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La difficoltà di vivere l’emergenza e il dolore della differenza

Il coronavirus ci costringe a vivere un’esistenza differente rispetto a quella alla quale eravamo abituati. La nostra libertà di movimento è notevolmente ridotta; la socializzazione è diventata on-line: gli abbracci, la vicinanza fisica, il condividere una cena, sono vietati. Questa è una prova durissima per ognuno di noi perché come disse Aristotele “l’uomo è un animale sociale”; vivere l’isolamento comporta smarrimento e, a volte, depressione ma anche la possibilità di riflettere sulla propria vita, sulle proprie scelte per capire se queste ci soddisfino; sulle proprie relazioni, per capire se e quanto queste siano importanti per noi o, come direbbe Pierre Hadot, di praticare l’esercizio spirituale della meditazione per conoscere se stessi, grazie a una filosofia che ci guida nelle nostre azioni e diventa un’arte: l’arte di vivere. Abbiamo rivolto alcune domande alla prof.ssa Alessandra Fabbri nell’ambito delle conversazioni tra l’Istituto Italiano di Bioetica e NOIDONNE ispirate ai temi sollevati dalla pandemia.

Qui le altre conversazioni pubblicate su: il prendersi cura, la globalizzazione, la morte, Scienza: fidarsi/affidarsi; Infermieri e infermiere; Salute/economia, ecofemminismi, Terza età e vecchiaia.

Ognuno di noi, in una situazione di emergenza, come quella che stiamo attraversando, si sente perso: tutte le abitudini sono cambiate ed è difficile adeguarsi alla nuova realtà, ma come vive questa situazione di emergenza chi ha una disabilità?
In tutte le condizioni di disabilità c’è un elemento comune: il dolore e la conseguente difficoltà di vivere fuori dalla norma. Per non banalizzare l’argomento, vorrei fornire ulteriori spunti di riflessione, come ricorda Canguilhem: “È l’anormalità, la differenza dalla norma (un elemento statistico che, però,assume spesso un significato di «valore»), definita dalla maggioranza che ha un effetto doloroso e negativo sul benessere della persona disabile: quando l’anomalia viene interpretata nei suoi effetti, in relazione all’attività dell’individuo, e dunque alla rappresentazione che egli si fa del proprio valore e del proprio destino, essa è invalidità. (…) Per l’invalido, in fondo, vi può essere un’attività possibile e un ruolo sociale onorevole. Ma la limitazione forzata di un essere umano a una condizione unica e invariabile è giudicata negativamente, in riferimento all’ideale umano normale che è l’adattamento possibile e voluto a tutte le condizioni immaginabili”. Questo allontanamento dalla norma porta a una diversa considerazione di sé e delle situazioni che ci accadono. L’esperienza di vivere un’emergenza come quella del Covid-19 può amplificare la percezione del proprio handicap. Mi riferisco alla mia personale esperienza: essere costretti a casa ci obbliga a confrontarci direttamente con le attività quotidiane che non si possono praticamente svolgere e la conseguente sensazione di impotenza, che ne deriva, può schiacciarci; l’incertezza del futuro può anche diventare insopportabile, qui parlo non tanto e non solo della possibilità di scelta di un percorso di vita, ma della paura di non sapere come muoversi praticamente. Mi spiego meglio, io ho una disabilità motoria che mi costringe a deambulare con due stampelle, nonostante questo riesco ad essere abbastanza autonoma: mi muovo autonomamente, prendo i mezzi pubblici, ho la mia vita sociale, ho raggiunto una mia normalità. In questo momento di “realtà sospesa” ho molta paura. Le mie terapie di riabilitazione sono interrotte, faccio molta fatica a camminare e non so come sarà organizzato il trasporto pubblico, se e come potrò accedervi. In tutti i decreti indetti in questo periodo, non si nomina la disabilità, essa sembra una condizione riguardante solo poche persone. Una condizione che si preferisce nascondere. Io sinceramente mi sento invisibile, non supportata dalla dimensione pubblica e politica. Mi sento pervasa da una certa ansia e non so come reagire. Cerco però di non farmi sopraffare dalla paura, cerco di mantenere la calma e riflettere.

Come è possibile superare questo stato, rendersi visibili, e raggiungere un ben-essere che ci permetta di trovare un equilibrio tra le cose che non possiamo fare e quelle che possiamo svolgere, trovando uno spazio per di soddisfazione? Come si può raggiungere il ben-essere con e nonostante una disabilità?
Difficile dare una risposta univoca: ogni persona reagisce alla propria menomazione e conseguente disabilità, in maniera differente, in base alla propria condizione psicofisica, alla propria capacità di elaborazione e all’ambiente in cui vive; ognuno cerca strategie efficaci per raggiungere un proprio equilibrio da cui consegue uno stato di salute e benessere, possibile anche in casi di disabilità.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha definito la salute come: “Stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia” ne consegue che assumono un'importanza centrale le condizioni e il well– being (stare bene) delle persone, non la patologia. È sulla base di questa definizione che trova fondamento un modello di classificazione come l’ICF (International Classification of Functioning, Disability and Health, OMS, 2001) che non si riferisce più a un disturbo, strutturale o funzionale, senza prima rapportarlo a uno stato considerato di salute. È significativo che la classificazione elenchi anche i fattori ambientali che interagiscono a determinare una situazione di disabilità, che viene definita, infatti, come la conseguenza o il risultato di una complessa relazione tra la condizione di salute di un individuo, i fattori personali e i fattori ambientali incidenti sul contesto di cui è parte. In sintesi, porre al centro il ben-essere comporta il passaggio da un modello welfarista, basato su un calcolo costi-benefici per il quale efficienza ed efficacia sono misurate in termini quantitativi, a uno fondato sul well–being quale esito di scelte ragionevoli tali da privilegiare la dimensione qualitativa del ben-essere.
Prendere seriamente in considerazione la dimensione qualitativa del benessere implicherebbe, anche in situazione di emergenza, la necessità di prendersi cura delle persone, anche di quelle che vivono in condizioni di particolari vulnerabilità, come le persone con disabilità. Ho usato il condizionale perché mi sembra che le condizioni di particolare vulnerabilità non siano considerate dall’ambito pubblico e politico, nemmeno in questa emergenza. Questo perché la dimensione della cura non ha un effettivo riconoscimento. Attribuire alla cura una dimensione politica potrebbe favorire il benessere e limitare i danni psicologici e sociali che derivano dalla pandemia e dall’isolamento.

Quale significato ha il termine cura e come può collegarsi al ben-essere?
Nella lingua italiana la parola cura ha diversi significati, tutti compresi in un unico termine. Nella lingua inglese questi significati rimandano a due differenti termini Cure e Care: Cure prevede una serie di rimedi atti a riportare alla normalità l’organo o gli organi malati,la care ha come principale obiettivo la realizzazione del ben-essere, ma l’obiettivo del ben-essere è assai più complicato di quello che appare nell’uso (o abuso) tanto comune oggi: attraverso le lenti della cura si può vedere un insieme di significati e di pratiche che si ispirano a questo scopo. Una dimensione di ben-essere, e conseguentemente di ben-vivere, che ritengo sia il fine del ben-essere, rimanda ad una serie di questioni ulteriori.

Chi decide cosa sia il ben-essere? E chi sceglie come realizzarlo?
In questa prospettiva strumenti importanti (come una metodologia di analisi e azione) vengono forniti dall’etica della care e, più in particolare, dalla versione politica della care, sviluppata da Joan Tronto.
La Tronto intraprende una riflessione attenta per costruire una nuova etica situazionale, capace di riconoscere i sentimenti morali quali inclusione e simpatia, e, riflettendo sui bisogni, ribadisce la stretta relazione tra democrazia, mercato e cura.
La Cura, sottolinea Tronto, è un processo che solitamente è affidato alle donne, specialmente a quelle che si trovano in posizioni di svantaggio economico e sociale: “caring activities are devalued, underpaid and disproportionately occupied by the relatively powerless in society”. Al fine di realizzare il necessario e grande cambiamento nei termini e negli schemi dell’attuale assetto politico, Tronto propone di utilizzare gli strumenti propri dell’etica della cura, che favoriscono una distribuzione delle risorse più equa e soprattutto l’inclusione di tutti gli attori sociali, comprese le categorie tradizionalmente escluse.
La pratica della cura richiama quattro elementi fondamentali da un punto di vista della teoria morale: l’attenzione, la responsabilità, la competenza e la responsività.
La care può essere considerata una dimensione costitutiva della nostra vita morale: l’esercizio del caring, ossia della pratica del prendersi cura nella sua transitività, costituisce un elemento fondamentale di una teoria politica della giustizia e non può essere lasciata esclusivamente all’ambito privato.

A questo punto si pone un quesito: com’è possibile integrare i bisogni di cura nella nostra visione politica?
È necessario riflettere su due concetti: dipendenza e autonomia. Come sostiene Joan Tronto considerare la cura come aspetto fondamentale della vita umana ha profonde implicazioni: in primo luogo significa non guardare alle persone come esseri pienamente autonomi, ma vederli in una condizione d’interdipendenza. “È parte della nostra vulnerabile natura umana, scrive la Tronto, che la nostra autonomia emerga dopo un lungo periodo di dipendenza e che, sotto molti aspetti, restiamo dipendenti dagli altri per tutta la vita. Allo stesso modo siamo chiamati a prenderci cura degli altri. Dal momento che siamo talora autonomi, talora dipendenti, talora accudenti, possiamo essere descritti come individui inter-dipendenti”.
È indispensabile, allora, ripensare le due nozioni di dipendenza e autonomia, nel contesto di un’etica della cura, per pervenire a un concetto più complesso di autonomia, non facendo della dipendenza uno stato permanente, ma piuttosto una condizione da superare.
Tronto sottolinea come le qualità dell’attenzione, della responsabilità, della competenza e della capacità di rispondere non devono essere ristrette agli oggetti immediati della nostra cura, ma possano, anche, modellare le nostre pratiche come cittadini. Questo favorisce una politica al cui centro vi sia la discussione pubblica sui bisogni e una valutazione equa dell'intersezione tra bisogni e interessi.

Com’è possibile inserire effettivamente il valore della cura in una teoria della giustizia, collocandola così in ambito politico?
Per inserire effettivamente il valore della cura in una teoria della giustizia è necessario riflettere sul concetto di bisogni e, in particolare, sull’origine e sulla natura dei bisogni emergenti all’interno di contesti, che variano non solo da una persona all'altra, ma nel corso della vita personale: io bambino e io anziano avrò esigenze differenti. Sembra un'osservazione banale, invece è fondamentale perché solo riconoscendo ogni individuo come portatore di bisogni potremo affrontare con maggiore consapevolezza il problema dell'allocazione di risorse, attribuendo valore anche a coloro che hanno bisogni straordinari, rendendo finalmente visibili le persone che vivono in situazioni di svantaggio.
In un’epoca dominata da una politica che potremmo definire dell’emergenza, che si preoccupa di porre frettolosi rimedi ai problemi sociali anziché costruire risposte che vadano alla radice degli stessi, in un’epoca chiaramente di crisi e di perdita del senso di responsabilità verso gli altri e verso se stessi, la cura, intesa come etica della care, appare come una modalità per dare considerazione alla persona sia nella sua dimensione individuale che in quella sociale.

Questa intervista è pubblicata anche in noidonne.org

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