Un’etica pubblica per la fine della vita
Raffaele Prodomo
(questo articolo è stato pubblicato in "Italian Journal of the management of the pain & palliative care", vol. 1 Nov. 2002, pp. 8-15)
In altre circostanze abbiamo già sottolineato che il diritto alla salute si declina in modi inimmaginabili fino a qualche tempo fa. Si tratta delle cosiddette metamorfosi della salute, ossia i cambiamenti storicamente condizionati nell’idea condivisa di salute e benessere individuale[1]. Tali cambiamenti non sono privi di conseguenze sul piano etico-politico in quanto essi pongono il problema di stabilire un confine alla medicina sia verso l’alto che verso il basso, da un lato fissando limiti all’eccessiva intraprendenza tecnologica e, dall’altro, garantendo minimi di assistenza a chi ne è sprovvisto quasi del tutto. Una stessa esigenza di salute, quindi, per l’enorme variabilità dei contesti, si manifesta con richieste contrapposte e apparentemente contraddittorie: la sospensione di cure inutili, nel mondo ricco del nord del pianeta, la richiesta di cure e assistenza sanitaria minima, nel sud povero del mondo. In questo scritto tenteremo un approfondimento su quest’ultimo punto in particolare, alla ricerca di un’etica pubblica per le decisioni di fine vita.
La possibilità di rifiutare le cure o, addirittura, di chiedere un aiuto a morire, sono problemi tipici di società che vivono in condizioni di benessere diffuso con un facile accesso alle cure mediche più moderne e sofisticate. In queste circostanze si capisce come sia possibile rivendicare una sorta di nuovo e a prima vista paradossale diritto: il diritto di morire, inteso come volontà di non opporsi testardamente alla morte quando questa appare ormai inevitabile[2].
Lo spazio di scelta aperto dal riconoscere la potestà decisionale individuale in questo ambito (per ora quasi esclusivo dominio medico) è estremamente ampio e variegato. Infatti, è probabile che, di fronte a situazioni clinico-esistenziali quali quelle della malattia in stadio terminale, non ci siano reazioni unanimi e uguali per tutti: l’esperienza ci dice, al contrario, che le risposte sono varie e differenziate. Le richieste di chi deve decidere in tali drammatiche circostanze sono di vario tipo, c’è chi vuole combattere fino alla fine con le armi della medicina, accettando oneri e sofferenze anche a fronte di vantaggi minimi in termini di sopravvivenza e chi, invece, si affida alla medicina palliativa, rinunciando a lottare contro un male inarrestabile e chiedendo solo di non soffrire. Né si può escludere a priori che, di fronte a situazioni ingovernabili anche dalle migliori tecniche palliative, assuma un senso la richiesta di eutanasia attiva volontaria. Tali decisioni non possono non ispirarsi a molteplici stili di vita individuali e/o a una pluralità di concezioni complessive della vita, di tipo sia religioso che filosofico, le cosiddette “metafisiche pubbliche” di cui parla Sebastiano Maffettone nei suoi ultimi scritti, per cui in ambito politico sarà necessario prevedere ampi margini di tolleranza[3].
Il dibattito apertosi sugli aspetti etici della gestione clinica del malato terminale, comunque sia etichettato (eutanasia, accompagnamento del morente, sospensione dei trattamenti, rifiuto dell’accanimento terapeutico), solleva questioni complesse che chiamano in causa valori di fondo costitutivi sia della personalità individuale che dell’etica pubblica. La letteratura sulla questione è ormai così ampia che la ricchezza e complessità dei principali argomenti presenti nel dibattito sulla definizione di morte e eutanasia non sono riassumibili in questo contesto[4].
L’obiettivo di questo scritto è più modesto, si tratta di operare una restrizione del campo d’indagine, sgombrare il terreno da alcuni malintesi e strumentalizzazioni, immaginare, infine, una proposta operativa che vada in direzione dell’elaborazione di regole di comportamento condivise anche da chi si pone da un punto di vista eticamente alternativo.
Per quanto riguarda il primo punto, ad esempio, bisogna ribadire che non si può discutere di eutanasia nell’accezione distorta fin dalle origini in cui fu usato tale termine durante il nazismo. Dovrebbe essere evidente a tutti che il programma nazista era ben altra cosa rispetto alle cose di cui si discute oggi nell’ambito della medicina contemporanea. Tuttavia, per maggiori dettagli si può sempre far riferimento alla ricostruzione classica della logica nazista data da Hanna Arendt nel suo Le origini del totalitarismo, un lavoro in cui viene messa ben in evidenza la folle intenzione hitleriana di non limitare il progetto di selezione razziale alla sola distruzione degli ebrei o zingari[5]. Chiamare eutanasia tale, folle, programma di sterminio razzista era chiaramente un’operazione propagandistica del regime, all’origine di distorsioni semantiche che non agevolano il dibattito contemporaneo. Il tutto aggravato dal fatto, inoltre, che una certa pubblicistica cattolica ha usato strumentalmente questo improprio riferimento per tentare di equiparare (con ciò screditandole) le discussioni odierne sull’eutanasia a più o meno consapevoli cedimenti e scivolamenti, secondo l’argomento del cosiddetto piano inclinato (slippery slope), verso il nazionalsocialismo. Questo fatto innegabile ha indotto nel passato a proporre l’abbandono del termine stesso sia dal linguaggio ordinario che dalla terminologia bioetica. Del resto, se il significato di un termine è l’uso che se ne fa, per riprendere la definizione wittgensteiniana che riconosceva il carattere creativo e storico del linguaggio già affermato da Croce a inizio secolo, ormai l’uso distorto della parola eutanasia nei contesti prima ricordati ne ha deteriorato a tal punto, e in maniera definitiva, il significato, che a nulla valgono le difese etimologiche, sicuramente fondate e plausibili, e tanto vale non discutere più sulle parole ma analizzare ( e definire con parole nuove) i comportamenti in questione[6]!
Va chiarito, quindi, preliminarmente che, in questo scritto, si intende discutere dei problemi correlati alla gestione del malato terminale, nei cui confronti l’atteggiamento medico influisce pesantemente, determinando il decorso degli ultimi periodi della vita sia attraverso atti che con deliberate omissioni. Resta inteso che la decisione circa la terminologia più adeguata per definire tali situazioni non è definitiva, non escludendo che, a uno stadio ulteriore della discussione pubblica, si possa di nuovo tornare a parlare di eutanasia, questa volta con un significato non connotato a priori negativamente.
Restringere il contesto alle situazioni cliniche di malattia terminale, dovrebbe escludere, in quanto non pertinenti, i riferimenti alla pur importante questione della disponibilità o non disponibilità per l’uomo della propria vita. In questo territorio filosofico, infatti, si sono già ampiamente confrontate visioni religiose e filosofie di vita con idee contrastanti. Il suicidio razionale è stato, infatti, da un lato difeso e sostenuto come superiore scelta etica (morale stoica, filosofia humiana), dall’altro è stato considerato, invece, un’impropria disposizione sul bene della vita, ritenuto indisponibile all’uomo in quanto fonte originaria della sua stessa libertà e autonomia (Kant) o perché proprietà, alternativamente, di Dio o della società[7].
Senza nulla togliere all’importanza e al fascino di tale dibattito, è auspicabile tenerlo fuori dalla discussione pubblica, chiarendo una volta per tutte che, nelle situazioni cliniche in cui si trovano i malati terminali, non si tratta di scegliere astrattamente tra la vita e la morte, ma si può al massimo decidere il modo in cui affrontare il supremo passaggio. La decisione circa i modi del morire, inoltre, non passa necessariamente attraverso la dicotomia tra un cosiddetto principio di sacralità e un alternativo principio di qualità della vita, quasi come fosse un’alternativa tra una visione spirituale e una materiale della vita, bensì è interna alle concezioni personali (filosofiche e/o religiose) circa il valore della vita che, secondo molti, è un valore costruito e mediato da una teoria (e spesso da una tradizione comunitaria) mai un qualcosa di semplicemente trovato e osservato nella natura[8]. Il valore e, così intesa, la stessa sacralità della vita possono essere, dunque, patrimonio comune dell’umanità, come affermato da Dworkin, con differenze anche rilevanti nella loro interpretazione sia sul piano personale che su quello storico, secondo la versione di uno storicismo pluralistico e non relativistico sostenuta nel nostro secolo da Croce e da Berlin[9].
In definitiva, si propone di affrontare le questioni teoriche a partire da due premesse:
a) il diritto, da parte del malato, a scegliere (e a rifiutare eventualmente) le cure più adatte alla propria situazione clinica ed esistenziale;
b) il dovere del medico di prestare le cure adeguate al caso (secondo il motto classico della giustizia <>), evitando non solo l’accanimento terapeutico ma anche la pilatesca soluzione dell’abbandono del morente che scarica sulle famiglie l’onere della gestione del malato.
In riferimento alle situazioni specificate prima della malattia terminale, ed escludendo dalla discussione il problema filosofico-teologico circa la disponibilità o indisponibilità in assoluto della propria vita da parte di un individuo, si può indirizzare la discussione pubblica in vista di quello che si potrebbe definire, in termini rawlsiani, un possibile consenso per intersezione[10].
A tal fine si possono proporre alcuni principi orientativi per l’azione pratica. Bisogna partire dalla constatazione, fin troppo ovvia, della presenza nel mondo occidentale di un ampio pluralismo nelle concezioni del bene e della vita. Sebbene si tratti di circostanze drammatiche, infatti, il problema di una valutazione del ben vivere, inteso come valore etico individuale o condiviso a livello comunitario, non è esclusivo delle fasi terminali della vita. Secondo alcuni, anzi, le modalità con cui si chiude l’esistenza terrena individuale sono il sigillo di un ideale comportamentale perseguito per tutta la durata anteriore della propria vita e l’eventuale frustrazione delle prospettive in questo contesto vanificherebbe quanto fatto in precedenza, violando la legittima aspirazione all’autodeterminazione.
Il principio da rispettare è dunque quello della libertà della coscienza e della volontà individuale, secondo la massima per cui se si è liberi di scegliere (dal proprio punto di vista) il modo migliore di vivere si dovrebbe essere altrettanto liberi di scegliere il modo migliore di morire.
In altri termini, una persona posta di fronte alla diagnosi e alla prognosi di una malattia terminale deve poter esprimere (anche in anticipo rispetto a possibili diminuzioni o perdite di capacità decisionale) il proprio orientamento nei confronti degli interventi medici ancora possibili nel suo caso. Interventi che si dispongono normalmente lungo una linea continua che dalle forme estreme di accanimento terapeutico e di uso futile e antieconomico di risorse mediche arriva alla sospensione di ogni forma di terapia e di sostegno vitale (si intende per sostegno vitale quello offerto strumentalmente al respiro, alla funzione renale, alla nutrizione e idratazione etc. etc.), fino a giustificare, secondo alcuni e in casi specifici, anche gli interventi che causano direttamente la morte, su sua richiesta, del sofferente.
Sulla esatta determinazione delle circostanze reali in cui ci si trova in ogni singola situazione clinica c’è da aspettarsi un grado significativo di dissenso tra gli attori sociali (medici, infermieri, malati e loro familiari, struttura manageriale dell’ente assistenziale). Dissenso per questioni apparentemente di fatto (è o non è terminale il sig. X? la terapia Z è o non è futile? la nutrizione parenterale è o non è una terapia di sostegno vitale?) che nascondono in realtà problemi di principio e diversità di prospettive etiche. Senza contare che in alcuni casi si possono verificare effettivamente errori cosiddetti di fatto (errate diagnosi o terapie, incomprensioni verbali tra i vari attori sociali coinvolti).
Invece, per quanto riguarda la divergenza sul piano dei principi, una diversità di valutazione morale è quella, ad esempio, che si determina tra chi ritiene separabile nettamente la sospensione delle terapie dall’eutanasia attiva e chi invece, almeno in alcune circostanze, li ritiene atti moralmente equivalenti. A parità di altre circostanze, infatti, che differenza c’è tra agire negando nutrizione e idratazione artificiale o somministrare una dose letale di cloruro di potassio: non sono due diversi modi di far morire qualcuno[11]?
Tali controversie, sia di fatto che di principio, sono probabilmente ineliminabili e insuperabili, nel senso che non è realistico pensare a situazioni in cui si stabilisca un’etica pubblica condivisa che sani le divergenze di opinione in questi casi (come del resto più in generale per tutte le divergenze d’opinione circa il modo migliore di vivere). Questo pluralismo etico, analogamente al pluralismo religioso, è un prodotto della modernità e, qualunque valutazione sia su di esso esprimibile, positiva o negativa, è ormai un fatto indiscutibile.
Ritorniamo, quindi, all’obiettivo iniziale di ricercare su questi temi un consenso minimo che consenta il convivere pacifico di visioni etico-religiose diverse e contrastanti. La convinzione che si spera possa essere condivisa ampiamente è che, una volta sospeso il giudizio circa la moralità in generale del suicidio razionale e circa l’effettiva sostenibilità della distinzione tra eutanasia attiva e passiva, una legislazione che consenta di scegliere e decidere, attraverso l’accettazione o il rifiuto selettivo di determinati atti medici, le modalità della propria morte sia possibile e sostenibile per ognuno a partire proprio dalle proprie convinzioni e appartenenze etico-religiose.