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Il dono del corpo ci mantiene umani dopo la morte. Editoriale di Luisella Battaglia

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Il libro scritto da quattro medici che hanno vissuto la pandemia: Michela Chiarlo, Francesca Bosco, Davide Tizzani e Federica Zama Cavicchi. Recensione di Sandro Spinsanti

Quattro medici dell’ospedale San Giovanni Bosco di Torino, che hanno vissuto l’ondata drammatica della pandemia in prima linea, hanno raccontato quanto hanno vissuto nel libro “Abbracciare con lo sguardo. Cronache dal reparto covid” (ed Il Pensiero Scientifico). Con sobrietà, senza autocelebrazioni di eroismo, riconoscendo onestamente i limiti con i quali si sono confrontati. Hanno dovuto inventare modalità nuove di praticare la cura. Ma contemporaneamente hanno scoperto che, pur bardati da astronauti o palombari, si può “abbracciare con lo sguardo”, come evidenzia il titolo del libro. Nella situazione di isolamento creato dall’emergenza, la vista sembra essere restato il canale privilegiato nel rapporto di cura. Diversamente da quanto avviene in condizioni di normalità. Faceva notare acutamente la linguista Lucia Fontanella - che ha scritto la presentazione -, proponendo riflessioni sulla comunicazione in ambito clinico sulla base dei propri ricordi ospedalieri: “Se siete stati in ospedale, soprattutto da malati, avrete notato quante strategie sanno usare i medici e gli infermieri per non incrociare lo sguardo dei pazienti. Hanno paura di essere ‘arpionati’, hanno paura di una domanda, hanno paura di incontrare le persone che sono i malati” (“La comunicazione diseguale”, Il Pensiero Scientific). Ancor più provocatoriamente, Pino Roveredo nel romanzo “Ci vorrebbe un sassofono” (Giunti 2019) mette in bocca a una paziente la domanda pungente rivolta con cortesia al suo medico: “Scusi se mi permetto, sa per caso di che colore sono i miei occhi?”. Siamo nell’ambito delle lagnanze tante volte ascoltate da parte dei malati nei confronti dei medici che per tutta la durata della visita non hanno mai staccato gli occhi dallo schermo del computer. L’emergenza della pandemia può avere questo insperato effetto benefico: distogliere i curanti dalla fascinazione crescente esercitata su di loro dalla comunicazione digitale, per riportarli sul terreno solido di una cura che passa attraverso i sensi. La vista in primo luogo. In competizione con l’udito: perché l’ascolto è il primo atto di un processo comunicativo. Precede la parola e l’accompagna nella conversazione. E naturalmente il tatto, a cui affidiamo il bisogno di vicinanza, soprattutto quando le risorse terapeutiche hanno toccato il fondo e il bisogno prevalente è quello di essere accompagnati nell’ultimo tratto di strada. È allora che la medicina scopre quanto l’high touch prevalga sull’hightech.

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