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La dignità della vita

Luisella Battaglia

(da: "Il Secolo XIX", 31 agosto 2000)

Nel dibattito attuale sulla clonazione umana assistiamo alla contrapposizione tra due posizioni etiche: l'una fa appello al principio di dignità della persona e lo difende strenuamente fin dal suo concepimento; l'altra, all'interno di una visione utilitaristica, si pone esplicitamente la questione di una "utilizzazione" degli embrioni a fini terapeutici e scientifici. A un'etica della dignità (l'embrione come fine) farebbe riscontro un'etica della strumentalità (l'embrione come mezzo): "umanesimo contro antiumanesimo", come taluni hanno preteso.
Che le cose non stiano propriamente in questi termini può ricavarsi da una riflessione sulla nozione di dignità, nozione, questa, eminentemente confusa, come la maggior parte dei concetti eulogici (libertà, giustizia etc.) impiegati nell'etica e nel linguaggio comune. Che cosa significa dignità? Che cosa essa comporta?
Par di capire che l'affermazione della dignità, nell'ambito dell'etica cattolica, implichi un rispetto assoluto che si identifica, a sua volta, con l'assoluta intangibilità. Ovvero, si rispetta la dignità dell'embrione se non si lede, in alcun modo, la sua integrità fisica. Che cosa deriverebbe da tale principio? Che si è tenuti a portare a pieno sviluppo gli embrioni crioconservati e, quindi, a dar vita a centinaia di migliaia, se non a milioni, di esseri? Questa eventualità potrebbe essere significativa e per molti seducente ma darebbe luogo a difficoltà assai serie: innanzitutto, chi dovrebbe decidere? Presumibilmente, i genitori, coloro che hanno "prodotto" gli embrioni e ne sono i responsabili naturali. Dovrebbero essere loro a dire se il passaggio dalla pre-vita alla vita piena è nei loro desideri o rientra nelle loro possibilità. Si possono ipotizzare risposte diversificate: posti dinanzi a tale alternativa, alcuni potrebbero decidere in senso affermativo, altri (forse la maggioranza) potrebbero voler rinunciare a tale possibilità.
A questo punto si ripropone la domanda: qual è il destino dell'embrione all'interno di un'etica della dignità? Si potrebbero ipotizzare adozioni di embrioni, come qualcuno ha suggerito: si dovrebbero trovare, in questo caso, centinaia di migliaia di aspiranti genitori, in particolare, "madri" disposte ad accogliere nel loro utero un embrione da portare alla nascita. Anche in tal caso, potremmo presumere un certo numero di adesioni ma degli embrioni restanti - con ogni probabilità, la stragrande maggioranza - quale sarebbe il destino, quale la dignità?
In realtà, su questo punto essenziale, vi è un'estrema vaghezza. Sembrerebbe che la dignità di un embrione sia salvaguardata dal suo restare indefinitamente tale, in una sorta di limbo metafisico-tecnologico, tra pre-vita e vita. Esito paradossale da molti punti di vista perché, in questo caso, l'idea di dignità come intangibilità assoluta significherebbe poi, nei fatti, per gli embrioni essere destinati a una non vita prolungata indefinitamente grazie all'ingegneria genetica e condannato a rimanere tale. In che cosa consista la dignità di tale destino riesce difficilmente comprensibile.
D'altra parte se ritenessimo sempre e comunque che la dignità della persona consista nella sua intangibilità, ne risulterebbero conseguenze singolari, ad esempio per quanto riguarda i trapianti: si potrebbe intatti ipotizzare che tale dignità sia lesa dalla pratica dell'espianto che ridurrebbe la persona a mero serbatoio di organi, a mezzo e strumento per altri, compromettendone, in tal modo, la dignità di fine.
E' interessante, a questo riguardo, la risposta della Chiesa: essa fa riferimento a un principio etico-- la solidarietà, il dono-- per mostrare come si tratti di un gesto di grande altruismo mettere a disposizione dei prossimo parti dei proprio corpo. La donazione, certo, è un gesto che viene compiuto volontariamente, che presuppone il consenso informato, ciò che, tuttavia, non è sempre possibile ottenere. In molti casi, l'impossibilità di ottenerlo (malati gravi, comatosi, incapaci di intendere , e di esprimere una volontà, neonati...) fa sì che si affidi ad altri --genitori, ove ci siano, o i parenti più stretti-- la responsabilità di tale decisione. In questo caso, non si sollevano obiezioni: si ritiene corretto e scontato che siano costoro a decidere dei destino di una persona, che siano, in qualche modo, delegati a parlare in sua vece.
Sorge, allora, spontanea la domanda: se viene autorizzata la donazione di organi da una persona, con decisione presa dai più stretti parenti, perché non dovrebbe essere autorizzata la donazione di cellule da un embrione, con una decisione presa dai suoi, pur potenziali, genitori, non in quanto proprietari della sua vita ma in quanto responsabili del suo destino? Si dovrebbe dimostrare che vi è una differenza sostanziale tra le due donazioni e, in particolare, spiegare perché non sia un'offesa alla dignità il prelievo di un organo da una persona attuale e lo sia invece il prelievo di cellule da una persona potenziale.
Corto, si può obiettare, nell'un caso non ci sono speranze di vita, nell'altro l'embrione è esso stesso una speranza di vita. Sennonché, una volta espletate --nel quadro di un'ottica della scelta responsabile--tutte le possibilità affinché ciò avvenga, perché escludere come non dignitosa una opzione che trova il suo significato nel valore della donazione?

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