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INTERVISTA ALLA PROF.ssa MARIA ANTONIETTA LA TORRE.

In occasione del venticinquesimo anniversario dell'Istituto Italiano di Bioetica della Campania abbiamo rivolto alcune domande alla Prof.ssa Maria Antonietta La Torre, che ne ha costantemente seguito le attività e ne è stata instancabile animatrice.

Professoressa, 25 anni di attività sono un bel traguardo. Come definisce questo cammino compiuto dall'Istituito Italiano di Bioetica in Campania? Quali sono i cambiamenti ha visto maturara e che le piace sottilineare?
Siamo molto orgogliosi dei risultati raggiunti e di tutto il lavoro svolto in questi anni su un duplice fronte: da un lato quello della ricerca e del confronto teorico, con pubblicazioni, saggi, convegni, su temi di grande attualità, anche perché in molti casi siamo stati, mi sia consentito dirlo, dei pionieri; dall’altro quello della divulgazione, attraverso molteplici corsi e seminari e iniziative di vario tipo rivolte a un pubblico ampio. E devo dire che, specialmente nei primi anni di attività, abbiamo avuto un pubblico piuttosto ampio e manifestazioni di grande interesse. Il tratto distintivo più significativo ed evidente del nostro Istituto è sempre stato quello di collocarsi in una posizione che andasse oltre la banale contrapposizione tra bioetica laica e bioetica cattolica e ciò ci ha consentito di creare collaborazioni e sinergie con associazioni ed enti pubblici e privati di diverso tipo e orientamento. Tutto questo ha arricchito il nostro cammino e ci ha aiutato a segnare l’evoluzione della bioetica in Campania, molto prima che diventasse una moda e una disciplina accademica.

L'incontro dello scorso 25 gennaio, dal titolo "Le metamorfosi della bioetica: biofilosofia, biopolitica, biodiritto", è stata l'occasione per fare il punto sull'evoluzione della bioetica, che è materia viva e in continua trasformazione. Che obiettivi aveva l'incontro?
L’obiettivo primario era sintetizzare il percorso dell’Istituto Italiano di Bioetica Campania, insieme a coloro che hanno partecipato alle nostre attività e condiviso o contribuito alle nostre riflessioni, ma inevitabilmente questa ricostruzione ha prodotto una sintesi delle prospettive attuali. Perciò abbiamo adoperato nel titolo la parola “metamorfosi”: per definizione la bioetica, in quanto etica pubblica, deve costituire uno stimolo per affrontare le nuove criticità sollevate dallo sviluppo tecnologico e scientifico, e quando queste sono riconosciute e codificate, non solo nel dibattito pubblico ma anche nella legislazione, compito della bioetica è aprire nuove strade. Ne è emerso che vi sono ancora molti settori che richiedono sia studio, che dibattito pubblico e che la bioetica non è affatto sul viale del tramonto, ma, anzi, deve aprirsi alle nuove sfide poste dalla robotica, dall’informatica, dall’ingegneria genetica, e così via.

Il suo intervento portava un titolo stimolante: "Le tre 'A' della bioetica: autodeterminazione, autonomia, accoglienza". In che modo ha esaminato queste categorie così importanti e come le ha messe in relazione al vasto campo della bioetica?
Il titolo del mio intervento ha costituito il tentativo di individuare alcuni elementi peculiari del profilo etico-teoretico che l’Istituto Italiano di Bioetica Campania ha sviluppato in questi 25 anni, ma anche di sintetizzare alcuni paradigmi che, a mio avviso, caratterizzano il modello di una bioetica finalmente matura. Il principio di autodeterminazione, per me davvero fondamentale, chiama in causa valori quali la dignità della persona, il diritto sul proprio corpo e la tutela dell’identità individuale, che è concetto più ampio e complesso di quello di integrità intesa come assenza di malattia: il terapeuta, qualsiasi terapeuta, cura una persona, non cura una malattia e la disciplina del consenso informato ha stabilito in via definitiva che la decisione del paziente, salvo rare eccezioni, prevale sul compito di cura e sul principio di beneficità. Il diritto a rifiutare le cure, ad esempio, o il diritto a morire con dignità, costituiscono il riconoscimento che chi riceve le cure non debba perdere il rispetto di sé. Il secondo paradigma, quello di autonomia, sembrerebbe connesso se non coincidente col primo, ma io ho voluto intenderlo in senso biopolitico, come difesa e tutela dell’autonomia della scienza e della bioetica dalla politica e dalle ideologie; occorre salvaguardare la ricerca dalle tentazioni di impedire tout court taluni studi e sperimentazioni per paura delle possibili conseguenze. Questo a mio avviso non è mai il modo giusto di risolvere questioni delicate e complesse: la ricerca è invece un obbligo morale, perché volta a migliorare le condizioni di vita e, possibilmente, anche a soddisfare i bisogni. Infine il terzo paradigma, quello dell’accoglienza: se per una reale accoglienza dell’altro occorre adottare una nozione ampia di salute, che non coincide con la mera assenza di malattia, ma, anche in tal caso, guarda al benessere ampio dell’individuo, allora, nelle attuali società multiculturali, come non tener conto delle esigenze delle persone migranti, con le loro specifiche problematiche e richieste, talvolta difficili da comprendere da parte della struttura sanitaria di medicina occidentale, talvolta difficili da soddisfare?

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