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Gianfranco Nicora

“NO” ALLA SPERIMENTAZIONE ANIMALE! (le competenze dell'uomo e quelle di Dio)

Il teologo in passato su questi temi partiva sempre dalla analisi razionale della “natura”, come un principio al quale il pensiero cristiano amava riferirsi e si sa quanto frequente è stato il ricorso alla cosiddetta “legge naturale” nelle questioni Etiche.
Il pensiero teologico odierno non guarda più alla scienza come se fosse vincolata ad un “ordine naturale” sentito e difeso come immutabile. Oggi parte invece dalle cognizioni che gli uomini hanno della natura in quel momento e luogo, confrontandola, quanto è possibile, con quella di altri tempi e luoghi. È questo il solo modo di riferirci alla natura e alle sue leggi; dobbiamo affidarci criticamente alla cultura in cui hic et nunc siamo immersi, utilizzando ad esempio i risultati a cui pervengono nel nostro caso l’insieme delle discipline biologiche (come la sociobiologia, la fisiologia, l’anatomia comparata, le neuroscienze, l’etologia, la zooantropologia). Anche sul tema della sperimentazione animale uno dei trabocchetti più pericolosi per uno scienziato è quello di non riuscire a distinguere tra le competenze dell’uomo e quelle di Dio. La teologia pertanto si pone in attento ascolto delle filosofia, non piu' considerata "ancilla" theologiae, ma scienza capace di riflettere sui limiti stessi della ricerca scientifica. Mi sembra pertanto illuminante l'intervento di LEONARDO CAFFO, L’UNICA VIA PER DIRE “NO” ALLA SPERIMENTAZIONE ANIMALE, che qui con il suo consenso riporto
"La sperimentazione animale è una pratica scientifica elaborata a scopo di studio e ricerca su animali “da laboratorio”, per fini farmacologici, fisiologici, fisiopatologici, biomedici e biologici. A seconda del contesto di applicazione, e dei risultati sperati, gli esperimenti sugli animali possono avere natura variegata. Diffusa è la pratica di indurre, su un campione animale, specifiche patologie per testare farmaci, ad altre pratiche con valore terapeutico. Nella maggior parte dei casi, agli animali possono essere, per esempio, inoculate sostanze chimiche, batteriche o virali; vengono effettuate mutilazioni di arti e, se serve, gli animali possono essere esposti a radiazioni ovviamente nocive.
Tale pratica, erroneamente chiamata “vivisezione”, fornisce un primo, e fondamentale, elemento per riflettere sui limiti della scienza. C’è un fatto scientifico – quello dell’ottenere nuove conoscenze tramite la sperimentazione – e c’è un fatto etico – quello della sofferenza degli animali non umani che diventano mezzi per queste conoscenze. Non starò qui ora a raccontare, per l’ennesima volta, l’indubitabile sofferenza animale (si veda, mi permetto, il mio Soltanto per loro) ma darò per scontato – concedetemelo – che tutti concordino che l’animale da laboratorio, in quanto possessore di un sistema nervoso centrale, sia in grado di esperire il mondo, e di soffrire tanto quanto un’altra macchina corporea – ivi umana inclusa. C’è dunque qualcosa che permette all’umano di continuare a proporre pratiche scientifiche ingiuste sotto il profilo etico. E questo qualcosa, è il disconoscimento totale dell’etica come disciplina oggettiva. Ancora, e per meglio chiarire il punto, potremmo dire che è proprio la convinzione che la scienza sia qualcosa di “serio”, mentre l’etica no, a portare l’umano verso i deliri onnipotenti delle infinite sorti e progressive. Credo che quello della sperimentazione animale sia il caso migliore da analizzare per ragionare sul rapporto tra etica e scienza, e per comprendere quanto di questo rapporto sia falso – un falso rapporto, insomma. Esistono due diversi modi – isolati in letteratura – per opporsi alla vivisezione. Antivivisezionismo etico (AVE) e scientifico (AVS): il primo si oppone alla vivisezione per motivi etici, discutendo il limite della scienza che qui ci siamo riproposti di trattare, il secondo – per sudditanza nei confronti della scienza – cerca di attaccare le pratiche scientifiche dal loro interno, dunque con altre argomentazioni scientifiche. Io argomenterò in favore dell’AVE, contestando alle sue radici l’AVS cercando di far comprendere che, se si vuole trovare un limite etico alle pratiche scientifiche, questo non può essere un limite a sua volta scientifico. Chi si oppone scientificamente alla vivisezione sostiene che ogni specie animale possieda propri caratteri biologici non confrontabili, pertanto sperimentare su una specie differente dalla nostra rappresenti un azzardo scientifico, poiché non sapremo mai a priori se quanto osservato negli animali corrisponde a quanto accade nella nostra specie. In buona sostanza ci si oppone alla presunta uniformità di paradigmi diversi – ciò che vale per un topo, può non valere per un umano. La scienza sarebbe idiota, se questa critica cogliesse il punto – ed infatti non lo coglie, perché la sperimentazione animale, parte di un più vasto sistema di sperimentazione, serve eccome. E il suo servire, sia chiaro, è vincolato ad un concetto di “utile” che il pensiero scientifico fissa a monte del suo darsi. Entriamo nel merito. La sperimentazione dei farmaci, ad esempio, è divisa in due macro – fasi: (1) La sperimentazione pre – clinica, in cui il preparato, frutto della ricerca teorica, deve subire un test prima di essere sperimentato sull’uomo e viene dunque somministrato su un cosiddetto modello sperimentale della malattia, vale a dire un sistema che “esibisce” lo stesso bersaglio farmacologico per cui si studia il farmaco. Talvolta, il modello può essere un semplice modello matematico, ma nella maggior parte dei casi assistiamo o ad una coltura di cellule (modelli in vitro, detti erroneamente “alternativi”), o – e qui entriamo nel nostro terreno – su animali da laboratorio (modelli in vivo)[1]; (2) La sperimentazione clinica, divisa in quattro fasi principali – (I) Farmacologia clinica, (II) studio di efficacia, (III) studio multicentrico e, infine, (IV) gli studi condotti dopo la commercializzazione del farmaco. In nessuna di queste quattro fasi sono presenti studi su animali. Sorge dunque spontanea la prima domanda: in un processo così lungo ed elaborato (dura anni), in cui la meticolosità si accoppia a studi e pubblicazioni scientifiche, perché l’inutilità del modello animale assume un ruolo centrale per coloro che argomentano utilizzando l’AVS? È ovvio che il farmaco finale, quello messo in commercio, è in minima parte frutto della sperimentazione animale e il suo presunto mal funzionamento è, difficilmente, imputabile all’utilizzo del modello animale. Ma andiamo avanti, e cerchiamo di vederci chiaro. Secondo coloro che si oppongo tramite la scienza, alla scienza stessa, entro la fase pre – clinica, l’uso di animali comporterebbe l’errore di paragonare organi animali, e umani, solo perché svolgono la stessa funzione. Se prendessimo, ad esempio, i modelli animali che vengono utilizzati in tossicologia, ci accorgeremmo – secondo un’ipotesi diffusa entro l’antivivisezionismo scientifico – che la sovrapposizione dei risultati non supera il 25% e che dunque, con un dato così poco efficace, non solo non possiamo validare il modello ma dovremmo dichiararne la sua inaffidabilità. Beata ignoranza, viene da dire. Tutto ciò avrebbe senso se e solo la sperimentazione animale fosse l’unico step prima della commercializzazione del farmaco. Quel 25% è oro per gli scienziati che, sia chiaro, non sperano di avere sovrapposizioni totali tra modelli diversi, ma vogliono proprio sfoltire il più possibile l’incertezza. Ciò che rimane incerto, verrà reso certo (o quasi) nelle quattro fasi che abbiamo detto che, proprio grazie alla sperimentazione animale, avranno il 25% per cento in meno di possibilità di andare a cattivo fine. Se la vita animale non vale nulla, mentre quella animale vale la scienza stessa, allora quella che per gli antivivisezionisti scientifici è una bassa percentuale, per gli scienziati è un dato essenziale. Qui risiede quel concetto di “utile” di cui parlavamo, e che ha portato filosofi come Peter Singer (si pensi al suo Liberazione Animale) a formulare un suo antagonista, basato su un utilitarismo delle preferenze che si applichi anche agli animali non umani. Insomma, ci si oppone alla sperimentazione animale perché c’è un problema etico, ma si usa la scienza perché si pensa che l’etica non abbia il potere per contrastarla. Niente di più falso, e di questo potere oggettivo dell’etica dovremmo cominciare a parlare diffusamente, perché senza una morale che esuli da questioni di gusti, tutto è concesso. L’antivivisezionismo etico, fa qualcosa di più che discutere un nuovo concetto di utile: ovvero va oltre lo stesso pensiero singeriano. Ammettiamo, per esperimento mentale, che il modello animale sia essenziale – necessario – per la nostra scienza, ovvero, che senza non si possa ottenere un dato sostanzialmente accettabile per commercializzare i farmaci. Se la vita animale e quella umana hanno lo stesso valore, questo il senso dell’antispecismo, allora non possiamo mai sfruttare un animale per benefici di un altro animale (l’uomo). Dunque, anche se la sperimentazione animale fosse necessaria, per chi usa l’AVE, non avremmo comunque diritto di avvalerci di questa pratica scientifica. Ma non è ancora tutto, demolire l’AVS e la sperimentazione animale è possibile anche utilizzando un altro caso paradigmatico: quello della sperimentazione su animali per altri animali – i pet. Se sosteniamo che il problema della sperimentazione risiede nella variazione di paradigma, per cui il topo è rotondo mentre l’uomo è quadrato, rischiamo di rimanere senza nessun argomento, “avviluppati” direbbe il Sagredo galileiano, dinnanzi ad un’argomentazione che uno scienziato con velleità neanche troppo filosofiche potrebbe farci a proposito della sperimentazione su animali come gatti e cani “senza padrone”, volta a trovare farmaci, o migliorare il cibo, per i cani e i gatti domestici. In un caso del genere, infatti, assistiamo ad un paradigma 1:1 per cui la sovrapposizione genetica è totale, e la scienza minore di chi usa l’AVS svela la sua inutilità di fronte alla scienza, diciamolo francamente, con la “S” maiuscola. Opporsi alla sperimentazione, in un caso del genere, è possibile solo per mezzo dell’etica che deve rivendicare l’uguale diritto alla vita dell’animale non umano che soffre, ha cognizione del mondo, ed è dunque cosciente e inorridito da quanto gli capita. Il problema della sperimentazione non è scientifico, ma etico. Fin quando non capiremo questa banalità filosofica, la Scienza contro cui si oppone la scienza, avrà sempre il diritto di disporre della vita degli altri che, resi “cose”, porteranno sicuramente un vantaggio a chi invece è concesso la statuto ontologico di “individuo

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