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di Luisella Battaglia

“Testamento biologico: una scelta oggi per un diritto domani”. Questo il bel titolo di un affollatissimo incontro al Ducale sulle DAT (Disposizioni anticipate di trattamento), ovvero sul documento che consente a ciascuno di noi, se lo desidera, di dichiarare anticipatamente le proprie volontà in merito a trattamenti terapeutici a cui vorrebbe, o non vorrebbe, essere sottoposto in caso di sopravvenuta incapacità.
Se nella pianificazione condivisa delle cure fondamentale è l’elemento della fiducia nel proprio medico, chiamato a fornire in termini comprensibili le informazioni più esaurienti e a consigliare le terapie più appropriate, altrettanto importante è la figura, prevista dalla legge, del “fiduciario”, designato dallo stesso paziente, col compito di vigilare sulla corretta esecuzione delle disposizioni e di intervenire a tutela delle volontà precedentemente espresse. Sennonchè proprio su questa figura si sono concentrati, nel dibattito, i maggiori dubbi. Ci si è chiesti, ad esempio, in base a quali criteri effettuare la nomina, se privilegiare le competenze professionali o le affinità personali, i legami di parentela o di amicizia. Quesiti tutti assolutamente pertinenti perché il fiduciario rappresenta una figura di garanzia, chiamato a interpretare, in caso di eventuali controversie col medico o la famiglia, la volontà autentica del paziente. Una relazione, quindi, basata sulla fiducia. Ma proprio su questo punto è esplosa una raffica di domande. Saprà far rispettare fino in fondo le mie decisioni? Non si farà intimidire dall’autorità del medico o dalle richieste dei parenti? Saprà resistere alla tentazione di tenermi in vita a tutti i costi, per il mio “bene”, anche se contro la mia volontà? Insomma, verrebbe da dire, un fiduciario di cui non ci si fida, anzi sfiduciato in anticipo. Il dato più paradossale è che la figura destinata a rassicurare chi sottoscrive il biotestamento rischia di generare nuove inquietudini. Cosa ci sta succedendo? Come spiegare tale crisi della fiducia, il progressivo venir meno di quel tessuto di relazioni interpersonali che dovrebbe costituire la nostra vita sociale e fondare lo stesso rapporto di amicizia? E’ così difficile oggi fidarsi di qualcuno, anche di chi abbiamo designato come nostro fiduciario al punto di preferirgli –come si è proposto - il rappresentante anonimo di un’associazione? Gli antichi filosofi definivano l’amicizia il bene più prezioso e vedevano nell’amico l’alter ego, un altro me stesso. Fidarsi può considerarsi l’atto fondativo di ogni società, il prerequisito minimo – secondo il sociologo Niklas Luhman – di ogni interazione sociale. Il ‘dare la parola’ prevede, infatti, il coinvolgimento di entrambi i soggetti in relazione, non solo dunque di chi concede la fiducia ma anche di chi la riceve e dovrà comportarsi in maniera da esserne degno. Ora, gran parte delle questioni di cui si occupa la bioetica – le cosiddette questioni di ‘entrata’ e ‘uscita’ dalla vita – riguardano le relazioni tra uomini e donne che vivono in società e che, ai margini della sfera pubblica burocratica e centralizzata, continuano a vivere, a soffrire, ad amare, a lavorare per i figli e gli amici. Le azioni più importanti della nostra vita si collocano in gran parte al di fuori dei rapporti mercantili e della logica del do ut des, giacché rientrano in una rete di relazioni sociali fondate sulla solidarietà e sul prendersi cura. Per questo dovremmo forse considerare che, oltreché espressione di un diritto costituzionalmente garantito, le DAT si configurano anche come un gesto d’amore nei confronti di chi resta e potrebbe un giorno trovarsi a dover decidere al posto nostro sotto il peso di una responsabilità resa meno gravosa dal rapporto di fiducia.

Articolo di Luisella Battagliapubblicato in "Il Secolo XIX" di Lunedì 24 febbraio 2020

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