso in cui si mancasse di sottolineare che quella innescata nell’ambito delle scienze biomediche dal secolo “biotech”[2]è solo la miccia di un più vasto rivolgimento della realtà che, lungi dal confinare sul piano strettamente scientifico i suoi effetti, ha ricadute sociali importanti.
Benché, infatti, astrattamente finalizzate solo “a favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana”[3], le tecniche di procreazione medicalmente assistita, nella pluralità e diversità delle loro applicazioni, hanno finito, col tempo, per ridefinire i concetti di paternità e di maternità, grazie al più stretto ancoraggio della scelta di un figlio a quel principio di autodeterminazione che sottrae la nascita all’imprevedibilità del caso e l’annovera tra le possibilità di scelta del soggetto.
Al tempo stesso, tali pratiche hanno inevitabilmente ridisegnato i rapporti sociali e parentali, attraverso la moltiplicazione dei soggetti a vario titolo partecipi dell’evento procreativo.
Soprattutto, il ricorso alle stesse ha indotto a mettere in discussione il significato stesso di nascere, allorquando, con interventi manipolativi dei geni, si promettono, addirittura, “figli su misura”[4].
C’è ormai una letteratura specialistica, quotidianamente alimentata dai fatti di cronaca, che ci pone dinanzi a casi, a volte sconcertanti, che esemplificano con chiarezza le dimensioni e i toni dell’attuale dibattito, alimentato dal diffuso ricorso alla fecondazione artificiale[5].
Tra le tante, assai inquietante è la vicenda di una coppia sterile italo-portoghese che avrebbe acquistato i gameti maschili e femminili in due diversi Paesi, avrebbe poi trovato la donna portatrice dell’embrione così creato in un terzo Paese; il parto sarebbe avvenuto in California, ma, una volta nate, le due gemelline sarebbero state rifiutate e affidate da un Tribunale ad una coppia di lesbiche[6].
Il caso, della cui veridicità si è fortemente dubitato, è significativo perché, seppure non reale, è certamente realistico, mostrando, da un lato, fin dove è oggi veramente possibile spingersi attraverso l’acquisto di gameti e l’affitto d’utero, nella ricerca di un figlio[7]; e, dall’altro, quale è lo scotto che, in assenza di regole certe, paga il figlio tanto voluto e così generato, allorquando viene a trovarsi nella condizione di dover subire, a suo danno, una scelta assai grave: quella di chi, dopo averlo tanto desiderato, poi lo disconosce, lo rifiuta, non lo accetta come suo[8].
Ancor più, però, la vicenda è espressiva di un ulteriore e più specifica conseguenza del ricorso alla fecondazione artificiale, strettamente congiunta agli aspetti sin qui considerati: si è al riguardo acutamente osservato come, nel porre in primo piano “il progetto di filiazione”, il ricorso alle nuove tecniche di riproduzione ha contribuito in maniera significativa a “valorizzare la tendenza alla debiologizzazione o smaterializzazione”[9]del fondamento dei rapporti familiari, nel solco di un processo inauguratosi in materia con la novella del diritto di famiglia.
Ma, si noti, la “debiologizzazione” del concepimento e della nascita, accompagnata alla loro medicalizzazione, finisce con lo sbiadire sempre più la costruzione classica della genitorialità e a sovrapporvi l’immagine di “madri e padri rarefatti”[10], perché non più insostituibili protagonisti dell’evento procreativo.
Ecco allora emergere un quadro d’insieme assai stridente nei suoi vari aspetti; in esso il desiderio di un figlio diventa causa prima della sua nascita, che oramai s’atteggia come una possibilità di scelta oggi offerta laddove un tempo regnavano il caso e la necessità. La volontà di procreare, tuttavia, si disgiunge dall’essere biologicamente coinvolti nel processo causativo dell’evento e si salda piuttosto all’intervento di terzi, sostanziandosi di esso. Nel divario così creatosi tra elemento volontaristico ed elemento materiale della generazione s’impone, allora, un dubbio, dalla valenza propriamente giuridica, su chi, tra i vari soggetti differentemente coinvolti nel concepimento e nella nascita, debba ritenersi responsabile nei riguardi del “figlio della provetta”.
Né la necessità di dare certezza giuridica alle nuove relazioni sociali e parentali create dalla scienza può dirsi l’unica problematica bisognosa di una chiara definizione normativa.
In verità, il ricorso alle pratiche di fecondazione assistita pone una serie di questioni irrisolte: legittimità del ricorso alle tecnologie riproduttive; individuazione dei soggetti legittimati ad accedervi; limiti all’uso delle stesse nel e per il rispetto dei diritti dei soggetti coinvolti, in specie per la migliore tutela del figlio così generato.
Sottese a queste è la discussa portata e la ancor più controversa definizione della valenza costituzionale di un diritto rispondente ad uno dei più intimi bisogni dell’uomo: procreare.
A tali interrogativi, peraltro, ed a causa della continuità delle tecniche di procreazione medicalmente assistita alle più diverse applicazioni dell’ingegneria genetica, alle quali esse pur non sono riducibili[11], se ne accompagnano altri di più largo respiro che investono il fondamento del rispetto della vita umana, della dignità dell’uomo e di suoi diritti[12].
Le considerazioni sin qui svolte valgono a dare il senso della complessità della tematica in esame, quale si manifesta non solo sul piano etico - sociale, ma anche su quello propriamente giuridico. Una complessità di cui, peraltro, occorre avere piena consapevolezza, specie oggi, ai fini di un’analisi critica delle scelte operate in materia da parte del legislatore.
2. A conclusione di un dibattito protrattosi per oltre venticinque anni, e dopo numerosi tentativi di normazione della materia, tutti ugualmente naufragati nello scontro tra laici e cattolici, una maggioranza trasversale alle diverse forze politiche e partitiche presenti in Parlamento, l’11 febbraio scorso, ha definitivamente approvato le norme in materia di procreazione medicalmente assistita.
In tal modo, il legislatore ha dato, infine, risposta a quella richiesta di “ordine giuridico”, da tempo additata, dai più, come assolutamente strumentale a garantire, in materia, un “ordine tecnologico”[13].
Si tratta, tuttavia, di una risposta che, proprio a tali scopi, risulta davvero opinabile.
Il testo della legge infine licenziato, appare, infatti, tutt’altro che in grado di offrire soluzioni adeguate alla molteplicità e diversità delle questioni connesse alla diffusione delle nuove tecnologie riproduttive.
E’ una legge cieca di fronte alla realtà delle cose, offensiva della libertà delle persone, pericolosa per la salute delle donne, invisa dalla stessa comunità scientifica.
In essa, poche sono le disposizioni giuridicamente apprezzabili, molte quelle davvero opinabili.
Tra le prime, occorre indubbiamente annoverare quella fissata all’art. 9, comma 1, in cui, nel definire gli strumenti di tutela dei nati a seguito dell’applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita, il legislatore, oltre a specificarne lo status[14], prevede, tra l’altro, il divieto di disconoscimento della paternità da parte di chi abbia preventivamente manifestato il proprio consenso al ricorso a pratiche di fecondazione assistita di tipo etorologo.
In tal modo prende forma, nel panorama legislativo italiano, un efficace strumento di tutela del nato in conseguenza del ricorso alle nuove tecnologie riproduttive di tipo eterologo che, nel più vasto contesto europeo, è già stato normativamente regolato dalla legge spagnola che, in presenza di un’inseminazione artificiale con ricorso a banche di seme gestite da alcuni centri autorizzati, vieta ai coniugi che hanno prestato il proprio consenso di impugnare la filiazione[15].
Il richiamo alla legge che in Spagna disciplina le tecniche di procreazione medicalmente assistita non deve, peraltro, indurre a troppo facili assimilazioni tra modelli, culturali prima ancora che giuridici, differenti.
Al riguardo, è opportuno notare come, a differenza di quanto stabilito in quest’ultima, nelle previsioni e nella volontà del legislatore italiano il divieto di disconoscimento della paternità consegue alla violazione di un ulteriore e più significativo divieto, quale quello del ricorso a tecniche di procreazione assistita di tipo eterologo[16].
Tale ultima disposizione, peraltro, vero elemento portante l’intera struttura normativa italiana in materia, svela la decisa opzione da parte del legislatore nazionale a favore di una regolamentazione della problematica in esame di stampo chiaramente proibizionista.
Sotto tale profilo, si evidenzia, allora, tutta la difficoltà di operare una comparazione con la normativa spagnola, il cui impianto, al contrario, si presenta indiscutibilmente liberale. In particolare, la diversa prospettiva da cui si pone il legislatore italiano impedisce di spiegare il divieto d’esercizio dell’azione di disconoscimento della paternità in base a quel binomio libertà/responsabilità di scelta su cui, invece, si fonda la disciplina dettata dal legislatore spagnolo.
Ma, la logica proibizionista cui l’organo legislativo italiano informa le proprie scelte in tema offre all’analisi spunti di riflessione, il cui interesse trascende i più limitati fini di un’indagine comparativa.
Anzitutto, si tratta di una logica non scevra da pregiudizi etici.
Sotto tale profilo, non è certo difficile inquadrare le scelte del legislatore all’interno di quella contrapposizione bioetica laica – bioetica cattolica o religiosa che, specie in Italia, è stata valorizzata “in modo assolutamente particolare”[17].
In particolare, vietando la fecondazione eterologa, il legislatore, apertamente, fa propri i dettami del Magistero cattolico, che condanna tale pratica in quanto “contraria all’unità del matrimonio, alla dignità degli sposi, alla vocazione propria dei genitori ed al diritto del figlio di essere concepito e messo al mondo nel matrimonio e dal matrimonio”[18].
È questa una posizione chiaramente diversa e indiscutibilmente distante da quella espressa dalla componente laica del dibattito bioetico italiano.
La visione “più tollerante, libertaria, e pluralista delle questioni bioetiche” proposte da questa parte “anti/dogmatica piuttosto che anti/religiosa”[19]ha, infatti, da sempre ricacciato l’idea dell’esistenza di superiori valori cui sacrificare l’autonomia individuale, affermando, al contrario, specie in tali ambiti, l’assoluta preminenza di quest’ultima. Conseguentemente, il ricorso a pratiche di fecondazione eterologa, lungi dal dirsi eticamente inaccettabile, è stato, al contrario, inteso come assolutamente strumentale all’esercizio di quella libertà di procreare, che rappresenta una delle modalità attraverso cui si realizza il libero sviluppo della personalità umana.
Considerata in tale prospettiva, ben può dirsi, allora, che la scelta legislativa ha una precisa vocazione etica, di stampo confessionale, ed anzi propriamente cattolico, che ne spiega il contenuto.
La stessa, tuttavia, pone problemi giuridici di certa complessità.
Anzitutto, nella prospettiva di un ordinamento, quale il nostro, informato ai principi di laicità[20]e pluralismo è impossibile non chiedersi se la scelta legislativa, invocata quale strumento di composizione di conflitti sociali, possa sposare una precisa opzione etica in campo e, conseguentemente, stabilire in maniera autoritativa ciò che è giusto[21].
Il rischio, infatti, è quello di una delegittimazione sociale della scelta politica fatta, quale si cristallizza in una legge che, non a torto, potrebbe definirsi manifesto: impeccabile nelle sue affermazioni di principio, ma assolutamente inapplicabile sul piano pratico, e non già perché priva di una puntuale disciplina di attuazione, ma in quanto mancante di riscontro nella coscienza di quella parte sociale che la ritiene contraria ai propri principi etici.
In tal modo, però, il discorso si sposta su un piano alquanto scivoloso. All’osservazione precedente, infatti, è facile opporre, benché si tratti di un argomento assai formalistico, che la legittimazione sociale è cosa diversa dalla legittimazione politica; e solo quest’ultima, non la prima, determina la legittimità di una qualsiasi scelta normativa.
Considerazioni di tal genere aprono la trattazione del tema ad ulteriori problematiche di più largo respiro, per le quali sarebbe necessario un approfondimento che, tuttavia, trascende i limiti del presente contributo.
Conviene, pertanto, trascurando queste, trasferire l’asse della riflessione sul piano propriamente normativo, ed anzitutto costituzionale, per quindi valutare la rispondenza ad esso delle determinazioni legislative.
In tal prospettiva, particolarmente interessante risulta, allora, un’indagine finalizzata a stabilire se la disposizione che vieta il ricorso al seme di un donatore esterno alla coppia, ai fini della realizzazione di un progetto filiale, possa spiegarsi alla luce della costruzione giuridica, ed in primis costituzionale, del rapporto parentale.
3. Ad un’attenta analisi della ratio sottesa al divieto in esame, è evidente che l’intento del legislatore in materia di filiazione è quello, per il futuro ed in conseguenza della razionalizzazione del ricorso alle tecniche di procreazione che egli si propone, di rifondare tale rapporto sul dato biologico, considerato quale luogo di fondazione e fonte di certezze dei diritti del nascituro.
L’assoluta preminenza in tal modo accordata alla verità biologica dimentica, tuttavia, la continua tensione in cui il favor veritatatis (ossia, la tendenza a far coincidere il dato formale della filiazione con il rapporto biologico di sangue tra generante e generato) vive, rapportandosi e combinandosi, nella definizione del rapporto parentale, anzitutto con il favor legitimitatis. Un principio, quest’ultimo, che, circoscrivendo le ipotesi di contestazione della legittimità della filiazione, risulta chiaramente preordinato alla tutela dell’unità e dell’intangibilità della famiglia legittima.
Neppure un’accurata esegesi delle conferenti disposizioni del Testo Costituzionale consente di attribuire in ogni caso un valore preminente alla verità biologica.
La solenne dichiarazione con cui s’apre l’art. 29 della Costituzione sembra, anzi, piuttosto sancire una prevalenza dell’elemento formale, in funzione della tutela dell’istituzione famigliare.
Indiscutibilmente, tale affermazione viene poi temperata alla luce del terzo comma dell’art. 30 che apre al diritto al riconoscimento della propria identità biologica.
Tuttavia, ad una più attenta analisi del combinato disposto dalle menzionate disposizioni, si evince come la costruzione costituzionale del rapporto parentale, più che consacrare una verità come assoluta, è “nel senso di un ragionevole punto di equilibrio tra le due verità” [22].
Il riconoscimento del diritto alle proprie origini genetiche viene, infatti, ad essere subordinato, oltre che alla compatibilità con i diritti dei membri della famiglia legittima (art. 30, 2 comma, Cost.), al rispetto della legge, che detta le norme e i limiti per la ricerca della paternità (art. 30, 3 comma, Cost.).
Né è possibile avallare la scelta del legislatore alla luce della novella del diritto di famiglia del ’75, ritenendo che quest’ultima si pronunci per l’assoluta preminenza del dato biologico nella definizione del rapporto di filiazione.
Certamente è evidente nella legge del 1975 una maggiore attenzione verso la ricerca della verità in ordine alle origini biologiche del nato.
Laddove, infatti, il codice civile del 1942 tendeva, in difesa dell’istituzione famigliare e per la salvaguardia della condizione più tutelata per il figlio, ad attribuire a questi lo stato legittimo anche in circostanze in cui era estremamente improbabile che fosse tale, la riforma rivaluta l’esigenza della certezza biologica del rapporto filiale, consentendo la ricerca del vero genitore in casi ben più numerosi rispetto al passato. La possibilità ora riconosciuta non solo alla madre, ma allo stesso figlio (qualora questi abbia raggiunto la maggiore età) di agire per il disconoscimento della paternità, costituisce l’espressione più immediata della nuova sensibilità mostrata dal legislatore nei riguardi del fondamento biologico del rapporto di filiazione.
Tuttavia, il senso e la portata della tendenza della novella del diritto di famiglia a far coincidere il dato formale con quello naturale devono essere ben intesi. Il rischio, infatti, è quello di equivoci e travisamenti.
Al riguardo, e superando troppe facili interpretazioni della stessa, si è acutamente osservato che “se la riforma tende a far coincidere realtà naturalistica dei rapporti e loro qualificazione formale, con ciò non si esprime l’astratto omaggio alla verità intesa come valore assoluto, ma piuttosto si attua quel principio di responsabilità per la procreazione enunciato al primo comma dell’art.30 Cost.” [23].
Il diritto/dovere di mantenere, istruire ed educare i figli, fissato dalla menzionata disposizione costituzionale, viene qui correttamente inteso come specificazione di un più generale principio di responsabilità che incombe sui genitori per il fatto stesso della procreazione e, trascendendo i singoli momenti individuati in Costituzione, assurge a principio/guida della disciplina del rapporto filiale.
È questo principio la vera ratio della riforma del diritto di famiglia. Una riforma che fa della verità biologica non un obiettivo fine a se stesso, ma uno strumento per garantire piena parità, quanto alla tutela dei propri diritti, tra figli nati fuori e dentro il matrimonio. E ciò perché nonostante le indicazioni di politica legislativa di particolare importanza emergenti dalle direttive dell’art. 30 Cost., intese a rimuovere fattori di discriminazioni dei figli nati fuori dal matrimonio, e nonostante il fatto che singole norme del codice civile del 1942 avevano esteso la tutela della prole illegittima, il regime complessivo di quest’ultimo, fino al 1975, aveva continuato a circoscrivere i doveri dei genitori, l’ambito degli accertamenti di stato ed i loro effetti in modo tale da riservare ai figli nati fuori dal matrimonio una condizione di grave discriminazione personale e patrimoniale.
E’ del tutto evidente, allora, come, nel concepire la verità biologica del tutto strumentale rispetto alla tutela della prole, la riforma del diritto di famiglia finisca per esaltare il principio della responsabilità procreativa, senza in alcun modo rendere il fattore genetico un dogma.
Ancor più, “il principio della responsabilità procreativa, lungi dall’essere una eccezione alla regola generale della filiazione, sembra anzi, costituire il vero fondamento costituzionale di questa”[24].
Le considerazioni qui svolte mostrano chiaramente quanto sia complesso il quadro normativo in cui deve necessariamente inserirsi, per il profilo in esame, la recente legge sulla procreazione medicalmente assistita. Una complessità che, tuttavia, dal tenore delle disposizioni in essa fissate, non sembra sia propriamente conosciuta dall’organo parlamentare.
Se, infatti, s’interpreta la disposizione che vieta il ricorso alle tecniche di procreazione assistita di tipo eterologo come strumentale alla difesa della verità biologica del rapporto di filiazione, la stessa può considerarsi giuridicamente opinabile, appunto perché posta in mancanza di una approfondita riflessione sul significato ed i limiti del principio di verità.
Disponendo in tal modo, il legislatore svela, inoltre, una comprensione assolutamente superficiale di quella complessa giurisprudenza di cui fa proprio solo il principio enunciato, non anche i presupposti sui quali esso regge, né le implicazioni.
In effetti, nella perdurante assenza di un preciso quadro normativo di riferimento, in questi anni, sono stati i giudici che, con pronunce assai significative per il contenuto, spesso sofisticate per i meccanismi interpretativi utilizzati, ma sempre più urgenti e necessarie alla luce dei fatti di cronaca che ne hanno sollecitato l’intervento, hanno cercato, nel rispondere altresì alle nuove esigenze sorte in seno alla società, di apprestare una particolare tutela per il “figlio della provetta”, specie rispetto all’esperibilità in suo danno dell’azione di disconoscimento.
Chiamato, in ultimo, a pronunciarsi su di una domanda di disconoscimento di paternità, per assenza di ogni legame biologico nel rapporto di filiazione contestato, causa il ricorso alla fecondazione eterologa, il Tribunale di Napoli, sconfessando la precedente giurisprudenza[25] e forte di una precisa affermazione di principio da parte della Corte di Cassazione[26], giunge, infine, a sentenziare, che “non è contestabile con l’azione di disconoscimento della paternità la legittimità del figlio nato a seguito di inseminazione eterologa”[27].
Prima ancora del legislatore, dunque, sono stati i giudici, a mezzo della sentenza ora menzionata, ad affermare un principio di giustizia che, pur di rottura rispetto ad una consolidata tradizione giurisprudenziale, è immediatamente apparso più rispondente ad una realtà oramai modificata dalla scienza e dalla tecnica, ed in cui s’avverte la necessità di responsabilizzazione di scelte che sono il frutto delle nuove libertà offerte da queste ultime.
Soprattutto, ai fini dell’analisi che c’impegna, è importante sottolineare che, pronunciandosi contro l’esperibilità nel caso di specie dell’azione di disconoscimento, i giudici (a differenza di quanto accade oggi per il legislatore) non solo mostrano di aver ben inteso la reale portata del jus veritatis, ma soprattutto svelano la possibilità di trarre, da una successiva elaborazione dello stesso, soluzioni coerenti con la specificità delle tecniche di procreazione assistita
Un’elaborazione che segna, infine, l’affermarsi, nell’ambito e a fondamento del rapporto di filiazione, di un nuovo principio: il favor affectionis.
Quest’affermazione di principio si pone, peraltro, a conclusione di un iter argomentativo assai interessante che si snoda nella ricerca di quel quid pluris che, ad avviso del Collegio partenopeo, è necessario ai fini dell’esperibilità dell’azione di disconoscimento di cui all’art. 235 c.c. rispetto alla mera dimostrazione della ricorrenza delle situazioni in esso indicate e che non può, secondo esso, essere fatto consistere in un rapporto adulterino, inteso come “rapporto sessuale con persona diversa dal coniuge”, come fa invece la Corte Costituzionale[28].
Questa ricerca muove dalla presa d’atto che esiste oggi, in conseguenza del ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, una scissione tra sessualità e procreazione che, sebbene non contemplata dal legislatore, obbliga il giudicante, chiamato a decidere sulla legittimità del rapporto di filiazione, a distinguere tra procreazione naturale e procreazione assistita.
Nella procreazione naturale, infatti, “la paternità viene attribuita sulla base del mero dato biologico e senza alcun riguardo alla componente volitiva che accompagna l’atto sessuale, non rilevando di conseguenza il disvolere o il rifiuto del padre ai fini dell’accoglimento dell’azione di disconoscimento”[29].
Nell’ipotesi di fecondazione eterologa, invece, occorre verificare se vi sia stato o meno il consenso del padre all’adozione di tali tecniche, “ammettendosi il disconoscimento solo in caso di mancata assunzione volontaria di responsabilità paterna da parte del marito, ossia di un suo valido e consapevole consenso al ricorso ad esse”[30].
In quest’ultimo caso, insomma, “il presupposto dell’azione di disconoscimento deve essere individuato non più nella sola assenza del rapporto biologico tra il presunto padre e il figlio, e quindi in modo restrittivo nel rapporto sessuale della moglie con un terzo, ma nell’assenza di qualsiasi partecipazione del padre al fatto che ha dato origine alla nascita del bambino”[31].
La sentenza dei giudici napoletani, segnando nell’ambito della giurisprudenza italiana quel rivolgimento d’orientamento in materia di filiazione già proprio di parte della giurisprudenza d’Oltralpe[32], mette, insomma, definitivamente, in luce l’insufficienza del mero substrato biologico ai fini dello status filiale ed àncora, quindi, il concetto giuridico di paternità altresì “al principio di responsabilità della procreazione e di conseguenza all’aspetto comportamentale sociale ed affettivo”[33].
Siamo in presenza di un’affermazione importante, che, idealmente, chiude il cerchio.
Tirando le fila del discorso sin qui condotto, è possibile sostenere, infatti, che, se, con la riforma del diritto di famiglia del 1975, il favor legitimitatis, ossia la tendenza a circoscrivere le possibilità di contestazione della legittimità della filiazione, viene scalzato dal favor veritatis e, quindi, dalla ricerca di una maggiore aderenza del dato formale a quello biologico, ora, invece, è la “verità biologica” che sembra soccombere dinanzi a ad un nuovo principio: il favor affectionis, che, al contrario, insiste sull’importanza del dato volitivo nella costruzione del rapporto parentale.
Ma, a ben intendere il significato di quest’ultimo, lo stesso costituisce un’applicazione ai casi di procreazione assistita di quel principio di responsabilità procreativa che, nei casi di procreazione naturale, è invece sotteso al criterio biologico.
I criteri che nell’una e nell’altra ipotesi guidano all’individuazione del rapporto di paternità, mirano, in sostanza, entrambi ad una responsabilizzazione della scelta di procreare a favore di colui, in conseguenza di tale scelta nascerà.
Le considerazioni fin qui svolte sono davvero importanti.
In ragione delle stesse, infatti, il divieto di disconoscimento della paternità fissato dal legislatore appare giuridicamente puntuale. Esso, infatti, risulta perfettamente rispondente a quell’esigenza di responsabilizzazione delle scelte procreative su cui oggi s’incardina, in ogni suo aspetto, il rapporto di filiazione.
Quest’esigenza, anzi, è talmente tanto avvertita dal legislatore che sulla base della stessa viene addirittura scritta un’ulteriore disposizione. Sempre nell’art.9, infatti, al 2° comma, si trova, altresì, fissato il divieto di anonimato della madre che abbia fatto ricorso a pratiche di procreazione medicalmente assistita. Si tratta di una disposizione che, benché in deroga ad una generale libertà, come ha opportunamente sottolineato un fine giurista quale Pietro Rescigno[34], è perfettamente coerente con il principio di autoresponsabilità cui il legislatore sembra ispirarsi.
Incomprensibilmente, però, quando si tratta di riferire tale principio alla scelta della metodica da utilizzare ai fini della procreazione, lo stesso viene addirittura sconfessato.
Paradigmatica, in tal senso, è proprio la disposizione che vieta il ricorso alle pratiche di fecondazione eterologa. A differenza delle più complesse tecniche di fecondazione in vitro, “in cui il problema della scelta individuale è complicato dal fatto che la produzione di embrioni in provetta crea una situazione di potenziale conflitto tra scelte individuali e un interesse, quello dell’embrione, terzo rispetto a che deve prendere la decisione di avvalersi delle N.T.R.”[35], la fecondazione eterologa non sembra, infatti, porre particolari problemi di mediazione della scelta di procreare con interessi di altri[36].
In particolare, la contrarietà di tale pratica agli interessi del minore appare oramai un argomento giuridico assai debole.
Alla luce delle considerazioni sin qui svolte, ad esempio, può dirsi ormai destituita di ogni fondamento la preoccupazione di quanti hanno da sempre lamentato un possibile contrasto tra il ricorso a tale tecnica procreativa e il bisogno di certezza circa lo status del figlio nato grazie al ricorso a pratiche di inseminazione eterologa.
Il divieto in esame, inoltre, non sembra neppure potersi giustificare alla luce di un presunto “diritto alle origini” del nato.
Per una corretta impostazione del problema, appare anzitutto opportuno precisare che “la questione del diritto a conoscere le proprie origini biologiche travalica il mero aspetto dell’accertamento di status: si tratta dell’affermazione di un diritto della personalità all’accesso alle fonti d’informazione, ai documenti e agli atti di stato civile da cui risulta l’identità dei genitori, senza che la conoscenza della verità, una volta raggiunta, possa influire sull’accertamento giuridico dello status”[37].
Sotto tale profilo, il conflitto tra l’interesse del donatore a restare anonimo e il diritto del figlio alla verità circa la propria discendenza bio-genetica (quest’ultimo inteso come integrante un profilo del più generale diritto della personalità) costituisce una problematica la cui risoluzione, a ben riflettere, trascende l’ambito della sola fecondazione eterologa. Essa, piuttosto, passa attraverso la rimeditazione di quale sia il rilievo accordato all’interesse della persona a conoscere le proprie origini all’interno del più vasto ordinamento giuridico. Si pensi ai figli legittimi ma adulterini, e, ancor più, a quell’istituto che, ab antiquo, recide i rapporti tra il figlio ed i genitori naturali: l’adozione.
Se, allora, leggiamo la disposizione, che oggi vieta, in linea di principio, la possibilità di instaurare una relazione giuridica tra il nato e colui che ha prestato il suo seme ai fini della fecondazione[38], non possiamo non accorgerci di come la stessa sia perfettamente in armonia, e non già in contrasto, con il quadro normativo preesistente, che manca di riconoscere carattere assoluto ad una pretesa di tal tipo.
Sotto altro aspetto, in quanto cioè risvolto strumentale del diritto fondamentale alla salute, è indubbio che il bisogno di verità sulle proprie origini esprime, da parte del figlio, un’esigenza di salvaguardia della propria persona che, al contrario, è assolutamente preponderante rispetto ad ogni altro bene/interesse con esso confliggente.
La necessità di rendere possibile la conoscenza di quelle informazioni che valgono a curare talune malattie a carattere ereditario dà, in questa ipotesi, sicuro fondamento giuridico alla richiesta d’accesso alle generalità dei donatori[39].
In questo senso, sorprende, allora, ed anzi costituisce un grave vulnus del diritto costituzionale alla salute, l’assenza nel testo di legge approvato di una specifica disposizione (presente, invece, nel testo originariamente discusso dalla Camera), in cui, il legislatore italiano, fermo restando il principio su enunciato, espressamente si preoccupava di assicurare ai nati da tecniche procreative eterologhe prima dell’entrata in vigore della legge la possibilità di accedere ai dati identificativi del donatore per un’esigenza di salvaguardia della salute degli stessi.
Ma, se le considerazioni sin qui svolte non valgono a spiegare il divieto prospettato dal legislatore quanto al ricorso all’inseminazione eterologa, lo stesso non po’ neppure dirsi una statuizione dovuta in conseguenza di una precisa censura di illegittimità di tale pratica da parte della Corte Costituzionale.
L’unica sentenza pronunciata in tema da quest’ultima[40], infatti, si mostra (sebbene si tratti di una delle possibili chiavi di lettura della stessa) possibilista ed aperta quanto all’accoglimento di tale tipo di pratica nel nostro ordinamento.
La Corte, si noti, non si esprime sulla legittimità dell’inseminazione eterologa, e non assume, quindi, nessuna posizione di assoluta preclusione riguardo al riconoscimento normativo della stessa; piuttosto, essa si limita a lamentare una situazione di carenza dell’attuale ordinamento che, medio tempore, deve essere riparata dal giudice, ma, infine, deve essere sanata dal legislatore “nell’individuazione di un ragionevole punto di equilibrio tra i diversi beni costituzionali coinvolti”.
L’invito alla ricerca di un giusto punto di equilibrio non sembra, tuttavia, essere stato pienamente accolto dal legislatore.
Le disposizioni sin qui analizzate, dichiaratamente ispirate al best interest del figlio, denunciano, infatti, scarsa attenzione, da parte del regolatore pubblico, nei riguardi di chi invoca l’esercizio di una libertà, quale quella di procreare, che, in quanto mezzo attraverso cui si realizza il libero svolgimento della personalità umana, ha un chiaro fondamento costituzionale.
Non possono valere a giustificare tanto le perplessità avanzate da molti sulla “libertà di procreare”, o meglio sulla copertura costituzionale della libertà di procreare “artificialmente”. È questo un profilo della problematica in esame assolutamente rilevante. La trattazione dello stesso, però, per la sua complessità, non può, in questa sede, essere esauriente. Ci si limiterà, pertanto, a poche considerazioni critiche.
Anzitutto, difficilmente contestabile pare l’opinione di quanti sottolineano che ritenere costituzionalmente garantita la sola procreazione naturale e non anche quella medicalmente assistita, significa introdurre “una restrizione della garanzia costituzionale di per sé difficilmente sostenibile”[41].
Una simile osservazione rimanda, peraltro, alla ricerca dello specifico fondamento costituzionale di tale libertà, variamente individuato ora nell’art. 2 del Testo Fondamentale ora, invece, nell’art. 32 dello stesso. Le conseguenze connesse a tali diverse impostazioni del problema sono davvero importanti. Il discorso riguarda sia i soggetti cui riconoscere l’esercizio della libertà in esame, sia gli esiti del possibile balancing test con gli altri beni e valori incisi dal ricorso alle nuove pratiche della medicina riproduttiva. Con specifico riferimento alle scelte del legislatore italiano, l’attenzione deve focalizzarsi sul disposto dell’art. 1, che, nell’indicare le finalità dell’intervento legislativo in materia, stabilisce che “il ricorso alla procreazione medicalmente assistita è consentito al fine di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana”.
Al di là dei dubbi circa la correttezza medico-scientifica dell’espressione adoperata in tale disposizione[42](ben diversa da quella agli stessi scopi utilizzata dagli altri legislatori che si sono confrontati col tema in esame[43]), questa pone problemi giuridici di non facile soluzione.
A mezzo della stessa, infatti, il legislatore italiano, che già riduce le possibilità d’accesso alle nuove tecnologie riproduttive alla sola fecondazione omologa per le coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi (art.5), limita ulteriormente il ricorso alle stesse, prevedendo che esso si realizzi soltanto “quando sia accertata l’impossibilità di rimuovere altrimenti le cause impeditive della procreazione ed è comunque circoscritto ai casi di sterilità o di infertilità inspiegate documentate da atto medico nonché ai casi di sterilità o di infertilità da causa accertata e certificata da atto medico” (art. 4, coma 1).
Conseguentemente, persone fertili ma portatrici di gravi malattie ereditarie non potranno optare per tali metodiche riproduttive, al fine di evitare la trasmissione di siffate patologie ai figli.
Considerata in tale prospettiva, quella del legislatore appare, allora, una scelta assolutamente opinabile. Essa, infatti, mette anzitutto in discussione un possibile uso di tali tecniche in funzione di garanzia del nascituro, consistente, appunto, nella possibilità di ricorrere ad esse per evitare la trasmissione di malattie genetiche al figlio. D’altro canto, è intuito che tale scelta finisce con l’ampliare, in maniera poco accorta, il novero dei soggetti cui è negata possibilità d’accesso alle nuove tecniche riproduttive. Soprattutto, ammettendo il ricorso alle stesse solo in caso di sterilità o infertilità, il legislatore chiaramente rifiuta una possibile configurazione dell’accesso ad esse in termini di scelta riproduttiva[44]. Si nega così una costruzione oramai radicatasi nella dottrina giuridica, secondo cui quella di procreare, a prescindere dal quomodo, rappresenta, appunto, una scelta che l’ordinamento non può né imporre, né vietare; può, al più, limitarla, ma ciò solo in caso di contrasto con superiori beni di rango costituzionale.
Confutando tale costruzione, le tecniche di riproduzione assistita vengono, qui, al contrario, additate come uno strumento di “cura”; da applicare, peraltro, facendo ricorso ad un discutibile principio di gradualità (art. 4, comma 2 ). Se, infatti, per gli addetti ai lavori, non ha senso parlare di gradualità quando questa comporterebbe ritardi o cicli inutili di terapie che hanno percentuali di successo molto basse[45]; per il giurista si tratta di una previsione immediatamente contraddetta dal divieto di ricorso alla donazione di gameti, che porta, di conseguenza, all’applicazione delle tecniche più invasive.
Ai fini di un’analisi esaustiva della problematica, così come oggi disciplinata dal legislatore, non si può, poi, non soffermare l’attenzione sulle conseguenze pratiche legate alla negazione della libertà d’accesso alle nuove tecnologie riproduttive.
In tal senso, è intuitivo, ad esempio, che la mancanza di una legge che autorizzi e disciplini la fecondazione eterologa finirà fatalmente per alimentare il turismo procreativo verso gli altri Paesi europei, dove tale tipo di inseminazione è, già da tempo, consentita.
Per far ciò, peraltro, è evidente che occorre denaro. Chi non lo ha, verrà condannato a non avere figli, e sarà, quindi, vittima di una discutibile discriminazione fra coppie, fondata sul censo.
L’osservazione, che riferisce all’ambito procreativo un più generale fenomeno, oramai assai diffuso, meglio noto come turismo dei diritti, non può assolutamente dirsi infondata, specie ove si consideri che, nel più vasto panorama normativo europeo in materia[46], la legge approvata dal Parlamento italiano si segnala per la sua estrema rigidità.
Focalizzando, quindi, l’attenzione sui rischi sanitari connessi alla negazione del ricorso alla fecondazione eterologa non si può celare il pericolo che la mancanza di strutture autorizzate, e, quindi, di controlli nelle donazioni di sperma, grazie al congelamento di esso e alla conservazione della documentazione sui donatori, favorirà il mercato nero e, quindi, la possibilità che si verifichino situazioni di pregiudizio della salute dei soggetti coinvolti in tali vicende.
In verità, la preoccupazione che vengano a determinarsi situazioni in qualche modo lesive della salute di tali soggetti, e, in particolar modo, della donna, è oggi destata non solo dal divieto di ricorso alla fecondazione eterologa, ma anche dalle modalità di accesso a quella omologa. Il legislatore, infatti, precisa che: “le tecniche di produzione degli embrioni … non devono creare un numero di embrioni superiore a quello strettamente necessario ad un unico e contemporaneo impianto, e comunque non superiore a tre”(art. 14, comma 2). In tal modo, è intuito il danno alla salute per la donna, costretta a continui cicli di stimolazione ovarica.
Alla disposizione da ultimo menzionata se ne affiancano, d’altro canto, delle altre, parimenti in grado di pregiudicare le ragioni dei soggetti coinvolti nella vicenda procreativa, in particolare quelle della donna.
Si pensi, ad esempio, alla mancata possibilità di revocare il consenso prestato ai fini del trasferimento in utero degli embrioni ottenuti con il ricorso alla fecondazione assistita.
In tal modo, il legislatore pone a carico dei medici l’obbligo di procedere all’impianto degli embrioni così ottenuti nell’utero della donna, anche nel caso in cui questi presentino gravi malformazioni. Si tratta di un obbligo per il cui adempimento potrebbe addirittura dirsi che il medico possa procedere coercitivamente, dal momento che, in caso di rifiuto della donna, egli non può né crioconservare (art. 14, comma 1), né utilizzare per la ricerca (art. 13), né tantomeno sopprimere gli embrioni (art. 14, comma 1).
L’analisi delle previsioni normative da ultimo menzionate, nonché di quelle che ne garantiscono l’osservanza attraverso la fissazione di pesanti sanzioni[47], anche di tipo penale, spostano il discorso su un piano molto più controverso. Tali disposizioni, infatti, concorrono, nel loro insieme alla definizione legislativa dello “statuto dell’embrione”.
E, in tal senso, esse costituiscono una chiara attuazione, dell’art. 1, comma 1, in cui si precisa che la legge “assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito”.
L’inciso finale, che pure “non aggiunge nulla di sostanziale alle garanzie e alle tutele contenute nella legge”[48]pone problemi giuridici di notevole portata.
Spingendo, infatti, verso l’equiparazione del concepito agli altri soggetti coinvolti nella vicenda procreativa, esso attacca uno dei principi cardine su cui si regge il nostro ordinamento giuridico, in cui, da sempre, l’acquisto della soggettività è subordinato all’evento della nascita.
Soprattutto, tale equiparazione mette in discussione tutto l’impianto su cui si fonda la legge sull’interruzione volontaria della gravidanza (L. 194/’78), aprendo un pericoloso varco ad una revisione totale della stessa. Attaccata nel suo cardine ideologico, la legge sull’aborto, infatti, è chiaramente esposta a rimaneggiamenti profondi, a scongiurare i quali non possono dirsi assolutamente sufficienti le rassicurazioni che di continuo provengono da quella stessa classe politica che ha approvato il testo della legge sulla procreazione medicalmente assistita. Giuridicamente, anzi, si tratterebbe di modifiche dovute, dal momento che, in mancanza delle stesse, ci troveremmo in presenza di due leggi manifestamente in contrasto tra loro.
Peraltro, la necessità di una (opinalibilissima) modifica della legge 194 si spiega solo in parte con la diversa rilevanza che, nel confronto con la legge sulla procreazione medicalmente assistita, in essa assume la posizione del concepito. Il contrasto fondamentale riguarda, infatti, la diversa percezione della vicenda procreativa sottese a ciascuna di esse. In tal senso, è indubbio che la legge sull’interruzione volontaria della gravidanza s’inscrive nel solco di quella strada che, anzitutto tracciata dalla diffusione delle tecniche contraccettive, porta a guardare alla nascita di un figlio come alla realizzazione di un “progetto” più che come alla verificazione di un “evento”.
In effetti, la diffusione delle tecnologie contraccettive getta le basi di un’importante conquista: grazie, infatti, alla possibilità che esse offrono di usare o meno le proprie forze generative, le stesse indiscutibilmente aprono al tema del “figlio voluto” che, già qui, “assume la sua straordinaria rilevanza”[49].
Ma, sia pur già schiuse dal ricorso alle tecniche contraccettive, la possibilità di riappropriarsi del proprio corpo, nonché la libertà di autodeterminarsi rispetto a scelte che, naturalmente, lo coinvolgono, sono state successivamente accentuate proprio dal ricorso, legislativamente disciplinato, all’interruzione volontaria della gravidanza, la cui legalizzazione, indubbiamente, ha finito col riproporre, sia pure nella sua connotazione negativa, il tema della procreazione quale scelta.
È evidente, da quanto sin qui detto, la distanza che separa la legge de quo da quella che oggi disciplina il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita. I limiti e i divieti che quest’ultima oppone alla richiesta di esercizio della liberta di procreare, negando all’elemento volitivo ogni rilievo nella creazione del rapporto filiale, determinano un sostanziale capovolgimento della prospettiva dalla quale riguardare la vicenda procreativa. Ed anzi, come già detto, aprono a successivi rivolgimenti legislativi, di notevole impatto sociale.
Ma, se per gli aspetti sin qui considerati, il nostro Paese va, via via, allontanandosi dal più vasto contesto europeo dove, in più Stati, è possibile registrate maggiore apertura verso queste problematiche, pressoché unanime, invece, è la condanna di tutte le pratiche manipolative dell’embrione, per fini diversi dalla procreazione, cui è sotteso il non celato timore che la scienza possa, nelle sue più infauste applicazioni, dar vita a chimere, ibridi, quando non addirittura a soggetti clonati[50].
Con specifico riguardo alla situazione italiana, è indubbio che i divieti di tal tipo fissati dal legislatore costituiscono la parte più corposa di quello che è stato immediatamente definito come “statuto dell’embrione”. Con tale espressione si allude, in effetti, a tutte quelle misure legislative finalizzate a soddisfare l’esigenza di tutela del concepito, positivizzata all’art. 1 della legge in esame.
Anche su tali prescrizioni normative, tuttavia, e nonostante la sostanziale convergenza legislativa che su di esse è possibile registrare a livello europeo, il dibattito, in Italia, lungi dall’essersi esaurito all’indomani dell’approvazione della legge in esame, è stato, al contrario, fortemente alimentato dalla stessa.
In particolare, il discorso riguarda le possibilità di successivi sviluppi della ricerca in settori assai delicati, quali quello della ricerca sulle cellule staminali embrionali[51], che, in conseguenza del varo della legge, sono destinati ad una brusca battuta d’arresto.
La rigidità del divieto di ogni sperimentazione su embrioni[52], e di, qui, delle diverse pratiche che ne costituiscono un’applicazione specifica, rappresentano, in effetti, un forte ostacolo allo sviluppo delle diverse tecniche di ingegneria genetica.
In tal modo, però, il legislatore non solo dimentica le enormi potenzialità di tali tecniche in ambito terapeutico[53], ma taglia definitivamente fuori il nostro Paese da ricerche (si pensi proprio alla ricerca sulle cellule staminali), al contrario, perseguite con vigore negli altri Stati europei e perfino da quelli meno liberali in questa materia, come la Francia e la Germania, che “tentano di allargare le maglie della propria legislazione, fino al punto di delineare una circolazione internazionale di cellule embrionali”[54].
Le considerazioni ora svolte accennano solo a problematiche assai complesse che, tuttavia, trascendendo i limiti della più circoscritta vicenda procreativa, non possono essere oggetto di più attenta analisi. Esse tuttavia confermano il giudizio assai critico originariamente espresso sulla legge in esame che, in considerazione dei contenuti, per lo più frutto di inaccettabili pregiudizi etici, oltre che di un preoccupante analfabetismo scientifico, può ben dirsi il manifesto più eloquente dell’attuale fase di transizione dello Stato italiano, non più laico, ma, oramai, dichiaratamente confessionale.
* Il presente contributo costituisce una sintesi di un più ampio saggio di prossima pubblicazione.
[1] Vedi legge n. 40, contenente Norme in materia di procreazione medicalmente assistita, definitivamente approvata dall’aula di Montecitorio il 19 febbraio 2004.
[2] Cfr. J. Rifkin, Il secolo biotech, trad. it., Milano 2000, pp. 25 ss.; cfr., inoltre, S. Rodotà, Addio al secolo biotech, in la Repubblica del 6 gennaio 1999.
[3] Cfr. già art. 1 del disegno di legge 4048 contenente norme per la Disciplina della procreazione medicalmente assistita, XIII Legislatura. Di uguale tenore letterale è, oggi, l’art. 1 della legge n. 40/2004 cit.
[4] Cfr. S. Rodotà, L’ingegneria genetica e i figli su misura, in la Repubblica del 3 dicembre 2000. In particolare, vivaci polemiche ha suscitato, tempo fa, la notizia della nascita di una banca del seme in Danimarca che, al fine di soddisfare il desiderio di un figlio con particolari caratteristiche somatiche, permetteva un’accurata selezione dei donatori; riguardo a tale vicenda, cfr. A. Polito, Figli della provetta, l’ultimo boom è il seme made in Danimarca, in la Repubblica del 12 gennaio 2000. Più di recente, la cronaca ha richiamato l’attenzione dell’opinione pubblica su di un caso davvero sconcertante in forza del quale “il menù dei bambini – su – misura si arricchisce di un nuovo piatto genetico: il figlio sordo di due mamme non udenti”. A tal proposito, cfr. A. Zampaglione, Due figli sordi per scelta: coppia lesbo dà scandalo in la Repubblica del 9 aprile 2002. Allo sconcerto destato dai numerosi casi di figli – su – misura, di cui i mezzi di informazione ci hanno dato e continuano a darci notizia, si è infine affiancata l’incredulità suscitata dall’annuncio-choc fatto con riguardo a taluni casi di clonazione umana riproduttiva. Sulle perplessità circa la veridicità di tali notizie, nonché sull’unanime condanna di queste pratiche, anzitutto da parte della comunità scientifica, cfr., in ordine di tempo, M. Cavalleri, Annuncio-choc: “Feto clonato”, in la Repubblica del 6 aprile 2002; R. Bultrini, genetica, annuncio choc a Seul. “Donna incinta di un clone”, in la Repubblica del 25 luglio 2002. Da ultimo, ha riempito le pagine dei giornali l’annuncio, fatto da una ditta americana fondata dai Raeliani, la Clonaid, della (presunta) nascita della prima bimba clonata al mondo. Sulla vicenda, cfr, D. Diena, Subito altri venti cloni, in la Repubblica del 13 gennaio 2003.
[5] Benché oramai assai diffusa nel linguaggio corrente, “si è correttamente fatto notare che l’espressione fecondazione artificiale andrebbe sostituita con quella di fecondazione assistita. Il termine artificiale tende a porsi come connotazione negativa di valore, mentre in realtà la fecondazione continua ad essere contrassegnata dalla naturalità; una naturalità che viene tuttavia favorita da un intervento di assistenza sanitaria”; così C. Magnani, La procreazione artificiale come libertà costituzionale, Urbino, 1999, p. 20. Sul punto, più accuratamente, Cfr. M. Mori, La fecondazione artificiale, Roma-Bari, 1995, p. 26.
[6] Su tale vicenda, che ha destato enorme scalpore nell’opinione pubblica, cfr. M. N. De Luca, Gemelline nate per procura diventano “figlie di nessuno”, in la Repubblica dell’8 maggio 2000; nonché S. Rodotà, Un figlio in provetta al tempo di Internet, in la Repubblica del 20 maggio 2000.
[7] E’ la cronaca più recente a rimarcare nelle vicende, spesso paradossali, ma realmente accadute, che essa ha registrato, la sconfinata ampiezza della sfera di operatività delle nuove tecniche riproduttive in funzione dell’appagamento del desiderio di un figlio; al riguardo, cfr. Francia, diventa mamma a 62 anni fecondata con il seme del fratello, in la Repubblica del 21 giugno 2001; nonché cfr. U.S.A., lesbica fecondata dal fratello, in la Repubblica del 14 luglio 2001. Da ultimo, un nuovo caso di fecondazione-choc ha riaperto le polemiche. Negli U.S.A., una donna, affittando il proprio utero a pagamento, ha dato alla luce due gemelli per una coppia italiana la quale, non potendo generare, aveva inviato per corriere alla signora due embrioni. Sul caso, cfr. M. N. De Luca, Gemelli concepiti in vitro a Roma nati in U.S.A. da madre in affitto in la Repubblica del 26 gennaio 2002; nonché il commento di U. Galimberti, La falsa scienza dell’onnipotenza, ibidem. Sotto altro profilo, le stesse scienze biomediche, negli ultimi tempi, hanno compiuto enormi passi avanti nella predisposizione di strumenti idonei ad assicurare la riproduzione umana che, in tal modo però, diviene sempre più tecnologica. In particolare, ha destato perplessità il rivoluzionario esperimento di un gruppo di ricercatori del Centro di medicina Riproduttiva della Cornell University (U.S.A.) che è riuscito a realizzare il primo prototipo di utero umano artificiale. Sul punto, cfr. C. Di Giorgio, Si potrà nascere senza la mamma. In U.S.A. il primo utero artificiale, in la Repubblica dell’11 febbraio 2002; nonché il commento di U. Galimberti, Arriva la mamma artificiale, ibidem.
[8] Sul punto, cfr., ancora, M. L. De Luca, Gemelline nate per procura diventano “figlie di nessuno” cit., S. Rodotà, Un figlio in provetta al tempo di Internet cit.; nonché, da ultimo, Gemelli nell’utero in affitto: ma ne vogliamo solo uno, in la Repubblica del 12 agosto 2001.
[9] Cfr. A. Santosuosso, Corpo e libertà, Milano 2001, p. 236.
[10] L’espressione, che, nella sua sinteticità, coglie efficacemente la nuova immagine che della genitorialità ci viene oramai proiettata dal ricorso alle TRA, viene usata da A. Santosuosso, ult. op., cit., p. 215.
[11] La necessità di tenere distinti, nella trattazione delle rispettive problematiche, il piano della fecondazione assistita da quello dell’ingegneria genetica e, più in generale, dalle diverse tecniche manipolative dell’embrione, emerge dalla riflessione in tema di numerosi giuristi. In particolare, contro la tendenza a “mescolare problemi come quello delle biotecnologie e della procreazione artificiale, che hanno sì punti di contatto, ma non decisivi”, cfr. G. Ferrando, Modelli giuridici di controllo delle tecniche di procreazione artificiale in Politica del diritto, 1991, p. 589. Al riguardo, infatti, l’A. avverte: “è vero che la tecnica della fecondazione in vitro e del congelamento di embrioni costituisce il punto d’incontro tra medicina riproduttiva e ingegneria genetica, in quanto condizione indispensabile per poter realizzare le ricerche sugli embrioni e passaggio talvolta necessario nella procreazione assistita, ma è anche vero che le finalità e le tecniche dell’una e dell’altra sono poi diverse essendo l’una diretta a far nascere una nuova vita ovviando alla sterilità dei genitori, l’altra invece, ad intervenire sul patrimonio genetico individuale”. Analogamente, il Magnani nel sottolineare che “lo sviluppo delle tecnologie e la ricerca biomedica hanno compiuto negli ultimi decenni passi enormi nello studio e nella sperimentazione avente ad oggetto materiali genetici”, precisa che “si tratta di diversi tentativi e applicazioni, che vanno dalla procreazione artificiale agli interventi sulla struttura dei componenti genetici fondamentali per fini terapeutici o di prevenzione”. Ciononostante, l’A. nota come “spesso l’immaginario collettivo, aiutato da cattiva informazione, non riesce a produrre rappresentazioni capaci di distinguere fenomeni diversi e tende piuttosto ad appiattirsi sul mero concetto di manipolazione”. “Occorre, invece,” – si rimarca con fermezza – “non confondere i fenomeni, riconoscendo la specificità di ognuno: fini procreativi e fini biomedici sono solo parzialmente assimilabili. Le TRA sono irriducibili, quanto meno per l’analisi giuridica, ad altre applicazioni, in quanto dotate di finalità distinte, peculiari. La loro essenza più intima e profonda è quella di consentire la riproduzione della specie umana mediante atti che si collocano al di fuori del vissuto sessuale della specie stessa”. Cfr. C. Magnani, La riproduzione assistita in Democrazia e diritto, 1996, p. 106; nonché La procreazione artificiale come libertà costituzionale, cit., p. 20. Ma, per una distinzione tra ingegneria genetica e inseminazione artificiale si vedano anche: F. Mastropaolo, ingegneria genetica, voce, in Digesto Disc. Priv., p. 429; G. Alpa, La procreazione artificiale tra etica e diritto, in Il diritto di famiglia e delle persone, 3, 1987, p. 952. Contra, e cioè inclini a ricondurre le TRA nell’ambito delle manipolazioni genetiche, A. Santosuosso, fecondazione artificiale umana, in Enc. Giur.; L. Lombardi Vallauri, Bioetica, potere, diritto in Justitia, 1984, p.7.
[12] Spostando l’asse della riflessione sul piano dell’ingegneria genetica risulta, in effetti, essenziale chiedersi chi sia l’uomo, quale il suo valore, quali i suoi diritti, fino a risalire alle radici dell’esistenza per indagare chi o cosa sia l’uomo in potenza, l’embrione, quali i suoi diritti, quale il risultato di un possibile bilanciamento di questi con altri diritti costituzionalmente garantiti, quale quello della libertà di ricerca, potenzialmente in grado di rendere l’embrione oggetto del suo esercizio. Sulla questione dell’embrione, cfr. L. Palazzani, Il concetto di persona tra bioetica e diritto; Torino, 19996; e, più di recente, R. Prodomo, L’embrione tra etica e biologia, Napoli, 1998.
[13] Cfr. L. d’Avach, Ordine giuridico e ordine tecnologico, Torino, 1998.
[14] Cfr. art. 8 L. n. 40/2004, cit., secondo cui: “i nati a seguito dell’applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita hanno lo stato di figli legittimi o di figli riconosciuti della coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle tecniche medesime ai sensi dell’art. 6”.
[15] Cfr. art. 8, 1° comma, della legge spagnola Sulle tecniche di riproduzione assistita del 22 novembre 1988, n. 35.
[16] Cfr. art 4, 3° comma, della L. n. 40/2004, cit.
[17] Così A. Santosuosso, Una chance per la bioetica e per il diritto, in notizie di Politeia, 1996, nn. 41-42, p. 56. Analogamente C. M. Mazzoni., La bioetica ha bisogno di norme giuridiche, cit., nota che “in nessun altro paese come in Italia la bioetica è composta e separata da due famiglie, ovvero partiti, ovvero campi, i quali intrattengono rapporti di diffidenza, di antagonismo, di sospetto, di reciproche accuse di insincerità, in una sempre nuova e rinnovata conflittualità. Esse prendono la denominazione, anch’essa oggetto di critica, di bioetica laica e di bioetica cattolica”. L’A., peraltro, non manca di mettere in luce talune conseguenze connesse a tale contrapposizione. In particolare, egli nota che “la politica italiana di questi anni recenti è parte cosciente ed avvertita di questa dualità insanabile ed approfitta di essa trasmettendo sotto forma di impossibilità di operare sul piano legislativo la propria reazione. E con essa trasmette anche e soprattutto la propria incapacità di intervento e di giudizio su uno dei campi ove l’intervento ed il giudizio della politica e del legislatore sono di fatto indispensabili”.
[18] Istruzione della Congregazione per la dottrina della fede, su il rispetto della vita umana nascente e la dignità della procreazione, p. II, n. 2
[19] Così L. Chieffi, Introduzione. Una bioetica rispettosa dei valori costituzionali, in Id (a cura di), Bioetica e diritti dell’uomo, cit., XXI.
[20] Sul carattere laico dello Stato cfr., tra le tante, la sentenza della Corte Costituzionale del 12 aprile 1989, n. 203, in Giurisprudenza costituzionale 1989, p. 890 ss.; nonché sentenza del 25 maggio 1990, n. 259, ivi, 1990, p. 1542 ss.
[21] “In un ordinamento che deve tutelare, finchè possibile, tutte la istanze esistenti, l’imposizione di una particolare concezione, specialmente in queste materie, deve…ritenersi intollerabile”; così F. Rimoli, Bioetica. Diritti del nascituro. Diritti delle generazioni future., in R. Nania e P. Ridola (a cura di), I diritti costituzionali, Vol. I, Torino 2002, p. 348. Dello stesso tenore, altra dottrina secondo cui: “venendo a confliggere distinte concezioni etiche, legate a scelte personali compiute da ciascun individuo, la legge non potrebbe dare la prevalenza ad una escludendone altre, ma all’opposto limitarsi a porre le condizioni perché tutte siano rispettate”; così L. Chieffi Ricerca scientifica e tutela della persona. Bioetica e garanzie costituzionali, Napoli 1993, pp. 260-261. Ed ancora, si osserva che, conformemente ad un modello di democrazia liberal-pluralista, lo Stato, al fine di porre se stesso quale referente di culture e ideologie diverse, dovrà limitarsi ad un ruolo di mediazione tra le diverse opzioni, “senza assumerne alcuna come propria”; così S. Prisco, Fedeltà alla Repubblica e obiezione di coscienza. Una riflessione sullo Stato “laico”, Napoli, 1986, p. 30.
[22] Cfr. Corte di Cassazione, sentenza 6 aprile 1995, n.4035, in Giustizia Civile, 1995, I, p. 2401.
[23] Così G. Ferrando, Perché non condivido la sentenza, nota alla sentenza del Tribunale di Cremona del 17 febbraio 1994, in Bioetica- Rivista Interdisciplinare, 1994, p. 393.
[24] Cfr. G. Ferrando, L’inseminazione eterologa: due nuove pronunce della giurisprudenza di merito, in Bioetica – Rivista Interdisciplinare, 1996, 2, p. 330.0
[25] Con sentenza pronunciata il 19 aprile 1956, il Tribunale di Roma, a fronte dei problemi nascenti, allora per la prima volta, dal ricorso alle nuove tecnologie riproduttive, muove dalla constatazione della mancanza di una disciplina positiva del fenomeno e, dunque, dalla necessità di ricavare “dai principi del nostro ordinamento giuridico e in particolare da quelli che dominano l’istituto della filiazione…, le norme da applicare al rapporto in contestazione”. Il ricorso al procedimento analogico su cui, nel silenzio legislativo, cade la scelta del Collegio romano si precisa nel senso che ai rapporti derivanti dalla fecondazione artificiale deve darsi un inquadramento che rispetti e faccia salvi i principi fondamentali del nostro diritto familiare, in specie quello riguardante il fondamento biologico di ogni rapporto di filiazione. Al riguardo, più puntualmente, i giudici capitolini avvertono che “nel vigente sistema legislativo il rapporto biologico costituisce il presupposto indispensabile per l’affermazione di ogni rapporto giuridico di filiazione, ma è da aggiunger che tale presupposto è altresì sufficiente, nel senso che l’esistenza di esso rende irrilevante ogni altro elemento di natura soggettiva e psicologica, concernente il consenso all’atto fecondativo o la volontà di procreare”. Tribunale di Roma, sentenza cit. Ritornando sulla questione a più di trent’anni di distanza dalla sentenza romana, il Tribunale di Cremona ne ripete puntualmente il decisum. “Il vigente ordinamento”, si legge in sentenza, “(a parte l’istituto speciale dell’adozione) non contempla alcun rapporto giuridico di filiazione che sia svincolato dal presupposto di un corrispondente rapporto biologico di sangue, con la conseguenza che solo la diretta derivazione genetica e non il semplice consenso, è idonea a costituire un vero rapporto giuridico di filiazione”. “Né”, si aggiunge, “al consenso può essere attribuito il significato di una implicita preventiva rinuncia all’azione di disconoscimento. E, invero, a prescindere da ogni considerazione circa: 1) l’ipotizzabilità di una rinuncia ad un’azione non ancora sorta; e 2) l’attribuibilità ad una dichiarazione di consenso alla fecondazione artificiale del significato e del valore di una rinuncia all’esercizio della futura azione di disconoscimento; è sufficiente rilevare che il diritto all’esercizio delle azione relative allo status personale è indisponibile e che, di conseguenza, la rinuncia all’azione di disconoscimento, siccome relativa ad un’azione di stato, sarebbe comunque inefficace”. Tribunale di Cremona, sentenza cit.La sentenza del Tribunale di Cremona è confermata dalla Corte d’Appello di Brescia, la quale osserva che “la possibilità che il rapporto di filiazione legittima prescinda da un conforme rapporto biologico si riconnette a scelte del legislatore od a sentenze additive del giudice delle leggi. Questo esclude una supplenza del giudice ordinario, che non potrebbe, senza stravolgere i suoi compiti istituzionali, introdurre una limitazione non prevista al favor veritatis”. Corte d’Appello di Brescia, sentenza 10 maggio 1995, in Giurisprudenza italiana, 1997, III, 2, p. 48.
[26] La sentenza della Corte d’Appello di Brescia cit. viene riformata dalla Corte di Cassazione che, ribaltando l’elaborazione giurisprudenziale precedente riguardo al disconoscimento del figlio nato in conseguenza del ricorso a tecniche di riproduzione di tipo eterologo, nega, nel caso di specie, l’esperibilità dell’azione di cui all’art. 235 c.c. Cfr. Corte di Cassazione, sentenza 16 marzo 1999, n. 2315, in Il Foro Italiano, 1999, I, p. 1834. E’ a questa pronuncia che si rifanno i giudici napoletani.
[27] Cfr. Tribunale di Napoli, sentenza 24 giugno 1999 in Giustizia civile, 1999, 9, p. 2507. Tale sentenza è stata, peraltro, preceduta, da una significativa ordinanza di rimessione alla Corte Costituzionale della questione di legittimità dell’art. 235, n. 2, c.c. in riferimento agli artt. 2, 3, 29, 30 e 31 della Costituzione. Cfr. Tribunale di Napoli, ordinanza del 2 aprile 1997, in Il Foro Italiano, 1997, p. 2677; e, per quel che riguarda la questione di costituzionalità, Corte Costituzionale, sentenza 22-26 settembre 1998, n. 347, in Giustizia civile, 1998, I, p. 2409.
[28] Corte Costituzionale, sentenza cit.
[29] Tribunale di Napoli, sentenza cit.
[30] Tribunale di Napoli, sentenza cit.
[31] Tribunale di Napoli, sentenza cit.
[32] La sentenza dei giudici napoletani ritrova significativi suoi precedenti nella pronuncia della Cour de Cassation francese del 10 luglio 1990, nonché il quella della Cour d’Appell de Paris del 29 marzo 1991. Contraddicendo il principio più volte ribadito dalla giurisprudenza francese, secondo cui, nonostante il consenso prestato, il presunto padre conserva pur sempre il diritto al disconoscimento, la Corte di Cassazione francese ha sostenuto che “nel consentire l’inseminazione artificiale della sua partener e nel riconoscere volontariamente il bambino nato … il convivente ha assunto a favore del bambino e della madre l’obbligo di comportarsi come padre …”, per cui l’inadempimento di tale impegno sarebbe fonte di un pregiudizio materiale e morale per il nato meritevole di risarcimento. Cour de Cassation, sentenza 10 luglio 1990 in Dalloz, 1990, Jur. 566 ss. Più tardi, poi, la Corte d’Appello, spingendosi oltre l’indirizzo sopra riassunto, ha ritenuto che il marito sterile, il quale abbia dato il consenso all’inseminazione eterologa della moglie, può agire in disconoscimento solo se a fondamento dell’azione ponga non certo la sua sterilità, ma il fatto che il concepimento sia il risultato non dell’inseminazione artificiale voluta, bensì di una relazione extraconiugale della consorte. A questa conclusione, la Corte parigina è giunta in base alla considerazione che, per effetto delle nuove tecnologie, le nozioni di paternità e di maternità hanno assunto un nuovo contenuto. In particolare, in presenza della volontà dei coniugi di porre in essere un rapporto di filiazione, assumendo l’impegno all’allevamento e alla nascita, quale loro figlio legittimo, del soggetto che verrà alla luce in conseguenza del ricorso ad un’inseminazione artificiale della donna con seme di donatore sconosciuto, la comune decisione e responsabilità assunte dai coniugi determinerebbero una modifica del contenuto stesso della paternità, che non potrebbe più essere considerata dal punto di vista esclusivamente biologico. Cour d’Appell de Paris, sentenza 29 marzo 1991 in Dalloz, 1991, Jur. 562 ss.
[33] Tribunale di Napoli, sentenza cit.
[34] Cfr. P. Rescigno, Una legge annunciata sulla procreazione assistita, in Corriere giuridico, 2002, n. 8, p. 981.
[35] In tal senso, cfr. G. Ferrando, Modelli giuridici di controllo delle tecniche di procreazione artificiale, cit., p. 594. Per quel che riguarda, in particolare, l’ammissibilità, in prospettiva costituzionale della fecondazione in vitro, cfr. C. Magnani, La procreazione artificiale come libertà costituzionale, cit., pp. 155 e ss.
[36] Così G. Ferrando, Modelli giuridici di controllo delle tecniche di procreazione artificiale, cit., p. 594. In senso contrario, cfr. A. Gustapane, La procreazione con metodi artificiali nella prospettiva costituzionale, in Diritto e società, 1996, I, pp. 207 e ss.
[37] Cfr. G. Ferrando, Modelli giuridici di controllo delle tecniche di procreazione artificiale, cit., p. 614.
[38] Cfr. art. 9, 3° comma della legge 1514 cit, il quale stabilisce che, “in caso di applicazione di tecniche di tipo eterologo in violazione del divieto di cui all’art 4, comma 3, il donatore di gameti non acquisisce alcuna relazione giuridica parentale con il nato e non può far valere nei suoi confronti alcun diritto né essere titolare di obblighi”.
Cfr, inoltre, art. 5, 5° comma della legge spagnola cit., il quale, pur stabilendo che “i figli hanno diritto, … di ottenere informazioni generali sui donatori”, esclude che in esse possano essere ricomprese quelle relative alla loro identità, nel e per il rispetto dell’anonimato del donatore, della riservatezza dei genitori, nonché dell’interesse del minore ad un armonico sviluppo della propria personalità, non turbato dalla duplicazione delle figure genitoriali. E, pur ammettendo deroghe altresì “in circostanze straordinarie che comportino un comprovato pericolo per la vita del figlio” (art. 5, 5° comma), si precisa (art. 8, comma 3), in ogni caso, che “la rivelazione dell’identità del donatore .. non implica, in nessun caso, una determinazione legale della filiazione”.
[39] In tal senso, cfr. art. 5, 5° comma della legge spagnola cit.
[40] Corte Costituzionale, sentenza 22-26 settembre 1998, n. 347, cit.
[41] In tal senso, S. Rodota’, Tecnologie e diritti, p. 154; nonché Repertorio di fine secolo, p. 215.
[42] Il legislatore, come si evince dall’art. 1, comma 1 della legge cit., intende le tecniche di procreazione medicalmente assistita come uno strumento per favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana. Ma tale impostazione è assolutamente errata. È, infatti, oramai largamente condivisa l’opinione che le tecniche di procreazione medicalmente assistita non sono una “cura” della sterilità, bensì un aggiramento del problema, destinato a risolvere le difficoltà di procreare di singoli soggetti.
[43] Cfr., ad es., art, 1, comma 2, della legge spagnola cit., in base al quale: “Le tecniche di riproduzione assistita si propongono l’intervento medico nei confronti della sterilità umana, per facilitare la procreazione quando altri mediti terapeutici siano stati scartati perché inadeguati e inefficaci”.
[44] Tale costruzione, da più parti criticata, è stata, in particolare, attaccata dal fronte laico. Così, ad es., la Consulta laica di Boetica, in Considerazioni critiche sulla proposta di legge in materia di procreazione medicalmente assistita, in Bioetica – Rivista Interdisciplinare, 2003, n. 3, pp. 44-45, afferma che “il riconoscimento giuridico della PA non deve essere finalizzato ai puri fini della terapia della sterilità, …, e, peggio, alla cura della sola sterilità di coppia, ma deve essere riconosciuto come un modello normale comunque lecito, in ogni condizione in cui venga richiesta e praticata, fatti salvi gli accertamenti dell’idoneità sanitaria della interessata, con piena libertà di acceso ai richiedenti, coppia o singola, sena imporre alcunché ad altri”.
[45] Si badi: “la <> è una buona norma di pratica medica, che può perfino avere un riconoscimento giudiziario, civile e penale, se si accertano interventi medici sproporzionati. Ma finora si è trattato di riconoscimenti postumi, che si instaurano dopo che sono emersi danni derivanti dalla violazione di quel criterio. Invece la proposta di legge sulla procreazione assistita, unica nel nostro ordinamento, impone che e pazienti dimostrino di aver seguito per un certo periodo di tempo cure della sterilità diverse dalla procreazione assistita; e le trasgressioni sarebbero pesantemente sanzionate con misure penali”; così Consulta laica di Bioetica, in Considerazioni critiche sulla proposta di legge in materia di procreazione medicalmente assistita, in Bioetica- Rivista Interdisciplinare, 2003, n. 3, p.65.
[46] Al riguardo, l’attenzione si focalizza sulle disposizione legislative in cui, ammettendosi il ricorso alla sola inseminazione omologa, si riconosce l’accesso ad essa soltanto alle “coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi”(art. 5).In essa è certo da sottolineare con favore l’apertura del legislatore nei riguardi del riconoscimento dei diritti spettanti ad un nuovo modello di famiglia, non più fondato sul matrimonio (art. 29 Cost.), bensì sull’effetto e la convivenza, quale è venuto via via sempre più ad imporsi nella società e all’attenzione dell’organo legislativo, in quanto specie del più ampio genere delle formazioni sociali di cui all’art. 2 Cost. A mezzo della stessa, indiscutibilmente, il nostro Paese si allinea con le più generali tendenze dei Paesi d’Oltralpe, in cui fatta eccezione per la Germania, vi è un generale riconoscimento della libertà d’accesso alle nuove tecnologie riproduttive a favore delle coppie di fatto.
Al di là di tale specifico aspetto, però, è evidente la distanza che separa la legge italiana in materia da quella dei diversi Paesi europei, sia per quel che riguarda l’individuazione dei soggetti cui è riconosciuta la libertà d’accesso alle pratiche di fecondazione assistita, nonché per quanto attiene la specificazione di quali tra queste ammettere.
In tale panorama legislativo, comunque vario, il modello della legislazione tedesca si presenta come il più restrittivo; difatti consente esclusivamente la fecondazione omologa di coppie coniugate, in vita, escludendo in tal modo sia la fecondazione eterologa sia quella di donna sola o vedova.
Si discosta in parte la legislazione norvegese, la quale limita l’accesso alla riproduzione assistita alle sole coppie sposate, ammettendo però il ricorso alla fecondazione eterologa.
Maggiore è la divergenza delle legislazioni austriaca, francese e svedese, dove l’accesso alla riproduzione assistita, sia omologa che eterologa, è consentita non solo a coppie sposate ma anche coppie conviventi.
La legislazione più permissiva, quella spagnola, addirittura prende in considerazione come destinataria delle nuove tecnologie riproduttive non la coppia, ma semplicemente la donna, consentendo così ogni tipo di fecondazione assistita: omologa, eterologa e addirittura post mortem, entro sei mesi dal decesso del coniuge, quando questi abbia espresso il proprio consenso per atto pubblico o per testamento (art. 6).
[47] Cfr. artt. 12, 13, 14 della legge 40/2004 cit.
[48] Così C. Caporale, Ecco cosa abrogheremmo della legge. Le nostre proposte comma per comma, in il Riformista del 13 dicembre 2003.
[49] Cfr. S. Rodotà, Tecnologie e diritti, cit., p. 150.
[50] Cfr. art. 13 della L. 40/2004 cit.
[51] In tema Cfr. R. Prodomo, Una bioetica liberale, Bologna, 2003, p. 102 ss.
[52] La rigidità del divieto è appena temperata dalla previsione dell’art. 13, comma 2, in cui si precisa che: “la ricerca clinica e sperimentale su ciascun embrione umano è consentita a condizione che si perseguano finalità esclusivamente terapeutiche e diagnostiche volte alla tutela della salute e allo sviluppo dell’embrione stesso, e qualora non siano disponibili metodologie alternative”.
[53] Sul punto Cfr. L. Chieffi, Ingegneria genetica e valori personalistici, in Id., (a cura di, Bioetica e diritti dell’uomo, Torino, 2000, p. 83 ss.
[54] Cfr. Consulta laica di Bioetica, Sul disegno di legge sulla fecondazione assistita e altri problemi bioetica, in Bioetica – Rivista Interdisciplinare, 2003, n. 3, p. 81.