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Eterologa, la paternità non è solo un fatto biologico
Luisella Battaglia
(da Il Secolo XIX, Venerdì 10 giugno 2005)
Com’è noto, molti di coloro che voteranno sì al referendum si sono dichiarati contrari alla fecondazione eterologa. Le riserve sono di varia natura. Alcune riguardano il tipo stesso di famiglia—artificiale—che si verrebbe a creare con la donazione di gameti estranei alla coppia, una volta che venisse autorizzata la donazione di ovociti, nel caso di sterilità femminile, o di spermatozoi ,nel caso di sterilità maschile. Altre riguardano il fatto se sia eticamente e socialmente positivo tenere all’oscuro esseri umani della propria genitorialità naturale, in nome del diritto di chiunque di conoscere i propri genitori biologici e del dovere di proteggere i nascituri dai delicati problemi che potrebbero insorgere.
Ritengo che a queste obiezioni si debba rispondere con molta serietà, evitando ogni sottovalutazione del problema. Si è parlato di famiglia artificiale ma abbiamo un altro esempio di artificialità: l’adozione. Le differenze sono evidenti: la prima, la più ovvia, è che l’adozione è un istituto pensato per dare una famiglia a un bambino che già c’è laddove la fecondazione eterologa è una pratica che intende aiutare una coppia ad avere un bambino. Nel primo caso, al centro dell’attenzione è il bambino, nel secondo, la coppia. E’ tuttavia un progetto di genitorialità che si realizza: in entrambi i casi, c’è una forte volontà di costituire una famiglia fondata su legami sociali anziché su vincoli di sangue. E’ la decisione di un uomo e di una donna che sottrae la maternità e la paternità alla natura e al destino. Perché ostacolare tale decisione? Quando il progetto procreativo è voluto con piena consapevolezza dalla coppia non sembra in alcun modo giustificato un divieto come quello della legge in questione. Forse non si è sufficientemente riflettuto che la proibizione della fecondazione eterologa nega quell’autonomia che costituisce un principio irrinunciabile della nostra civiltà, in campi come la famiglia, la sessualità, la procreazione. Da più parti si constata con preoccupazione la progressiva erosione della sfera personale e intima, di quello spazio tra il proibito e l’obbligatorio in cui consiste la liceità ovvero la possibilità per ciascuno di noi di decidere liberamente il proprio piano di vita. E’ come se fosse in atto una regressione culturale e istituzionale con la messa in crisi del principio stesso della laicità dello Stato, quale si era venuto affermando fin dagli anni settanta con l’approvazione delle leggi sul divorzio, l’aborto e il nuovo diritto di famiglia, secondo una linea evolutiva che valorizzava l’autodeterminazione degli individui e rispettava la pluralità delle concezioni etiche.
Perché poi ritenere che sia una scelta eticamente valida solo l'adozione e non anche la fecondazione eterologa, una volta che si verifichi la determinazione della coppia, la solidità della sua unione, la fermezza delle sue intenzioni? Perché non predisporre, anche per essa, quella rete di sostegno sociale e psicologico, di ascolto, di condivisione, che opera per l’adozione? L’esperienza maturata in un trentennio di impiego della tecnica mostra che non si sono avute quelle devastazioni del tessuto sociale e familiare previste dagli apocalittici. Non solo la struttura della famiglia non è stata intaccata ma i bambini “venuti dal freddo”, ormai adulti, godono di buona salute fisica e psichica, hanno avuto uno sviluppo normale, non presentano malesseri e disagi particolari. La fecondazione eterologa, ammessa da tutti i paesi europei, assicura a una coppia un figlio proprio, procreato certo con gameti estranei, ma generato in quella famiglia, da una madre che lo ha portato in seno per nove mesi, intrecciando con lui un rapporto simbiotico indissolubile, e da un padre che ne ha seguito amorosamente la gestazione. E’ difficile affermare che questo figlio sia svantaggiato rispetto a un bambino adottivo, che ha subito il trauma del rifiuto e dell’abbandono da parte dei genitori biologici. Ma siamo poi sicuri che possa definirsi “genitore biologico” colui--o colei--che si è limitato a donare il materiale genetico necessario perché una coppia realizzasse il proprio progetto di vita?
In ogni caso, se la volontà di avere un figlio è frutto di una scelta libera e consapevole essa non può non avere conseguenze sul piano giuridico e non implicare responsabilità verso chi nasce. Il figlio ha certo diritto a uno status pienamente tutelato e a godere di un quadro sicuro di garanzie, che preveda, in primis, come per l’adozione, l’impossibilità di disconoscimento. Resta da chiedersi se esista un diritto a conoscere le proprie origini. Sappiamo che a questa domanda si sono date risposte diverse nei differenti paesi: alcuni, come la Francia e la Spagna, sostengono il principio dell’anonimato che tutela la privacy del donatore; altri, come la Svezia e l’Australia, assicurano tale diritto. Tale problema potrebbe ricevere una soluzione ragionevole: riconoscere al figlio il diritto di accedere all’informazione sull’identità genetica, mantenendo, nel contempo, il riserbo sull’identità anagrafica del donatore. Al quale si potrebbe chiedere se è disponibile a rivelare la sua identità o, viceversa, se preferisce mantenere l’anonimato. Si tratterebbe di un vero e proprio “consenso informato” suscettibile di dirimere molte controversie e di portare chiarezza su una materia assai delicata. Come si vede, la questione è complessa ma i problemi non appaiono insolubili: le grandi controversie in bioetica esigono uno sforzo di paziente ricerca dei punti che legano la società civile anziché disgregarla. Per questo il dibattito deve restare aperto, per questo è importante votare sì anche al quarto quesito.
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