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Il dono del corpo ci mantiene umani dopo la morte. Editoriale di Luisella Battaglia

17 Ott 2024

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Sandro Spinsanti* firma la recensione del libro 'Vi prego, cercate di capire' della scrittrice americana May Sarton

Mourir cela n’est rien
Mourir, la belle affaire!
Mais vieillir… o vieillir
(Jacques Brel)

Chi ha ascoltato Vieillir cantata da Jacques Brel non può dimenticare il contrasto tra le tante sfumature della sua voce, mentre declama i volti possibili della morte – eroica o banale,oscena o perbenista – e la spenta afonia del ritornello, quando accenna all’inimmaginabile orrore della vecchiaia: “Morire, questo è niente/ Morire, che bell’affare!/ Ma invecchiare … oh invecchiare”. La narrazione artistica ha per lo più evitato la vecchiaia, così come i temi correlati della malattia e della decadenza fisica; la morte solo quando fosse collocata in uno scenario di dramma. Non era questo il caso quando la morte si presentava come la conclusione di un lungo scivolamento dentro una sempre più devastante vecchiaia.

Questo almeno era il lamento contenuto in un saggio di Virginia Woolf del 1930, dedicato alla malattia nella letteratura (Sulla malattia, Bollati Boringhieri 2000). Sosteneva che, considerando il posto che occupa nell’esperienza umana, verrebbe da pensare che la malattia e ciò che la contorna figurino tra i temi principali della narrazione letteraria. Invece i mali del corpo sono sistematicamente evitati. A beneficio degli eventi psichici e delle emozioni. Decenni dopo quella costatazione, ai nostri giorni Virginia Woolf sarebbe costretta a rivedere la sua affermazione. Possiamo dire che attualmente non esista situazione clinica – di malattia, cura, decadimento, fine della vita – che non sia stata fatta oggetto di narrazione letteraria. E cinematografica, in sovrappiù.
La vecchiaia è entrata a pieno diritto in questo scenario. Lo dichiara con enfasi l’anziano protagonista di Piccoli esperimenti di felicità, romanzo dell’olandese Hendrik Groen (ed. TEA 2017):
Il vecchio va molto. O almeno c’è una valanga di film, libri, documentari e articoli di giornale che parlano di vecchi. Nella nostra vita di tutti i giorni non notiamo tutta questa attenzione in più, anzi. Ci sono meno soldi e meno assistenza di qualche anno fa.
In particolare, potremmo elencare non poche narrazioni che entrano nelle residenze dove i vecchi stazionano nell’ultima fase della loro esistenza. Con un giusto equilibrio tra i toni ottimistici e satirici (grande successo ha arriso al romanzo di Jonas Jonasson: Il centenario che saltò dalla finestra e scomparve, Bompiani 2018, trasposto anche in un film) e altri tragici, per i quali la vecchiaia è la Gorgone che pietrifica, è l’urlo di Munch. Questo secondo gruppo potrebbe collocare in esergo la frase epigrafica di Philip Roth: “La vecchiaia non è una battaglia, la vecchiaia è un massacro” (Everyman, Einaudi 2007).
È giunto di recente in libreria un ulteriore romanzo appartenente a questa sottospecie dalle tinte cupe: Vi prego, cercate di capire, della scrittrice americana May Sarton (ed. Astoria 2019). Fresco di stampa in traduzione, ma pubblicato in originale più di quarant’anni fa. Degno di un posto di rilievo nelle narrazioni che entrano in quelle strutture che siamo soliti chiamare case di riposo, o più modernamente RSA. Nel caso, si tratta di un’abitazione spersa in un’anonima campagna americana, gestita da due donne, madre e figlia, che si occupano di pochi ospiti loro affidati. Più che una struttura di profilo sanitario, una risorsa ispirata da benevolenza e carità – secondo il giudizio delle signore che la gestiscono – per far fronte al vuoto di cure in cui verrebbero a trovarsi i vecchi ai quali danno ricovero. Qui viene depositata dal fratello ottantenne e dalla cognata Caroline Spencer, ex insegnante di matematica, 76 anni, dopo un infarto che ha compromesso la sua autosufficienza. La presentazione che offre di sé stessa, fin dalle prime righe del romanzo, non lascia dubbi sul tono di ciò che seguirà:
Mi trovo in un campo di concentramento per vecchi, un posto dove la gente scarica i genitori o i parenti proprio come se si trattasse di un bidone dell’immondizia.
Il racconto che segue si presenta sotto il genere letterario del diario. Sono i quaderni che Caroline riempie giorno dopo giorno e che saranno ritrovati dopo il drammatico incendio che mette fine alla vicenda. La veste letteraria merita una sottolineatura. La Medicina Narrativa, un movimento che si svilupperà almeno un paio di decenni dopo la redazione originale del romanzo, ha riservato a questo tipo di narrazioni la qualifica di Misery report, in inglese. Un’espressione che in italiano possiamo tradurre con “racconti del dolore”. Siamo dunque di fronte a un romanzo – genere letterario, per eccellenza, di finzione – che aspira ad accreditarsi presso il lettore come il resoconto diaristico di un vissuto. Le narrazioni che afferiscono ai Misery report non nascono con finalità letteraria: le innumerevoli persone che riversano nei libri o nei blog dei social il racconto del proprio percorso nella sofferenza e nella cura non aspirano ai premi che coronano le opere d’arte. I benefici di quelle narrazioni sono di natura psicologica e sociale, più che estetica; danno espressione alle emozioni di chi le redige e stringono legami sociali con chi attraversa situazioni analoghe. La nostra Caroline, ad esempio, esplicita che lei scrive per sentirsi viva e per provare la propria sanità mentale.
Nel contesto del romanzo questo secondo aspetto è centrale. I mal-trattamenti che la protagonista subisce nella residenza I Due Olminon sono infatti di tipo fisico, ma psicologico. Le due “cattive samaritane” esercitano su Caroline un raffinato sadismo con cui cercano di confonderla di proposito. L’obiettivo è ridurla a una passività assoluta: “Quando sarò un vegetale loro saranno contente”. Nell’ambiente in cui Caroline è ospitata l’unica persona che può essere definita sana è quella totalmente passiva. Chi resiste è pazzo e pericoloso. Questa spinta verso la passività è attuata con farmaci tranquillanti – che Caroline evita di assumere – e con piccole ma sistematiche menzogne quotidiane, che cercano di indurla in confusione. Contro questa pressione la protagonista alza le sue difese, che prendono appunto la forma di note nel diario che redige giorno dopo giorno.
La vicenda di Caroline acquista progressivamente un profilo universale. Se – come sintetizza il Conte di Montecristo di Dumas – tutta l’umana saggezza è riposta in due parole: aspettare e sperare, che cosa diventa la vita quando lo sperare è evaporato? “Il tempo per la speranza è passato”, proclama Caroline; per lei la vecchiaia prende il profilo della perdita di ogni interesse. Di conseguenza, anche l’aspettare non ha più una giustificazione. Di qui il passo verso la catastrofe deliberatamente provocata: l’incendio che annienterà, insieme alla sua vita, l’orrore in cui si sente prigioniera, rispondendo con la violenza alla violenza che subisce. Caroline ha però, paradossalmente, una speranza di riserva. Scrive nel suo diario: “Forse se questa storia di disperazione potesse essere pubblicata aiuterebbe coloro che hanno a che fare con persone come me. I malati nel corpo o nella mente, o semplicemente i vecchi abbandonati”.
Con questa aspirazione il fittizio Misery report ci rimanda in braccio alla Medicina Narrativa nella sua accezione letteraria. Come tutte le grandi espressioni dell’arte, la letteratura ambisce ad aprire la mente, a fornire una maggiore profondità al nostro sguardo, così da cogliere aspetti invisibili della realtà che abbiamo davanti agli occhi. Così prende forma anche il titolo che è stato dato alla traduzione italiana del romanzo di May Sarton: As We Are Now è diventato Vi prego, cercate di capire. Non tanto un appello a cercare una giustificazione al suo gesto estremo (nel senso di: “Cercate di capire il motivo per cui ho fatto quello che ho fatto”…), quanto un invito a guardare in modo diverso la condizione in cui possono venirsi a trovare i grandi vecchi. Capire di più e meglio la realtà: è appunto l’aiuto che ci aspettiamo dalle grandi narrazioni letterarie.
Merita un’ulteriore sottolineatura la distanza cronologica e culturale che ci separa dal romanzo. Questo è ambientato negli anni ’50 del secolo scorso, in un’America che non dispone di un servizio sanitario pubblico universalistico. I Due Olmi sono una risposta che sembra anni luce lontana da quella che alla nostra latitudine ha saputo creare l’organizzazione sanitaria. Eppure ora, dopo lo tsunami della pandemia, ci inquieta il pensiero del gerontocidio involontario a cui abbiamo assistito e che continua a incombere. Le moderne RSA non sono paragonabili alle risposte che poteva offrire l’America provinciale della metà del Novecento. Eppure il titolo originale del romanzo – Come Siamo Noi Ora – suona inquietante. Negli ultimi tempi abbiamo disinvestito, in personale sanitario e risorse, nei confronti delle strutture destinate a prendersi cura dei grandi vecchi. Abbiamo così assistito a un regresso della qualità dell’assistenza, che l’emergenza ha portato allo scoperto. Viene il sospetto che chi ha preso dallo scaffale della letteratura quel romanzo e, spolveratolo dalle dimenticanze che lo ricoprivano, lo ha riproposto in traduzione italiana abbia voluto dare all’iniziativa la valenza di un monito: se vogliamo prevenire che il fumo di incendi analoghi a quello che ha distrutto la vergogna dei Due Olmi si levi all’orizzonte – un incendio devastante, fosse pure simbolico – impegniamoci a contrastare il degrado che sta investendo le strutture dove trova rifugio al vecchiaia di casa nostra.

*Sandro Spinsanti è direttore della rivista "Janus. Medicina, cultura, culture" (ed. Zadig-Roma)

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