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Luisella Battaglia

Troppo severa la condanna della medicina alternativa

(da “Il Secolo XIX, Sabato, 24 aprile 2004)

Il Comitato nazionale per la bioetica nella seduta di ieri ha discusso la Proposta di legge sulle «medicine pratiche non convenzionali» nel testo unificato elaborato dalla Com­missione XII Affari sociali della Camera. Nel parere approvato a larghissima maggioranza, con talune astensioni - tra cui la mia -, il Comitato esprime un forte dissenso nei confronti del principio del “pluralismo scientifico”, sulla base dell'affermazione che «se per pluralismo scientifico s'intende la contemporanea presenza di più scienze concernenti un medesimo oggetto - ad esempio la presenza di più chimiche o di più fisiche - il pluralismo scientifico non esiste e non è mai esistito”.
In realtà, questo discorso appare quanto meno problematico se applicato alla medicina, che possiede uno statuto epistemologico relativamente incerto, oscillante, per così dire, tra l'arte e la scienza.
Nel dibattito bioetico contemporaneo non a caso s'insiste fortemente sui tentativi di superamento del paradigma positivistico della medicina «basata sulle evidenze» al fine di individuare possibili modelli alternativi più flessibili e complessi.
Il Comitato rileva inoltre che se l'autonomia del paziente nelle scelte terapeutiche rappresenta un valore fondamentale della bio­etica, la libertà di cura da parte del medico e dell'operatore non medico non può essere scambiata con la più totale anarchia dottrinale, ma deve esercitarsi all'interno delle conoscenze scientifiche comunemente riconosciute e convalidate.
In tal modo, però, si rischia di limitare gravemente la stessa autonomia dei medico che, in scien­za e coscienza, ha il diritto di decidere, nei singoli casi, le cure più appropriate e personalizzate. Se sono certo giustificate le riserve nei confronti di operatori non qualificati, appare lesivo della dignità di un professionista, che ha compiuto un regolare corso di studi nelle nostre università, non dargli la possibilità di avvalersi di alcune metodiche nel quadro di una medicina che, ad esempio, guardi alle terapie non convenzionali non come alternative ma come complementari alla medicina scientifica.
Il Comitato, infine, si dichiara “preoccupato della proposta di istituire insegnamenti accademici e corsi di formazione nelle università statali e non statali di medicine e pratiche non convenzionali; di inserire le materie di insegnamento relative alle medicine e alle pratiche non convenzionali nei corsi di laurea di Medicina, di Odontoiatria, di Farmacia, di Medicina veterinaria, di Scienze biologiche e di Chimica; di accreditare come società e associazioni "scientifiche” le società e le associazioni di riferimento delle professioni sanitarie non convenzionali; di modificare la composizione del Consiglio superiore di sanità inserendo tra i suoi componenti sei rappresentanti delle medicine e pratiche non convenzionali.
In ultimo, ritiene del tutto ingiustificata l'istituzione della qualifica di "esperto" per indirizzi quali: agopuntura, fitoterapia, medicina omeopatica, omotossicologia, medicina antroposofica, farmacoterapia tradizionale cinese, farmacoterapia ayurvedica, medicina manuale, rilevando che tali discipline non possiedono al momento attuale i requisiti minimi per essere riconosciute come scientifiche e che solo la fitoterapia costituisce una forma di prescienza.
Come si vede, il testo, per la sua indubbia severità, intende essere una vera e propria scelta di campo, nella sua netta presa di posizione a favore della medicina cosiddetta scientifica. Il timore è che le terapie alternative vengano legittimate e accreditate indiscriminatamente generando false attese e finendo, così, con l'incrementare un rigoglioso sottobosco di truffe e raggiri. Questo timore è largamente condivisibile ma ci si chiede se non sarebbe stato più opportuno, anziché pronunciare condanne senza appello, avviare un dibattito pubblico sulla medicina, i suoi scopi, il suo destino nella società contemporanea.
Perché, ci si può chiedere, tanta preoccupazione? Che paura si ha di approfondire conoscenze in campi che appaiono comunque degni di interesse? E, soprattutto, perché ritenere che gli insegnamenti accademici vengano neces­sariamente impartiti come forme di indottrinamento anziché svolti con rigore scientifico e spirito critico?
Non si vede francamente lo scandalo costituito dall'introduzione nel nostro ordinamento uni­versitario di discipline alle cui spalle c'é, talora, un sapere accu­mulato nei secoli, esperienze e conoscenze di antiche civiltà come c'insegna l'etnomedicina - che nella società multietnica che stia­mo diventando, dovrebbero, forse, cominciare ad acquisire qualche diritto di cittadinanza.

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