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Comitato Nazionale per la Bioetica
Orientamenti bioetici per l'equita' nella salute
25 maggio 2001
Premessa
Negli ultimi decenni è emersa una crescente tendenza all'accrescimento delle disuguaglianze tra i popoli e tra gli individui, sia nella salute in sé che nell'accesso e nella qualità delle cure, sia tra i diversi paesi e aree del mondo che all’interno dei singoli paesi. Parallelamente si sono moltiplicate le ricerche empiriche, le analisi delle cause, i tentativi di suggerire orientamenti. Sono stati pubblicate ampie documentazioni sulle principali riviste internazionali, sono apparsi numerosi libri dedicati all’argomento, è sorta una "International Society for Equity in Health". L'argomento è stato posto all'attenzione della comunità mondiale. Solenni proclami che impegnano a modificare queste tendenze sono stati emanati nell'anno 2000, come "A better world for all (firmato dall’ONU, Banca mondiale Fondo monetario internazionale, e OCSE)", la "Millennium Declaration" dell'ONU e le indicazioni approvate dal vertice di Okinawa degli otto paesi più industrializzati (G8). La questione è stata posta all’ordine del giorno anche alla riunione di Genova dei G8 (luglio 2001) . L’Associazione Internazionale di Bioetica, al suo Congresso di Londra (settembre 2000), ha posto l'equità nella salute al centro del dibattito, e ha deciso di convocare il prossimo congresso (ottobre 2002) a Brasilia sul tema Bioethics, Power and Injustice. Da questi fatti e da questi orientamenti è emersa la necessità di una posizione del Comitato nazionale per la bioetica sull'argomento. Il tema dell'equità nella salute era già stato affrontato dal Comitato Nazionale per la Bioetica con il parere su Etica, sistema sanitario e risorse del 17 luglio 1998, con particolare riferimento alla ricerca biomedica e alla formazione del personale sanitario, ma la novità spesso drammatica della situazione suggerisce di approfondire l’argomento nei suoi diversi significati e implicazioni.
1. Definizione di equità nella salute
Per procedere a un’adeguata definizione di due concetti utilizzati in questo documento, "salute" ed "equità", sono necessari alcuni chiarimenti preliminari, che non sono invece indispensabili per il concetto di "etica", che in tal caso non potrebbero essere sviluppati a parte rispetto a una determinata concezione sostantiva. Indispensabile è piuttosto spiegare quali ragioni portano a preferire nel suo insieme la linea che si propone. Nel documento verranno quindi indicati i requisiti che rendono una procedura eticamente accettabile. Si cercherà inoltre di giustificare la linea prescelta attraverso un confronto con altre alternative.
La nozione di "salute" dipende indubbiamente da opzioni personali, ma il riconoscimento della componente soggettiva non deve far perdere di vista, specialmente in contesti come la distribuzione delle risorse pubbliche, la valenza oggettiva di tale nozione. Più avanti verrà esaminato il problema di una dimensione pubblica di salute che, senza cadere in forme di paternalismo, si occupi degli interventi che hanno maggiore incidenza sugli individui, piuttosto che di quelli volti a soddisfare desideri in massima parte auto-referenziali. Per il momento possiamo prendere le mosse dalle definizioni presenti in alcuni documenti basilari. Esse, come vedremo, possono essere utili, purché siano problematizzate e specificate.
Si potrebbe ritenere con l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Preambolo dell’atto costitutivo, 1946) che "la salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, e non consiste solo in un’assenza di malattia o di infermità". Questa definizione ha avuto un ruolo importante nel sottolineare l'esigenza di curare le persone e non solo le malattie, e nel superare una concezione puramente biologica dei fenomeni morbosi. Essa comprende da un lato il richiamo a una responsabilità personale e dall'altro il concetto di equilibrio dinamico fra l'individuo e il suo ambiente: Tuttavia, una concezione di salute così ampia rende difficile isolare un ambito di pratiche specifiche all’interno del quale far valere requisiti specifici di eticità; inoltre, il garantire una condizione di salute così intesa coinciderebbe con l’insieme dei provvedimenti che in moltissimi campi qualsiasi governo sarebbe impegnato ad adottare.
Ciò non diminuisce l’importanza dell’approccio esteso al concetto di salute, che l’OMS ha ulteriormente precisato (Congresso internazionale sulla promozione della salute Ottawa, 17-21 novembre 1986) nella Carta di Ottawa. In essa si afferma che per conseguire uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, l'individuo o il gruppo devono essere in grado di identificare e realizzare le proprie aspirazioni, di soddisfare i propri bisogni, di modificare l'ambiente o di adattarvisi.
La salute viene quindi vista come risorsa di vita quotidiana, in un’ottica che insiste sulle risorse sociali e personali oltre che sulle capacità fisiche. La promozione della salute non è perciò responsabilità esclusiva del settore sanitario.
I requisiti per la salute sono quindi visti in una luce intersettoriale che amplia le esigenze di intervento dei governi. Le condizioni fondamentali per la salute sono considerate: la pace, un tetto, l’istruzione, il cibo, il reddito, un ecosistema stabile ed equilibrato, la continuità delle risorse, la giustizia e l'equità sociale. La Carta di Ottawa, inoltre, mentre lega ogni progresso sul piano della salute al conseguimento di questi requisiti, indica la necessità di ridurre le differenze evidenti nell’attuale stratificazione sociale della salute, offrendo a tutti eguali opportunità e risorse per conseguire il massimo potenziale di salute.
Per muovere verso una nozione più determinata di salute si può invece prendere in esame l’articolo 25 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo: "Ogni persona ha diritto ad un livello adeguato che assicuri a lui e alla sua famiglia la salute e il benessere, l’alimentazione, il vestiario, la casa, l’assistenza medica e i servizi sociali necessari". Da questo articolo emerge con chiarezza l’area delle questioni per noi rilevanti, che è compresa tra due dimensioni: quella del concetto generale di salute e quella più specifica dell’assistenza medica. Tale area permette di presentare una concezione non riduttiva dell’assistenza medica e di un’equa distribuzione delle risorse ad essa assegnate.
L’articolo 25 inquadra giustamente la salute in un contesto di altri diritti, che sono al tempo stesso fattori primari del suo miglioramento. Influire su questi significa introdurre misure di prevenzione le quali, unitamente a provvedimenti specifici rivolti a singole malattie (per es. vaccinazioni) e all’assistenza terapeutica, possono agire in modo tale da mantenere, promuovere o migliorare lo stato di "salute possibile" della persona, che ovviamente sarà diversa da soggetto a soggetto. Questa prospettiva è implicita del resto nel citato Preambolo dell'atto costitutivo dell'OMS, secondo il quale "il possesso del migliore stato di salute che è capace di raggiungere costituisce uno dei diritti fondamentali di ogni essere umano, quali che siano la sua razza, la sua religione, le sue opinioni politiche, la sua condizione economica o sociale". La nozione di salute possibile ha il pregio non solo di connettere l’assistenza medica con una concezione non riduttiva della salute e con la prevenzione, ma di introdurre quella che è una delle grandi questioni della giustizia sanitaria, ovvero l’impossibilità di decidere le questioni distributive assegnando a tutti la stessa quota di risorse. Una soluzione del genere non terrebbe conto della tensione introdotta nel campo della salute dalla diversa distribuzione naturale e sociale delle malattie e dei deficit psicofisici, e quindi dei differenti gradi di intervento necessari per garantire la salute possibile. Vedremo come questo stesso ordine di questioni può essere affrontato all’interno di un’etica che veda come uno degli obiettivi centrali degli interventi sanitari il ripristino e la garanzia delle capacità (o, come talvolta si traduce, le capacitazioni, Sen, 2000) degli individui. Il problema della salute può anche essere definito, infatti, in termini di accrescimento delle capacità operative degli individui e la cura come il ripristino di queste capacità. Questo punto di vista valorizza la salute come condizione per esprimere appieno la propria attività e chiama in causa la responsabilità propria e quella degli altri. 2. Ambiti e criteri dell’equità
Dopo aver esaminato la nozione di "equità nella salute" in quanto tale, è da valutare una caratterizzazione di questa nozione che ne indichi gli intrecci con i modi classici in cui sono state affrontate le questioni di giustizia.
La nozione di equità – tenendo conto della tradizionale distinzione tra giustizia commutativa e giustizia distributiva – si colloca principalmente nell’area delle questioni della giustizia distributiva, cioè di un particolare criterio normativo con cui si intendono affrontare le questioni di distribuzione delle risorse. La salute come tale dipende tuttavia in larga parte da risorse indirette come l’istruzione, le condizioni di lavoro, le situazioni abitative, la salubrità dell’ambiente, i comportamenti e le scelte personali, il grado di solidarietà a livello familiare e comunitario, ecc. Non tutti questi fattori sono collegati a vincoli di bilancio.
La salute, inoltre, non è un bene a somma zero, la cui equa distribuzione implichi sottrarre qualcosa agli uni per beneficiare gli altri. Il suo equo miglioramento in una comunità può anzi costituire un moltiplicatore e contribuire ad aggiungere qualcosa a tutti in proporzione alle esigenze differenziali di ciascuno, e il suo peggioramento in una parte della popolazione produce rischi aggiuntivi per gli altri. Da ciò deriva il concetto di "indivisibilità della salute", che si è affermato soprattutto nel secolo XX:
Una prima specificazione del significato di equità può essere colta all’interno dei problemi della giustizia sanitaria, che nel suo insieme costituisce l’area delle questioni di giustizia che si pongono relativamente alla salute degli esseri umani. Esse nascono in modo evidente nel campo terapeutico, perché le risorse con cui possono essere soddisfatte le esigenze di salute degli esseri umani non sono illimitate e dunque – data l’importanza e la priorità, non sempre assoluta, delle esigenze collegate con la salute – si presentano spesso come insufficienti a soddisfarle tutte. Diverse concezioni (da Hobbes, a Locke, a Hume, a Smith, a Mill, a Rawls, ecc.) sostengono che vi sia una vera e propria condizione di scarsità che accompagnerebbe tutte le questioni di giustizia, dato che se la quantità di un bene è illimitato (poniamo, oggigiorno, l’aria) non abbiamo bisogno di cercare criteri per la sua distribuzione equa. Per molti aspetti è più appropriato parlare quindi di scarsità di mezzi economici, di strumenti, di competenze professionali, di tempo del personale sanitario, di spazi in cui prendersi cura delle persone malate ecc. Su questi temi il documento si sofferma in particolare nel punto 6. Sin d’ora si ritiene tuttavia utile rilevare che l’uso della nozione di scarsità può accogliere l’idea che tale scarsità sia costitutiva per molti aspetti della salute, ma non per tutti.
L’attribuzione delle risorse relative all’assistenza sanitaria, in quanto essa influisce sulle scelte complessive relative ai bilanci pubblici, non può partire ovviamente dall’idea che esse siano illimitate. La loro scarsità tuttavia può essere assoluta o relativa, quest’ultima in rapporto al peso che ogni paese (o la comunità internazionale) attribuisce al valore della salute degli individui. Comunque, in molti sensi, esse sono sempre inferiori ai bisogni.
Vedremo in seguito come sia utile distinguere, all’interno della giustizia sanitaria, l’area delle questioni di macro-distribuzione (o macro-allocative) da quelle di micro-distribuzione (o micro-allocative), ovvero le questioni che riguardano i criteri generali dell’impegno sanitario dalle questioni che chiamano in causa le relazioni più determinate tra i soggetti di cui la giustizia sanitaria si occupa. Le questioni di ordine macro-distributivo chiamano in causa principalmente scelte politiche e amministrative; mentre le questioni micro-distributive hanno a che fare con situazioni in cui, nelle scelte e nelle decisioni, sono direttamente (anche se non esclusivamente) coinvolti gli operatori sanitari, visti nella relazione con i malati di cui si occupano. 3. Criteri alternativi all’equità
In via preliminare, nel tentativo di fare emergere il peculiare significato della nozione di equità, si può precisare che essa chiama in causa un particolare criterio con cui si ritiene di potere elaborare sul piano normativo la soluzione dei problemi di giustizia. Come è evidente, chiamare in causa come pertinente il criterio dell’equità vuole dire contrapporsi decisamente a quelle posizioni che ritengono che tutte le questioni distributive relativamente alla salute debbano essere affidate alla lotteria naturale, per la quale le persone si trovano casualmente a essere sane o malate, o essere affidate integralmente ai meccanismi del mercato, ovvero alle disponibilità economiche private e agli equilibri realizzati dal gioco della domanda e dell’offerta senza alcun intervento pubblico. In realtà, anche coloro che guardano alle questioni di giustizia sanitaria muovendo da queste concezioni sono spesso costretti a indicare delle aree (ad esempio il trattamento dei disabili o delle persone in stato gravissimo di indigenza, ecc.) in cui sembra inevitabile un intervento pubblico.
Si ripresentano perciò, anche in queste concezioni, le domande su ciò che è equo fare o non fare, partendo da ciò che ha pertinenza con la salute e dovendo riconoscere la natura del tutto peculiare di questo bene. E’ ad esempio rilevante che l’economista Kenneth Arrow (Arrow, 1978), cercando di affrontare le questioni dell’allocazione dell’assistenza medica all’interno di un quadro ispirato all’economia del benessere, ha riconosciuto la natura del tutto peculiare di questo bene, specificando che "la caratteristica distintiva più ovvia della domanda di servizi medici da parte di un individuo è che non è, in principio, costante, al contrario della domanda, per esempio di cibo o di abbigliamento, ma irregolare e imprevedibile". Il che significa che i normali meccanismi della domanda e dell’offerta vanno incontro in questo caso a condizioni di incertezza che li rendono molto meno ovvi. Inoltre Arrow stesso non manca di riconoscere, da un altro punto di vista, la natura del tutto particolare del bene costituito dall’assistenza medica: "La domanda di servizi medici è associata, con probabilità considerevole, a un attacco all’integrità personale"(Arrow, 1987, p. 181).
Oltre alla natura peculiare del bene salute, c’è inoltre una natura peculiare delle modalità di rapporto tra salute e mercato. Nel mercato sanitario, più marcatamente che in altri ambiti, l’offerta tende a condizionare la domanda, sino a dominarla. In questo "mercato imperfetto", nel quale ha un ruolo fondamentale un’informazione chiaramente asimmetrica tra il paziente e altri soggetti (professionali, scientifici, commerciali), tende a essere messa in ombra la caratteristica propria della domanda del bene salute.
Questo documento, pur contestando un’impostazione che affidi esclusivamente al libero mercato le decisioni relative alla distribuzione sociale delle cure, riconosce tuttavia che tali orientamenti risultano talvolta efficaci sia nel richiamare ciascun cittadino a calcolare responsabilmente i costi delle sue scelte, sia nell'evitare che lo stato sia considerato l'unico soggetto al quale affidare la tutela. È apparso sempre più evidente che la salute e l'equità nella salute sono il risultato di molteplici interventi degli individui e delle famiglie, dei corpi intermedi in cui si esprime la società civile, delle associazioni di volontariato, delle comunità territoriali, di soggetti pubblici, privati e non-profit. Occorre distinguere adeguatamente i diversi livelli di intervento per poterli coordinare in modo non gerarchico e in modo che ciascuno sia messo in grado di prendere decisioni appropriate al proprio ambito di responsabilità. 4. Equità e uguaglianza
La distinzione tra equità ed eguaglianza si ripropone nella diagnosi delle situazioni di fatto, nei cui confronti si dovrebbe intervenire. Non tutte le disuguaglianze nella salute, infatti, sono inique. Non lo sono, per esempio, quelle che dipendono dal diverso patrimonio genetico degli individui, o da circostanze fortuite, oppure ancora da comportamenti scelti liberamente dall’individuo stesso. A questo proposito l’Ufficio europeo dell’OMS ha precisato opportunamente che "l’iniquità, nel campo della salute si riferisce alle differenze che sono non soltanto non necessarie ed evitabili, ma anche inaccettabili e ingiuste". In questa affermazione il criterio di valutazione oggettivo riferibile a condizioni documentabili (anch’esse, tuttavia, storicamente determinate in base alle conoscenze e alle cure possibili) è fortemente intrecciato con il criterio soggettivo del giudizio morale.
Questo riconoscimento implica anche prendere le distanze dalla tesi secondo cui alle questioni distributive relative alla salute si debba rispondere facendo valere un criterio di eguaglianza. Esso significherebbe affermare (ammesso che ciò sia possibile) un principio di natura descrittiva, nel senso che una volta individuati i criteri che rendono eguali e dunque tutti meritevoli delle stessa considerazione, l’unico problema che si pone è quello di vedere se un certo individuo rientra o meno nell’una o nell’altra categoria. Esso può dunque accompagnarsi a posizioni che ritengono che la biologia e la medicina siano in grado di offrire criteri neutri per risolvere le questioni di giusta distribuzione delle risorse per la salute, in base alla ripartizione in parti eguali delle risorse disponibili per tutti coloro che ne hanno diritto. Abbiamo però già indicato la difficoltà di fare valere una procedura del genere in una situazione come quella della distribuzione naturale (spesso notevolmente diversa) delle condizioni di salute, che è diversa tra gli individui.
E’ invece caratteristico delle concezioni che ricorrono alla nozione di equità chiamare in causa opzioni etiche che permettano di discriminare tra quella che è una distribuzione equa e quella che è una distribuzione iniqua. In prima istanza, dunque, porre al centro degli orientamenti bioetici la nozione dell’equità equivale a ritenere pertinente una trattazione etica di tutte le questioni della giustizia sanitaria, rifiutando sia un’impostazione che le riconduce esclusivamente alle conseguenze economiche delle diverse alternative, sia un’impostazione che ritiene sufficiente l’analisi descrittiva delle situazioni da cui si generano problemi di distribuzione.
Ma una volta fatta emergere questa radice etica di fondo, consistente in un approccio in termini di equità alle questioni di giustizia sanitaria, non bisogna ritenere che vi sia un solo criterio sostantivo per dare corpo alle esigenze dell’equità. Vi sono infatti diversi modi di identificare ciò che è equo nella distribuzione delle risorse per la salute e nel trattamento di coloro che hanno bisogno di cure. Al tempo stesso va sottolineata l’area comune che le diverse concezioni condividono: quella del riconoscere la piena dipendenza da valutazioni di ordine morale delle opzioni che mettono in gioco la salute. 5. Le risorse per la salute e il valore della prevenzione
E’ necessario tener conto, nella discussione dei temi legati alla dimensione dell’equità in sanità, che la difesa e il miglioramento della salute - degli individui come di una comunità - non dipendono solo dall’entità delle risorse dirette e indirette che a essa vengono devolute, ma anche dal modo con cui le risorse vengono impiegate. Anche privilegiando la salute rispetto ad altri settori in cui investire risorse, non si troverebbe infatti una facile risposta ad alcuni problemi legati alla gestione di risorse non illimitate: a) la necessità a volte di scelte tragiche, riguardanti i soggetti ammalati; b) il rischio di distorsioni nelle scelte allocative (misallocation, iniquities e inefficiency, per usare le espressioni della World Bank); c) il dilemma della scelta tra impiego di risorse orientato prevalentemente alla cura o alla prevenzione. Si può tuttavia ragionevolmente ritenere che la rimozione di alcuni equivoci e luoghi comuni sul terzo dilemma "prevenzione o cure ?" possa consentire alle attività di prevenzione di dispiegare con maggiore efficacia il proprio potenziale, riducendo così, proprio attraverso i migliori risultati in termini di salute, l’impatto dei primi due problemi, attraverso la riduzione (non certo l’eliminazione) della necessità stessa di dover scegliere.
Il primo equivoco che riguarda la prevenzione, e che deve essere considerato con particolare attenzione nelle riflessioni che ispirano le scelte di fondo sull’allocazione delle risorse in sanità, riguarda la presunta necessità di dover individuare una preferenza tra prevenzione e cura, una sorta di principio ispiratore che privilegi l’una a discapito dell’altra. Tale alternativa, in realtà, spesso non ha ragione di essere. Esistono infatti numerosi punti di contatto, che si spingono in alcuni casi fino all’identificazione stessa tra questi due ambiti; e non appare ragionevole concepire politiche sanitarie che contemplino a priori il sacrificio di una dimensione all’altra. La prevenzione, ad esempio, può ridurre la necessità di terapie, e nel contempo le terapie possono svolgere un ruolo preventivo nei confronti degli aggravamenti delle patologie desistenti.
Un altro equivoco risiede nel ritenere che la proverbiale espressione di saggezza rappresentata dal detto "prevenire è meglio che curare" sia un’acquisizione diffusa e radicata in chi assume decisioni pubbliche. La realtà degli investimenti dedicati dai bilanci degli stati (sia poveri che ricchi), e le stesse preferenze "spontanee" delle comunità, orientate il più delle volte a privilegiare la costruzione di ospedali piuttosto che di misure e di servizi orientati alla prevenzione, testimoniano che è necessario sviluppare con più impegno l’informazione e la formazione sui benefici della prevenzione.
Poiché tuttavia parlare di prevenzione in termini generici non aiuta a comprendere la sua portata per la salute, è opportuno centrare l’attenzione su quell’ambito della prevenzione che influisce in modo diretto sulle cause delle malattie. La specificazione più spesso utilizzata per definirla ("prevenzione eziologica") aiuta, infatti, a comprendere alcuni suoi aspetti di intrinseca eticità. L’intervento sulle cause è infatti il più radicale e sicuro. Qualsiasi investimento di risorse, che abbia come obiettivo la rimozione di fattori di rischio di accertata nocività, agisce direttamente sulla causa prima delle patologie che ne conseguono, con effetti che investono positivamente la popolazione.
Occorre tuttavia rilevare che, sebbene lo scopo degli interventi di prevenzione sia quello di raggiungere tutti, tale scopo non sempre è raggiunto. Le iniziative di promozione della salute che mirano a correggere stili di vita dannosi e comportamenti a rischio ottengono risultati migliori in alcuni settori della collettività, resi più ricettivi da condizioni che possono essere ricondotte a fattori quali il reddito e l’istruzione.
Maggiore appare invece l’efficacia delle misure di rimozione dall’ambiente degli agenti inquinanti che, se ben congegnate, producono un accrescimento della salubrità ambientale di cui tutti possono giovarsi, senza notevoli distinzioni.
Possono essere considerati indirettamente utili alla prevenzione (si parla infatti di risorse indirette) gli interventi che, pur attivati in altri settori, consentono di rendere più forti gli individui e le comunità di fronte alle malattie. Se infatti gli anticorpi biologici sono anche il frutto di una migliore nutrizione, gli "anticorpi culturali e comportamentali" possono formarsi in terreni extra-sanitari, per esempio attraverso una crescita economica equilibrata, politiche sociali adeguate, interventi attuati nell’ambito dell’istruzione e della cultura, e possono da qui influire indirettamente sullo stato di salute della popolazione. La stretta correlazione fra grado di istruzione della madre e mortalità infantile, dimostrata in tutti i paesi, ne è una prova.
E tuttavia non possono essere ignorati, accanto a quelli relativi all’istruzione, i fattori legati al reddito che hanno dimostrato di possedere un peso significativo nel condizionare l’efficacia delle politiche di prevenzione basate sull’informazione e sulla correzione dei comportamenti.
Tra i contenuti etici della prevenzione, quindi, il primo, costituito dalla sua tendenziale universalità, è ben presente nelle motivazioni, cioè nel tendere a sanare l’ineguaglianza tra chi si ammala e chi no, ma non sempre risulta poi tra i risultati conseguiti.
Il secondo contenuto etico è rappresentato da quella che può essere definita la virtù anticipatrice che la prevenzione è in grado di praticare. L’impedimento esercitato nei confronti del verificarsi di un danno futuro, quale è la malattia, ha un aspetto etico rilevante in quanto elimina sofferenze e garantisce al soggetto la possibilità, attraverso la piena fruizione delle facoltà psicofisiche, di attendere al proprio progetto di vita e di essere pienamente un agente morale.
Il terzo risvolto etico è dato dal fatto che la prevenzione può essere capace di attenuare conflitti. Si tratta di conflitti tipici dell’ambito allocativo. La ridotta disponibilità di risorse non illimitate (o francamente scarse, come può accadere riguardo ai trapianti d’organo), non può che generare conflitti tra chi può essere destinatario della prestazione medica e chi sarà escluso. Il conflitto che è spesso descritto tra uso di risorse per chi è già ammalato e per chi potrebbe diventarlo, se non ricorre a interventi di prevenzione, può valere solo per le scelte allocative che vedono contrapposti gli investimenti destinati alla terapia e quelli che riguardano la diagnosi precoce, mentre dal dilemma non viene colpita, se non limitatamente, la prevenzione eziologica, che fa ampio ricorso alle risorse indirette. La prevenzione che agisce sulle cause, come per esempio la dotazione di acqua potabile e la costruzione di sistemi fognari nella lotta contro le malattie gastroenteriche, porta quasi sempre benefici comuni alle popolazioni interessate.
L’esercizio della prevenzione può inoltre contribuire a ridurre il novero delle richieste, limitando di conseguenza le scelte, in particolare quelle tragiche. Un esempio appare particolarmente significativo: quello della prevenzione degli infortuni, sia nel lavoro che negli incidenti stradali. Ovunque essa sia stata efficacemente realizzata, i risultati ottenuti si sono tradotti in una concreta riduzione dei danni e dei potenziali conflitti sulla destinazione di risorse terapeutiche. Con ciò non si intende dire che la prevenzione rappresenti un intervento sempre conveniente dal punto di vista economico, o che non sorgano problemi del rapporto tra rischi e benefici, o di scelta tra la prevenzione dell’una o dell’altra malattia, gruppo sociale, modalità d’intervento.
Ma se i costi diretti e indiretti associati alla prevenzione possono a volte risultare superiori a quelli che dovrebbero essere affrontati in assenza di tali interventi, il problema si presenta sotto una luce diversa se viene valutato in termini non solo economici, ma considerando anche sul piano umano i costi (sofferenze) e i benefici (benessere). In quest’ottica la convenienza della realizzazione delle iniziative di prevenzione appare più evidente.
Un ulteriore aspetto caratterizza la prevenzione dal punto di vista etico, e può essere ricondotto alla valenza che la prevenzione ambientale è in grado di svolgere anche a vantaggio delle generazioni future. Vi è quindi un connotato di giustizia tra generazioni, che tiene conto anche dei tempi lunghi richiesti dalla prevenzione ambientale per il pieno conseguimento dei suoi migliori risultati.
Vi è infine un aspetto importante che investe il tema dell’equità in sanità e che può riconoscere una possibile soluzione in un ambito cui non è improprio attribuire la natura di un intervento di prevenzione. Si tratta dell’omissione di responsabilità di fronte alle disuguaglianze nella salute e nella sanità. È auspicabile, a questo riguardo, un maggiore coinvolgimento del sistema sanitario e dei medici in prima persona, in un ruolo di conoscenza, segnalazione e impulso (advocacy) che consenta di promuovere con maggiore efficacia la difesa dei diritti di chi è vittima di ingiustizie nella distribuzione di effetti sfavorevoli sulla salute dovuti a trasformazioni ambientali o a condizioni lavorative. Una parte delle responsabilità comprese in questo ruolo potrebbe essere formalizzata sotto forma di prescrizioni, ad esempio sottoponendo gli interventi e le decisioni pubbliche al vaglio di una procedura di Valutazione dell’impatto sulla salute (Health Impact Assessment) che includa anche il livello ragionevolmente raggiungibile di equità nella salute. Una simile iniziativa appare oggi ancor più realizzabile, in considerazione dell’attuale fase istituzionale che vede in Italia gli statuti regionali in fase di nuova elaborazione. 6. Diritto a quali cure?
Per quello che riguarda le questioni di equità sanitaria è evidente che solo ai fini di questo documento può valere un tentativo di esaminarle senza allargare l’esame alla questione più generale in cui esse rientrano, che è quella della società giusta. In alcuni casi però non si può evitare di ampliare l’esame, in relazione ai criteri più generali di giustizia e alle forme delle istituzioni politiche esistenti nella società in generale. Questa strada sarà solo talvolta suggerita più che percorsa in questo documento, anche per cercare di indicare quei territori di confine tra politica ed etica in cui le scelte su quanto del bilancio pubblico attribuire alla salute e su come farlo sono dipendenti da opzioni più generali, rimesse spesso ai governi e ai parlamenti, ma sottoponibili a valutazione nella discussione pubblica.
Per le questioni di giustizia distributiva nell’assistenza sanitaria si tratta di indagare intorno all’idea di quali sono le cure che una società, una volta che le ha riconosciute come necessarie, si impegna a rendere disponibili. Tale ricerca viene percorsa spesso dagli studiosi di giustizia sanitaria facendola ruotare intorno alla valutazione della natura, dei limiti e dei modi di fare valere un "diritto a un minimo garantito di cure", ovvero, come afferma il piano sanitario nazionale 1998-2000, alle "cure necessarie". Si tratta di nozioni largamente adottare nella riflessione su tali questioni (si vedano ad esempio i volumi di N. Daniels (1985 e 1996) e il volume di T. Beauchamp e J.F. Childress (1999).
Connettere questo principio con quello dell’individuazione delle cure che possono essere rese disponibili a livello sociale (tenendo conto di quanto già detto a proposito della salute possibile) permette di rendere meno astratto l’appello a questo diritto. Si tratta dunque di quelle cure a cui ciascun individuo ha diritto in quanto necessarie per rendergli raggiungibile il suo benessere possibile o, con un altro linguaggio, per porlo in una condizione di salute atta ad esprimere le sue capacità. Il rinvio a questa nozione come filtro di discussione permette anche di affrontare tutte le questioni legate al riconoscimento o meno delle differenti tecniche e innovazioni, che spesso sono al centro della riflessione bioetica. Inoltre, come vedremo, impostare la rivisitazione delle principali questioni di giustizia sanitaria da questa ottica di una riflessione sulla riconoscibilità o meno di un diritto mette in primo piano l’esigenza di una esplicita trattazione della concezione (o delle diverse concezioni) con cui si determina la soluzione delle questioni morali aperte. Muoverci dunque con una piattaforma che unisce l’attenzione alla dimensione delle "cure necessarie da rendere disponibili" con la discussione su un "diritto ad un minimo di cure" permette di tenere insieme le due esigenze – quella oggettiva e pubblica e quella soggettiva e individuale – che debbono essere raccordate per rendere adeguata la trattazione delle questioni di giustizia sanitaria in termini di equità. Non perdere di vista questi due indici permette anche di affrontare esplicitamente la questione della natura pubblica del diritto alle cure e dei modi in cui tale natura può essere garantita.
In prima istanza va subito stabilito che nell’ambito sanitario ci troviamo di fronte a richieste e pretese che debbono essere riconosciute come di valenza pubblica, nel senso che in questa direzione si ritiene esistano obblighi politici. Muovere con questa ottica è preferibile a un’impostazione che proceda cercando soltanto di fare valere un diritto genericamente inteso alla salute. A parte quanto abbiamo già detto sulla complessità della nozione di salute, va inoltre aggiunto che un tale diritto sarebbe difficilmente esigibile, dato che l’essere o non essere in salute è spesso dovuto a cause al di fuori dell’influenza di scelte esplicite da parte dell’individuo coinvolto o degli altri. Può invece rientrare tra i doveri di istituzioni pubbliche garantire che la cittadinanza disponga – nei modi ritenuti idonei ed equi – di quanto è necessario per curarsi e comunque per conservare una condizione dignitosa di qualità di vita che consenta di sviluppare le proprie capacità.
Va anche subito precisato che la nostra impostazione non intende pregiudicare la questione se le cure necessarie o il diritto ad un minimo di cure siano da garantire (nel senso sia di "più efficacemente" che di "più equamente soddisfatto") attraverso scelte di spesa lungo la linea della prevenzione di condizioni che richiedono le cure oppure lungo la linea della fornitura di terapie. Il quadro che si prospetterà investirà dunque in modo più specifico anche alcune riflessioni sui criteri più equi per la giustizia sanitaria, anche di fronte all’alternativa, che è schematica, tra prevenzione e terapia, alla quale ci siamo già riferiti in precedenza.
Può invece essere affermata la preferibilità del concetto di "livelli di assistenza essenziali e uniformi" rispetto a "livelli di assistenza minimi". La prima formulazione sottende infatti criteri di selezione delle prestazioni basati su valutazioni (efficacia, costo/beneficio, pertinenza) che corrispondono a motivazioni mediche, economiche, pratiche e morali, le quali debbono essere argomentate e assunte in modo trasparente, evitando interferenze di interessi economici e professionali, secondo lo spirito che ha ispirato, al riguardo, la legge Bindi (n.229). In tal modo appare più agevole garantire agli individui la possibilità di ricevere non solo procedure, ma sostanza; non solo accesso generico, ma qualità, appropriatezza, efficacia. In particolare, l’adottare criteri che favoriscano una prima selezione delle prestazioni da erogare, che sia basata sulla pertinenza sanitaria, sull’efficacia e sull’appropriatezza dei trattamenti, limita la vulnerabilità verso cure inefficaci, che è maggiore per i ceti meno istruiti e per quelli a basso reddito. 7. L’assistenza sanitaria tra stato e mercato
Il tema dell’allocazione delle risorse in campo sanitario non è altro che un aspetto di quello, più generale, della corretta utilizzazione dei mezzi necessari per garantire la migliore qualità di vita all’interno della comunità civile. Il tema assume una particolare delicatezza perché sono in gioco la prevenzione e la cura delle malattie. Una ragione è che il problema della salute ha a che fare con la costituzione fisica e psicologica del soggetto umano. Riguarda, cioè, oltre che quel che egli può fare o avere, la sua stessa integrità personale. Si tratta a volte "di vita o di morte". La seconda ragione è che pochi problemi sono universali come quello della salute. Anche chi ne ha una ottima è esposto ad andare incontro a difficoltà, e sa che queste, con l’avanzare dell’età, saranno inevitabili.
Perciò gli orientamenti di un paese in materia sanitaria sono destinati a essere sempre di più uno dei punti nevralgici dell’amministrazione della cosa pubblica. Ciò è tanto più vero in quanto le risorse a disposizione non sono illimitate e la loro "scarsità" è almeno in parte, un effetto degli sprechi a cui spesso, soprattutto in Italia, li espone una gestione inadeguata. A questi si aggiungono, talora, malversazioni e abusi, che appesantiscono il servizio sanitario. Infine – e questo è un problema che oltrepassa di molto i confini di una singola nazione – vi sono le conseguenze di una serie di sperequazioni sociali ed economiche che, sia a livello nazionale che a quello internazionale, mettono un certo numero di persone in condizione di fruire di un’assistenza medica che va ben oltre lo stretto necessario e impedisce ad altre – in certi casi ad intere popolazioni – di avere quella strettamente indispensabile.
Si collega a queste sperequazioni il cosiddetto "razionamento inverso", quel fenomeno, cioè, per cui per esempio, in funzione degli interessi economici delle grandi case farmaceutiche, sono prodotti e offerti in minor misura quei farmaci che sarebbero più necessari, ma da cui ci si aspettano profitti minori di altri che lo sono assai meno o non lo sono affatto. E altri esempi si potrebbero fare per quanto riguarda l’impiego di personale sanitario o l’offerta di servizi, più abbondanti proprio là dove ce n’è meno bisogno. Perciò è difficile valutare la scarsità o meno delle risorse. Con l'ovvia premessa che esse non sono certamente illimitate, e che perciò è necessario stabilire scale di priorità nella loro allocazione, la discussione si sposta dalla sfera dei meccanismi inesorabili a quella delle responsabilità umane, nei cui confronti è possibile la critica e la correzione. In altri termini, il dibattito sull’allocazione delle risorse non può dare per scontato, come se fosse inevitabile e moralmente neutro, il punto di partenza di una penuria di mezzi, che costringe a scelte dolorose, ma deve rimettere in discussione già questo dato iniziale e ipotizzare una sua radicale modifica. Questo è il primo passo verso un’effettiva equità, nel campo sanitario come in tutti gli altri.
Una soluzione apparentemente esente da presupposti ideologici potrebbe essere quella di affidare la distribuzione delle risorse alla logica del mercato: ognuno acquisti, come in altri campi, ciò che è in grado di pagare; da parte loro, le strutture sanitarie offrano i loro servizi a chi, secondo le leggi più ovvie dell’economia, può permetterseli e, pagandone il prezzo, ne può consentire il mantenimento.
Pur riconoscendo l’importanza della dimensione economica dei problemi relativi all’allocazione delle risorse, è facile osservare come una simile proposta si ispiri a una logica che, ben lungi dal tentativo di recuperare un’uguaglianza sostanziale di trattamento, sancisce come inevitabile e in fondo positivo il mantenimento di privilegi sociali ed economici. Si potrà obiettare che il mercato regola la vita della nostra società in tutti i campi. Solo che la salute non è un bene qualsiasi. Essa, per lo stretto rapporto che ha con ciò che identifica, merita un trattamento più vicino al regime delle persone che a quello delle cose. In ogni caso, non è esatto che il criterio del mercato sia "neutro": esso implica delle valutazioni di fondo che vanno quanto meno discusse.
La riflessione sull’equità nella distribuzione delle risorse per la salute deve perciò affrontare in primo luogo la questione se tali risorse debbano, e in quale misura, venire amministrate da qualche istituzione pubblica con fondi ottenuti attraverso il sistema generale di tassazione o di contribuzione, o viceversa si debba considerare preferibile un sistema in cui il reperimento di queste risorse è del tutto dipendente da scelte private, liberando il campo dall’intervento pubblico o limitando questo soltanto all’assistenza ai poveri.
Non è invece una questione specifica per la teoria etica quella delle forme istituzionali mediante le quali l’eventuale intervento pubblico dovrà essere realizzato: ad esempio se attraverso un sistema centralizzato o se attraverso un sistema di ampio decentramento. Comunque, la preferenza etica per forme di decentramento vale nella discussione etica sull’assetto istituzionale. In questa sede esistono argomentazioni a favore del decentramento per quanto riguarda le decisioni sanitarie, sia nel senso della preferibilità di forme di autogoverno (per ragioni di autonomia e di responsabilità), sia in termini di efficienza. Dato che l’ordinamento italiano già prevede il rinvio alle Regioni di ampi poteri relativi alla sanità, è positiva la tendenza all’autonomia e al decentramento anche nel senso di un suo rafforzamento, ferma restando l’esigenza di garantire livelli equiparabili di assistenza su tutto il territorio nazionale e la "portabilità dei diritti" al di fuori del territorio di residenza, in modo da evitare che si manifestino nuove barriere e nuove forme di disuguaglianza.
Il problema etico di fondo è comunque quello se affidare integralmente al meccanismo della domanda e dell’offerta il criterio di distribuzione delle cure e dell’assistenza medica (in cui quindi l’unica forma di garanzia individuale contro l’incertezza è quella di una qualche forma di sistema assicurativo privato), o se invece considerare eticamente necessario un intervento in termini di spesa pubblica per l’assistenza medica, al fine di correggere iniquità distributive del sistema di mercato.
Non c’è in realtà quasi nessun teorico che non ammetta l’auspicabilità di qualche forma di coordinazione all’interno di una comunità per rendere disponibili risorse per l’assistenza sanitaria. Sembra infatti del tutto controintuitivo un sistema di giustizia sanitaria che non preveda alcun sostegno pubblico a chi, per esempio, è affetto dalla nascita da gravi malattie o malformazioni. In effetti proprio l’esistenza di persone con gravi malattie o handicap, la cui sopravvivenza richiede un surplus di assistenza sanitaria, rappresenta la maggiore difficoltà pratica per le opzioni integralmente liberiste.
Ma anche i presupposti teorici di tali opzioni appaiono fortemente discutibili. Partendo dalla giusta esigenza di tener conto del forte pluralismo culturale e morale che oggi caratterizza la nostra società, esse finiscono per negare gli elementi di convergenza che sono comunque presenti nelle diverse prospettive etiche, e per ridurre la comunità civile al risultato di una contrattazione mossa solo da interessi egoistici. Non è realistico ritenere i cittadini degli "stranieri morali", incapaci di condividere alcuna regola di carattere etico e legati solo da accordi temporanei. Allo stesso modo non lo è negare il dato di fatto di una tendenza, pur sempre diffusa nella società, a forme di benevolenza e di reciprocità che rendono ampiamente condivise alcune istanze relative alla tutela dei più deboli (per esempio i bambini).
La nostra Costituzione, del resto, prevede all’art. 32 l’intervento statale per garantire un diritto alle cure sanitarie degli individui, specialmente se indigenti. A questo principio si ispira tutta l’attività legislativa della Repubblica italiana. Anche sul piano internazionale l’Organizzazione Mondiale della Sanità opera per superare una concezione privatistica dell’uso delle risorse per la salute.
Tra le teorie espresse dai sostenitori di un ruolo centrale del libero mercato nella gestione dei problemi riguardanti la salute, la posizione più radicale è quella di T. Engelhardt (1999, pp. 208 – 209) che nega che rientri tra i compiti di uno Stato geograficamente inteso reperire fondi per l’assistenza sanitaria, riprendendo l’idea di Nozick (Nozick, 2000) di uno "stato minimo". Le sue tesi, da altri espresse con minore coerenza, richiedono un adeguato commento sia perché fanno parte di un orientamento che ha profondamente influenzato e dominato le politiche sanitarie degli ultimi vent’anni, sia perché attraverso il loro esame possono emergere con maggiore chiarezza gli orientamenti di questo documento.
Scrive Engelhardt: "Dopo il fallimento del progetto illuministico e in presenza di una molteplicità di visioni morali, l’autorità pubblica delle grandi istituzioni sociali dipende dalla plausibilità della loro legittimità di agire con il permesso dei governati. La possibilità di difendere gli individui dall’uso della forza non consentita e di punire i responsabili resta, a dispetto del fallimento del progetto illuministico e della varietà delle posizioni morali. Lo Stato può altresì fare rispettare i contratti registrati e creare diritti sociali ricusabili. Resteranno nondimeno aree grigie, confini sfumati e rompicapi senza soluzione. Potendo sarà preferibile risolvere tali questioni attraverso i meccanismi di mercato in considerazione del fatto che essi traggono la propria autorità dal consenso dei suoi attori… Quando occorre prendere una decisione e l’ordine spontaneo del mercato non è in grado di scegliere autorevolmente tra le alternative, non resta altro da fare che sollecitare l’appoggio del maggior numero possibile di persone all’idea di scegliere tra le alternative buttando in aria la monetina". Anche se lo stesso autore riconosce un valore morale a forme di intervento e di aiuto in cui si cerca di rendere disponibili risorse per la cura di coloro che non hanno disponibilità economica, i presupposti teorici enunciati non consentono di fare assumere questo compito da parte dello Stato. Infatti la pluralità di orientamenti renderebbe i cittadini degli stranieri morali, che non possono perciò condividere nessuna regola etica o dovere morale, e perciò a favore dell’assistenza medica pubblica non si può assumere un valore condiviso universalmente, in presenza di cittadini con diverse concezioni etiche (diversamente da ciò che accade per la salvaguardia della sicurezza e dei contratti). Forme di aiuto sanitario pubblico potranno essere giustificate solo all’interno di una comunità che condivide lo stesso valore della beneficenza: "Dati i confini dell’autorità morale laica generale, particolari comunità prive di una collocazione geografica precisa possono porre in essere proprie strutture sociali e riconoscere speciali diritti civili e sociali, compresi i diritti all’assistenza sanitaria".
E’ ovvio e da quasi tutti riconosciuto il fatto che la soluzione dei nuovi problemi posti dalle questioni di cui si occupa la bioetica vanno affrontati tenendo conto di un quadro di pluralismo morale. Non sembra invece accettabile una concezione che rifiuta la legittimità morale di un intervento istituzionale nella sanità con finanziamenti appositi, ottenuti attraverso sistemi di tassazione pubblica di tutti i cittadini.
Nella discussione si può fare riferimento, oltre che agli orientamenti etici e fondazionali, a ciò che è riconosciuto come giusto dal diritto positivo. L’articolo 32 della Costituzione stabilisce che la tutela della salute è diritto fondamentale di ogni individuo ma è al tempo stesso interesse comune della collettività. In tal senso, in quanto diritto inviolabile dell'uomo, esso "richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà" (articolo 2 Cost.), e quindi l'erogazione di appropriate prestazioni sanitarie a sostegno delle situazioni di svantaggio. Questa posizione è confermata dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, recentemente approvata, che mette in primo piano il diritto di ogni individuo "di accedere alla prevenzione sanitaria e di ottenere cure mediche", con la garanzia di "un livello elevato di protezione della salute umana" (articolo 35), e in particolare dei soggetti deboli (articolo 3). Per dare attuazione al carattere universalistico dell'assistenza sanitaria, il Testo unico sulla disciplina dell'immigrazione e sulla condizione dello straniero ha stabilito il diritto-obbligo di iscrizione al Servizio sanitario nazionale per gli stranieri non appartenenti all'Unione Europea e con regolare permesso di soggiorno (d.lgs. n. 286 del 25/7/1998, articolo 34 commi 1 e 2). Tuttavia, come indicano alcune indagini condotte in specifiche realtà considerate "avanzate", attualmente solo una modesta percentuale di loro si iscrive realmente (appena il 66% a Bologna e il 72% a Milano). Ancora maggiori sono le difficoltà che impediscono di esercitare il diritto all'assistenza sanitaria agli stranieri non in regola con le norme d'ingresso e di soggiorno (articolo 35 commi 3, 4, 5 e 6 del citato Testo unico). È al superamento di tale stato di cose che è diretto l'articolo 3 comma 2 della Costituzione, quando impone la rimozione degli "ostacoli di ordine economico e sociale", quelli che "impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori" alle istituzioni, ai servizi e alla vita sociale. Negli stessi Stati Uniti è in corso da lungo tempo, con alterne vicende, una vivace campagna legislativa per l’ampliamento dell’intervento pubblico in sanità, nel tentativo di correggere le iniquità e le gravi conseguenze per gli esclusi da parte di un sistema legato quasi soltanto a forme di assicurazione privata.
Ma riferendosi al contributo dell’etica alle questioni della giustizia sanitaria sembra particolarmente importante non limitarsi al solo piano per così dire giuspositivistico, indicando oltre a ciò argomentazioni specificamente morali che consentono di superare un quadro eccessivamente ristretto. Il fatto di individuare e rendere esplicite le basi etiche che giustificano un ampio intervento pubblico nelle questioni di giustizia sanitaria è parte di molte delle alternative di cui si occupa la bioetica, in cui ci si trova di fronte a questioni non risolte da precedenti elaborazioni.
Sul piano critico non è dimostrabile né accettabile una concezione della condotta umana come esclusivamente mossa da interesse egoistico. Perfino le ricerche orientate dalla sociobiologia sono giunte a riconoscere che un’adeguata concezione evolutiva della specie umana deve rendere conto di una naturale tendenza degli esseri umani a istituire rapporti non aggressivi in termini di reciprocità (Singer, 1999). Le ricerche empiriche di Amartya Sen hanno largamente documentato le inadeguatezze di una concezione della condotta umana ridotta alla sola motivazione dello scambio economico: nessun bene pubblico esistente nella nostra forma di vita può essere derivato da questa concezione della condotta (Sen, 1986). Rifiutare o giustificare la tendenza a forme di benevolenza sia pure limitate prescinde da un fatto fondamentale: che in realtà queste forme di benevolenza sono già date e consolidate. Considerazioni della vita sociale e delle nostre istituzioni pubbliche che negano questo fatto non sono in condizione di fornire una spiegazione plausibile delle relazioni interpersonali, e tanto meno di renderne conto soddisfacendo alcuni requisiti etici minimi. La quasi totalità delle concezioni etiche riconoscono infatti un qualche diritto dei cittadini di uno Stato a un minimo dignitoso di cure o alle cure necessarie, assicurato da interventi pubblici.
Anche la convivenza tra cittadini non si può derivare soltanto da esplicite pattuizioni o contrattazioni. Muovendo da questa concezione delle istituzioni sociali non si riesce in alcun modo a spiegare la loro stabilità e persistenza: l’unico cemento della vita sociale sarebbe costituito da contrattazioni effettive tra cittadini, molto precarie in quanto limitate nel tempo e nello spazio. Se gli unici obblighi di cittadinanza fossero derivabili da queste esplicite promesse e pattuizioni, le nostre società non garantirebbero alcuna stabilità, e questo ovviamente contrasta col fatto che società molto ampie e popolose, sia pure con tensioni e problemi, sopravvivono da secoli.
E’ discutibile inoltre l’uso che viene fatto della nozione di stranieri morali. E’ vero ed è positivo che nelle nostre culture ci siano persone che hanno differenti concezioni del bene, del dovere e della virtù, ma questo non esclude che tutte le concezioni morali, per quanto lontane e straniere tra di loro, concordino nel ritenere che vi sia un prioritario diritto alla sopravvivenza delle persone che fanno parte di una certa comunità, e al limite del genere umano. Solo in quanto avremo garantito, e non solo con le leggi e con misure di sicurezza, ma con le cure, tale diritto potremo procedere sulla strada di una presa d’atto delle diversità legate ad altri aspetti delle nostre concezioni morali. Esistono certamente delle differenze tra le diverse concezioni etiche che riconoscono la liceità morale di un intervento pubblico nelle questioni sanitarie, come fondazione più o meno forte di un riconoscimento del dovere pubblico di assistenza. Ma sia che si muova da una concezione che considera ciò che è bene come già stabilito dalle scelte individuali, sia che si veda il bene come un loro punto di convergenza, l’assistenza sanitaria è configurabile come un bene pubblico sulla distribuzione del quale possiamo fare valere comuni esigenze di giustizia.
Non è improprio essersi soffermati a lungo sull’analisi delle teorie filosofiche e degli atti compiuti attraverso le decisioni pubbliche in campo economico, politico e sanitario che tendono a escludere fra le attività di pertinenza dello Stato il compito di rendere disponibili risorse per la cura di coloro che non hanno redditi sufficienti. È infatti nella stessa radice di queste concezioni l’orientamento del "conservatorismo compassionevole" che trova oggi un tentativo di progressiva realizzazione negli Stati Uniti, e che annulla il diritto alle cure limitando l’impegno pubblico alla funzione caritativa verso i poveri.
Si deve comunque evitare sia un’impostazione che affidi esclusivamente al libero mercato le decisioni relative alla distribuzione sociale delle cure, sia una concezione della giustizia sanitaria che veda ogni soluzione dentro lo Stato e da parte dello Stato. Sembra, tuttavia, più conforme allo spirito della nostra Costituzione il modello che più sicuramente garantisce un’assistenza di tipo universale, con ripartizione degli oneri e con particolare riferimento alle fasce più deboli della popolazione, che si fonda sulla gestione da parte dello Stato o di altri enti pubblici, e che reperisce i fondi necessari all’assistenza mediante i normali meccanismi fiscali. Il che implica anche l’utilizzazione di strutture private nell’erogazione dei servizi necessari, ed esige un più generale ricorso a criteri gestionali di tipo economico, per evitare gli sprechi, per stabilire le priorità e per richiamare ciascun cittadino a calcolare responsabilmente i costi delle proprie scelte in materia di salute. 8. Il quadro mondiale e la macro-distribuzione delle risorse
Come abbiamo accennato in precedenza, la distribuzione delle risorse si pone a due livelli diversi e complementari: da un lato, sono in questione l’organizzazione dell’assistenza pubblica e la determinazione delle regole generali che devono ispirarne la gestione da parte degli organi politici e amministrativi competenti (macro-allocazione); dall’altro, si tratta di individuare dei criteri per le scelte a cui sono chiamati, quotidianamente, i singoli operatori sanitari, che si trovano a decidere sull’utilizzazione dei mezzi a loro disposizione, a fronte di una richiesta spesso eccedente (micro-allocazione).
Nella macro-allocazione gli interrogativi riguardano innanzitutto la quantità di risorse che gli stati dedicano alla salute, in rapporto ad altri capitoli di bilancio, sia come finanziamento diretto, sia come intervento atto a influire per altre vie sulle condizioni di vita e sulla prevenzione delle malattie, sia come fondi destinati alla ricerca scientifica in questi campi. Se la salute e la vita umana vengono considerate come valori prioritari, tali impegni devono essere accresciuti. Gli interrogativi riguardano, oltre alla percentuale di Prodotto interno lordo (PIL) che un paese deve destinare alla spesa sanitaria e la sua distribuzione fra ricerca, prevenzione e cura; riguarda le modalità di reperimento delle risorse, mediante assicurazioni private o contributi obbligatori o imposte riscosse e amministrate dallo Stato; riguarda, in quest’ultimo caso, i criteri con cui organizzare il sistema sanitario pubblico. Nella micro-allocazione ci si chiede con quali criteri scegliere, tra i possibili fruitori delle risorse a disposizione, coloro a cui di fatto – ove si ponga l’alternativa – esse vanno destinate: bisogna privilegiare per esempio chi ha migliori possibilità di guarigione oppure chi, per la maggiore gravità delle sue condizioni, corre maggior pericolo di morte? Quale percentuale di cure deve essere destinata agli anziani e ai malati cronici? A parità di condizioni, bisogna preferire chi, per il suo ruolo sociale è più necessario agli altri o chi, in base a dei meriti passati, avrebbe diritto alla riconoscenza della società? Il presente documento non pretende di risolvere questi problemi, ma solo di dare delle indicazioni che possono costituire un primo passo per affrontarli in modo più corretto.
Una necessaria premessa alle riflessioni su questo tema riguarda il quadro mondiale. Nel caso della distinzione tra questioni macro-distributive e micro-distributive vi è un’assunzione di base contestabile da un punto di vista etico, secondo cui i problemi di giustizia sanitaria sarebbero solo una questione di bilancio interno di ogni paese. Tenuto conto dell’iniqua distribuzione di ricchezza che esiste tra i sei miliardi di cittadini del mondo e delle differenze moralmente inaccettabili (profonde e continuamente crescenti) nella qualità della vita tra i più ricchi e gli oltre due miliardi di indigenti, non sembra possibile da un punto di vista etico assumere la prospettiva ristretta dei confini nazionali. E’ anche vero che questa esigenza etica è difficilmente trasformabile in vincoli politici precisi o in leggi, o addirittura in decisioni di bilancio, ma dato che gli sforzi di un Comitato Nazionale per la Bioetica non possono non andare anche verso l’identificazione di modi per formare l’opinione pubblica e influenzare le decisioni collettive, una delle richieste da avanzare è un impegno pubblico verso l’informazione intorno all’iniquità dell’attuale distribuzione mondiale della salute e dell’assistenza sanitaria. Si richiama pertanto la necessità di una politica, a livello nazionale e internazionale, volta a ridurre le disparità di condizioni economiche fra i vari paesi, e all’interno di ognuno fra i singoli abitanti. E’ dimostrata – oltre che intuitivamente presumibile – l’incidenza delle povertà e dell’ignoranza in materia di salute. L’istruzione, oltre al reddito, è un fattore importantissimo, per esempio per il rispetto di una serie di precauzioni igieniche, o per l’individuazione tempestiva dell’insorgere di patologie. Qui il tema dell’allocazione delle risorse sanitarie va a congiungersi con quello più generale della cultura e della giustizia sociale.
È indubbio, infatti, che nonostante il miglioramento registrato a livello mondiale negli ultimi cinquant’anni in tema di speranza di vita e di caduta dei tassi di mortalità, permangono tuttora accentuate differenze tra un Paese e l’altro e, all’interno di uno stesso Paese, tra differenti classi sociali e tra uomini e donne. Il problema appare ancora più grave se si considera che la produzione di ricchezze materiali, conoscenze intellettuali, cibo e tecnologia medica ha raggiunto livelli mai conosciuti in passato, ma l’utilizzazione di tutti questi beni resta concentrata in un’area ristretta del pianeta, corrispondente al mondo industrializzato e ai ceti ricchi dei paesi poveri.
Il 20% della popolazione, quella più ricca, possiede l’82,7% del reddito mondiale e il 20% della popolazione, quella più povera, solo l’1,4%. Le popolazioni dei paesi più ricchi e industrializzati hanno una speranza di vita che si avvicina agli 80 anni (Giappone: 82), mentre in molti Paesi dell’Africa sub-sahariana questo valore scende intorno ai 40 anni (Uganda: 40), con un netto aumento delle differenze rispetto a dieci anni or sono. Inoltre, le persone affette da HIV/AIDS dei paesi ricchi hanno a disposizione farmaci gratuiti o comunque accessibili contro l’infezione e la malattia, mentre questa possibilità è negata agli stessi malati dei paesi poveri. Vi è infine da rilevare che quasi 900 milioni di persone nel mondo non hanno accesso ai servizi sanitari essenziali.
È inoltre tipico dei paesi poveri il fenomeno del "doppio carico di malattia", rappresentato dalla coesistenza di cause tradizionali di malattia e morte, di natura infettiva (soprattutto malaria, infezione da HIV/AIDS e tubercolosi), e di cause nuove, di natura cronico-degenerativa (tumori, malattie cardiovascolari, diabete ecc.). Sono, poi, sempre i paesi poveri a pagare il maggiore tributo in termini di morti anche per le cause legate a specifici tipi di comportamento (guerre, violenze, incidenti stradali e sul lavoro). Delle 53 milioni di morti che avvengono ogni anno, il 20% sono di bambini con meno di 5 anni di età, e riconoscono cause che potrebbero essere prevenute da un’adeguata prevenzione eziologica e dalla presenza di infrastrutture sanitarie.
Globalmente, il numero dei poveri è in crescita: rispetto a venti anni fa. Un quinto circa della popolazione mondiale vive con meno di un dollaro USA al giorno. Il debito dei paesi poveri, inoltre, aggrava il ciclo della povertà: molti di essi spendono più per ripagare gli interessi sui propri debiti che per sanità e istruzione.
Alcune considerazioni suggeriscono possibili interventi atti a contrastare tale tendenza. In primo luogo, si deve premettere che non è necessario un livello molto alto di reddito medio nazionale per raggiungere una speranza di vita accettabile. Il Costarica, per esempio, ha un’attesa di vita vicina a quella italiana, 77 anni, pur disponendo di un PIL pro-capite pari a un quarto del nostro. E’ infatti di fondamentale importanza il modo di utilizzare le risorse: istruzione, tipo di abitazione, acqua potabile, smaltimento dei rifiuti, disponibilità di cibo e urbanizzazione, livello di giustizia e di solidarietà sono fattori determinanti della salute che interagiscono con la povertà.
È quindi necessario orientare una parte maggiore delle risorse verso questi paesi, in funzione delle spese sociali e del potenziamento dell’assistenza sanitaria. In tal senso gli interventi promossi dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale sono stati eccessivamente centrati su aggiustamenti strutturali che in alcuni casi hanno avuto un impatto negativo nei programmi sociali e sanitari. Occorre, al tempo stesso, combattere con decisione le disuguaglianze socio-economiche che vanificano i risultati positivi misurabili con il semplice ricorso al valore del PIL. È infatti dimostrato che tra i paesi industrializzati non sempre sono le società più ricche in termini aggregati a godere dei migliori livelli di salute, ma piuttosto quelle al cui interno minori sono le disuguaglianze tra ricchi e poveri.
Va ricordato anche il ruolo che gli accordi commerciali internazionali che si svolgono sotto l’egida dell’Organizzazione Mondiale del Commercio rivestono nella tendenza a conferire sempre più alla salute una natura impropria di merce e di bene di consumo. In particolare l’accordo TRIPS (Trade Related Aspects of Intellectual Property Rights) propone di stabilire l’obbligo per tutti i paesi di introdurre una legislazione sul brevetto dei farmaci che comporti il diritto esclusivo delle industrie farmaceutiche di imporre i prezzi dei farmaci stessi. Quando, come nel caso dell’HIV/AIDS, tali prezzi sono insostenibili per la grandissima parte dei malati, il risultato si configura inevitabilmente come un’accentuazione della forbice delle inequità tra paesi ricchi e paesi poveri. Non diversamente il GATS (General Agreement on Trade in Services) mira a instaurare un sistema legislativo internazionale che favorisce l’espansione delle imprese private nel campo dei servizi, compresi quelli sanitari, con il forte rischio di trasformare il concetto stesso di servizio, tradizionalmente inteso come attività finalizzata a soddisfare i bisogni umani, in oggetto di commercio, volto alla ricerca del profitto.
Accanto a quella geografica e sociale esiste—in diversi paesi asiatici, ma non solo—una discriminazione sessuale. L’espressione missing women riassume drammaticamente la gravità dello squilibrio innaturale tra i sessi, depurato dai fattori di rischio genetici e ambientali. Quante sono le donne disperse mancanti all’appello? Lo squilibrio tra i generi a vantaggio dei maschi, documentato in Asia dai censimenti, è stato valutato con due diverse metodologie :l’una ha portato a concludere che vi sono 44 milioni di donne mancanti in Cina, 37 in India e, in totale, 100 nel mondo; l’altra, 29 milioni in Cina, 23 in India e 60 nel mondo. Questi dati, riferiti da Amartya Sen (1992), mostrano che le discriminazioni culturali e sociali riescono a capovolgere la superiorità biologica delle donne (dai primi giorni di vita in poi, infatti, la sopravvivenza biologica femminile è superiore, in condizioni normali, a quella maschile). Tra le cause che sono state individuate appaiono primari i valori tradizionali e gli interessi economici che inducono alla trascuratezza verso le bambine nell’assistenza sanitaria, alla loro minore ammissione negli ospedali, alla diversa nutrizione e alla più elevata mortalità infantile, spontanea o indotta. In Cina, ad esempio, una delle ragioni è la costrizione ad avere un solo figlio. A riprova che tale tendenza può essere invertita e che le missing women possono essere riscattate grazie a politiche pubbliche, Amartya Sen riferisce l’esempio dello stato del Kerala, in India, dove la situazione si è modificata in virtù dell’istruzione e dell’assistenza sanitaria per tutti e della valorizzazione dell’apporto delle donne all’economia e alla vita sociale.
Queste prospettive, e le preoccupazioni che suscitano, possono aiutare a rendere più criticabili le sacche di egoismo, personale o di gruppo, nella richiesta del bene sanitario, e contribuiscono a rendere più evanescente l’illusione che, nell’ambito della salute, le questioni distributive si risolvano lasciando i beni liberi di circolare.
Le questioni di macro-distribuzione hanno a che fare con le scelte che le istituzioni pubbliche realizzano nel campo dell’assistenza sanitaria. Come è evidente queste scelte politiche (o amministrative) sono sottoposte a una serie di vincoli, tra i quali l’accettazione o il rifiuto della discussione pubblica sui criteri di equità che le ispirano. Per individuare le principali aree in cui risistemare le questioni da affrontare possiamo seguire i suggerimenti di Norman Daniels (Daniels, 1985). Egli spiega che le istituzioni pubbliche che forniscono assistenza sanitaria hanno finalità e si occupano di pratiche che comportano decisioni distributive relativamente a questi differenti piani:
1. Che tipo di servizi sanitari esisteranno in una società
2. Chi ne usufruirà e per quale ragione
3. Chi li fornirà
4. Come verranno distribuiti gli oneri del loro finanziamento
5. Come verrà distribuito il potere e il controllo su questi servizi
Dal punto di vista della bioetica questi temi sono rilevanti sul piano macroallocativo e microallocativo. Se pensiamo infatti a tutte le questioni legate alla possibilità di intervenire sulla nascita, sulla morte e sulle forme di cura connesse con la genetica e con i trapianti, diventa centrale la domanda se le pratiche coinvolte (e ovviamente quali pratiche e fino a che punto) debbano essere fatte rientrare nei servizi sanitari di una società e fino a che punto debbano essere garantiti dalla spesa pubblica. Non diversamente decisiva, nell’ambito della bioetica, è la questione di chi verrà ammesso a disporre di un determinato servizio sanitario. Il punto 3 ha rilevanza per la definizione dei soggetti dell'assistenza sanitaria, e i punti 4 e 5 per i criteri di giustizia nel reperimento delle risorse monetarie necessarie e nella partecipazione dei cittadini al potere e al controllo delle attività sanitarie, nel quadro anche di confini giusti tra autonomia dei pazienti e responsabilità dei sanitari. 9. Le priorità nell’uso delle risorse
Nel contesto dei problemi di allocazione delle risorse la riflessione etica svolge, come abbiamo visto, un ruolo fondamentale nell’indirizzare orientamenti e metodologie entro i confini di criteri giusti e condivisi per la riduzione delle conseguenze dolorose che le scelte allocative possono comportare.
Proprio la ricerca di questi giusti confini richiede di vedere assegnato un valore crescente ai criteri della qualità e dell’efficacia delle prestazioni mediche. Tali criteri consentono infatti, attraverso la selezione delle prestazioni realmente efficaci, di rendere compatibili forme di selezione esplicita delle prestazioni con la realizzazione di sistemi di cure in cui permanga il principio dell’universalismo, secondo una necessaria revisione dell’ormai inapplicabile formula "tutto per tutti", nei termini di un più attuale "tutto per tutti coloro che ne hanno bisogno, ma solo ciò che è efficace".
In questo senso la medicina basata sulle prove (EBM, evidence based medicine), nata per finalità cliniche allo scopo di fornire ai medici e soprattutto ai pazienti le dovute garanzie sulla qualità delle cure, appare oggi come uno strumento utile anche dal punto di vista economico, per conseguire un significativo contenimento dei costi e una razionalizzazione della spesa.
Nell’alternativa, che diventa ineludibile anche per il Servizio sanitario italiano (universalità di accesso a prestazioni definite, oppure limitazione degli accessi), la EBM offre soluzioni compatibili con la prima possibilità, perché esclude soltanto prestazioni di non provata efficacia. Inoltre, l’apporto di riferimenti omogenei e scientificamente validati facilita la redazione di linee-guida di miglioramento della pratica clinica, necessarie per la definizione dei livelli di assistenza, rispetto ai quali è possibile concepire diritti omogenei per tutta la popolazione; base, questa, necessaria per una crescita dell’equità nel sistema di erogazione delle cure. L’interesse verso l’EBM non deve tuttavia indurre a trascurare i suoi limiti. Da un lato, occorre considerare l’ampia quantità di interventi e prestazioni sanitarie appartenenti a un’area grigia che attualmente sfugge alla possibilità di verifiche di evidence. Dall’altro, occorre evitare l’eccesso di interferenze sulle decisioni mediche, e la tendenza crescente a considerare la medicina una scienza esatta, rischi che un eccessivo entusiasmo verso l’EBM potrebbe alimentare.
Accanto a modalità basate sull’osservazione scientifica e sui dati epidemiologici, che consentono di sottoporre il ventaglio delle prestazioni offerte dal sistema pubblico, altre correnti di pensiero agiscono tentando di indirizzare il dibattito sulle priorità nella direzione della "libertà di cura". Essa è indiscutibile come espressione dell’autonomia personale del malato, ma va distinta dalla richiesta di lasciare a chi fruisce dei servizi pubblici la possibilità di scegliere cure anche costose e non validate da protocolli che ne attestino l’efficacia, facendo carico del costo di tale decisione individuale sulla collettività. Ciò non appare sostenibile, a meno di non rinunciare al principio dell’universalismo delle cure.
Pur riconoscendo che il principio di libertà possiede un valore preminente, che va salvaguardato, è necessario evitare che il rispetto di tale principio non comporti l’accantonamento di altri principi bioetici essenziali, tra i quali la distinzione fondamentale tra prassi individuale e prassi sociale. Così come esiste la distinzione tra diritto del singolo paziente, in quanto singolo, di scegliere metodi alternativi di trattamento, e il diritto-dovere del medico di non assecondare richieste terapeutiche che egli ritenga scientificamente infondate o dannose per il paziente, esistono limiti alla libertà di cura che si riferiscono alle necessità della prassi collettiva e che richiedono di evitare che la volontà del singolo soggetto assurga a criterio guida per un'azione sociale dotata di rilievo collettivo sul piano della sanità pubblica. Ciò implica l'individuazione di pratiche sociali compatibili non solo con i desideri e le aspirazioni dei singoli pazienti, ma anche con le esigenze pubbliche della tutela della salute collettiva, di un'equa ripartizione delle risorse sanitarie e del rispetto di protocolli adottati nella pratica medica, quale frutto di ponderati pareri.
L’individuazione delle priorità nell’uso delle risorse e le conseguenti scelte pongono quindi in primo piano le responsabilità di chi tali scelte opera, e vincola al rispetto di esigenze di trasparenza, equità ed efficacia attraverso un riferimento costante a valutazioni etiche. Tra queste, il ruolo preminente che conserva la necessità di mantenere intatta l’ispirazione universalistica del sistema di cure, che offre ampi margini di applicazione a metodi di valutazione scientifica dell’efficacia delle cure e che sconsiglia, nel contempo, il ricorso a impostazioni argomentative che tendano a delegittimare tali metodi. 10. Micro-allocazione delle risorse e qualità della vita
Va subito detto che non bisogna perdere di vista una considerazione di base: tutte le questioni relative alla micro-allocazione delle risorse e alla selezione che ne può conseguire nascono solo se si presuppone che vi è una limitazione del bene a cui desiderano accedere più pazienti. I problemi relativi alle politiche per incrementare la disponibilità di un certo bene sanitario, o sui modi in cui orientare l’universo potenziale di pazienti a rivolgersi ad altri beni o a cambiare pratiche di vita, si collocano a livello macro-distributivo. A livello micro-distributivo si ha spesso a che fare con situazioni legate a nuove pratiche della medicina e della biologia che sollecitano un continuo processo di espansione della domanda, che fa toccare con mano la scarsità delle risorse disponibili da offrire e secondo alcuni l’infinità di un allargamento eccessivo dei desideri di salute o benessere. Questa prospettiva può portare a domandarsi se non si possano risolvere i problemi di distribuzione delle risorse per la sanità incidendo soprattutto sulla domanda.
E’ necessario che la collettività – prima ancora che il singolo operatore sanitario – si assuma la responsabilità di selezionare cure e servizi sanitari ritenuti prioritari. Non farlo significherebbe mettere sullo stesso piano bisogni umani fondamentali, come per esempio quelli legati alla sopravvivenza fisica degli individui, e altri che invece si presentano, almeno nella coscienza diffusa, come assai meno impellenti o addirittura voluttuari. Bisogna però riconoscere che, in una società fortemente pluralista come la nostra, è difficile fare valere un criterio condiviso e rigoroso per distinguere le richieste legittime da quelle che non lo sono o che comunque vanno soddisfatte dopo le altre.
Le questioni di cui si occupa la bioetica hanno messo in crisi le abituali ricostruzioni del contesto nel quale si ponevano i problemi micro-allocativi. Vi è stato un allargamento delle risorse che, almeno prima facie, si debbono ritenere distribuibili: non solo spese, tempo del personale sanitario, attrezzature, farmaci, ma anche parti del corpo umano, organi artificiali, organi di altri esseri viventi ecc. Si tratta di una serie molteplice di beni e di risorse che sono sempre più disponibili in sanità. Tale presenza può forse spingere a ripensare la stessa netta separazione tra questioni di micro-ripartizione e questioni di macro-ripartizione.
Il problema più difficile, nel distribuire sia l’antico come il nuovo tipo di risorse, rimane tuttavia quello di trovare un criterio convincente in grado di orientare le scelte spesso dolorose, talora drammatiche, a cui gli operatori sanitari sono costretti per la scarsità di fatto delle risorse disponibili.
Una prima questione è: attribuirle solo ai cittadini italiani? Oppure anche agli immigrati sprovvisti di cittadinanza? E, tra questi, solo quelli provvisti di un regolare permesso di soggiorno o anche i clandestini? Il già citato art. 32 della Costituzione, parlando della salute come di un "diritto dell’individuo", sembra prescindere dal possesso della cittadinanza (notiamo che questo è il solo articolo nel quale, in tema di diritti, viene usata la parola individuo anziché cittadino), e avalla l’interpretazione che ne ha dato la legge sull’immigrazione, secondo la quale ogni essere umano, in qualsiasi modo presente sul territorio del nostro Stato, deve essere assistito, se bisognoso di cure. È da segnalare, a questo riguardo, la realtà ormai consolidata di alcuni gruppi di immigrati (per esempio cinesi) che, per libera scelta, come pure per la difficoltà di legalizzare la loro presenza sul territorio italiano e di fruire dei servizi sanitari, si organizzano in comunità del tutto autosufficienti dal punto di vista sanitario. Questi gruppi, che si pongono come "esterni" pur appartenendo alla popolazione che vive nelle nostre città, sfuggono così a ogni controllo in attività che dovrebbero invece svolgersi nella massima trasparenza e verificabilità di pratiche e di operatori. La facilitazione dell’accesso ai servizi sanitari per gli immigrati potrebbe contribuire a circoscrivere questo fenomeno, sottraendolo all’ambito della necessità e confinandolo solo a scelte culturali, che sono comprensibili e compatibili.
Un’altra questione è se sia corretto escludere dalle cure sostenute dalla collettività alcune categorie di persone (tossicodipendenti, fumatori affetti da malattie polmonari, alcolisti, infortunati o infetti da HIV "per colpa"), in base alla considerazione che esse sono più o meno responsabili del loro precario stato di salute. Una simile scelta rischierebbe di far pesare su drammi umani, di cui è sempre molto difficile valutare le responsabilità soggettive, un giudizio spietato, in netto contrasto con ogni criterio di solidarietà. A questo argomento se ne può aggiungere un altro, cioè l’impossibilità di attribuire al personale sanitario l’autorità di sanzionare da un punto di vista morale la condotta dei propri pazienti.
Numerosi tentativi sono stati fatti per selezionare cure e servizi sanitari ritenuti prioritari o comunque disponibili all’assistenza pubblica ricorrendo a qualche concezione della qualità della vita da garantire (Nussbaum e Sen, 1993). Questo modo di procedere ben si collega ai temi finora trattati, che pongono in primo piano il diritto a quelle cure che consentono di mantenere la qualità della vita a un livello dignitoso. Ma sui modelli da usare per dare corpo a questa nozione di qualità della vita dei soggetti coinvolti si hanno profonde divergenze.
La stessa idea di qualità di vita può essere vaga e bisognosa di definizione. Specialmente nel contesto medico sono stati fatti numerosi tentativi di rendere questa nozione rigorosa e precisa. Spesso questi tentativi hanno fatto valere una nozione ristretta di qualità della vita in collegamento con le condizioni che accompagnano abitualmente una certa malattia (Frisch, 2000). Ma in questi casi si è finito con l’usare una più specifica nozione di HRQOL (health related quality of life, Fayers e Machlin, 2000), che solo indirettamente può essere d’aiuto nelle questioni etiche. Il raffronto tra le diverse qualità della vita dei soggetti coinvolti richiede che si trovi un modo di determinare e confrontare fra loro i livelli di qualità della vita di individui diversi. I principali tentativi in questa direzione sono stati finora tre (Brock, 1993). Il primo definisce la qualità della vita in funzione dei futuri guadagni del paziente, attesi, salvati o persi dalla persona di cui si tratta. Il secondo si basa sulla disponibilità del soggetto a pagare, per cui la qualità della vita sarà tanto maggiore quanto più le persone saranno disposte a pagare per mantenerla. Il terzo prende in considerazione le variabili costituite dal numero degli anni di vita che presumibilmente restano al paziente e dalle condizioni psico-fisiche in cui questi anni saranno vissuti, e le traduce in precisi termini di misura chiamati QALYs (Quality-Adjusted Life Years), atti di vita valutati secondo la qualità. .
I primi due criteri risultano inadeguati dal punto di vista etico in quanto riducono la qualità della vita a un puro indice di ricchezza, senza tenere in alcun conto le diversità di partenza. Molto più complesse sono le ragioni che portano a ritenere inadeguato anche lo strumento dei QALYs (Bucci, 1996). Obiezioni e revisioni sono venute anche da coloro che non vedrebbero male l’uso della sola analisi costi-benefici (Nord, 1999). L’obiezione principale è che tali indici presuppongono comunque assunzioni di valore, e questo viene fatto solitamente con il rinvio a ciò che si ritiene sia comunemente accettato. Si pretende cioè di ricondurre a un unico valore sociale l’apprezzamento di un intervento sanitario diffuso su più persone, presentandolo come la somma dei guadagni prodotti nelle utilità individuali, senza tenere in alcun conto le differenze dovute alle diverse condizioni iniziali delle persone coinvolte.
Prima di tutto, però, non si possono imporre modelli universali per stabilire quali sono le condizioni che rendono una vita "degna di essere vissuta". Nessuno può decidere se la qualità della vita di un altro sia tale da renderla priva di dignità e di valore. Persone che hanno dovuto portare il peso di gravissime menomazioni fisiche hanno saputo affrontare questa prova con coraggio e sono stati capaci di dare alla loro esistenza un significato estremamente positivo per sé e per gli altri. Né la società nel suo complesso né i singoli operatori sanitari hanno il diritto di dare giudizi sommari e superficiali, escludendo alcune persone a priori dal godimento di risorse necessarie allo loro sopravvivenza. 11. Razionamento palese e occulto
La riflessione sulle modalità attraverso cui vengono realizzate le scelte di micro-allocazione, e in particolare sui contenuti etici di tali scelte, conduce necessariamente a considerare il problema rappresentato dalle proposte di razionamento delle prestazioni sanitarie, un’espressione che configura le scelte rese necessarie dalla limitata disponibilità di risorse per il loro finanziamento. In base a tali scelte, le prestazioni verrebbero "razionate", cioè distribuite secondo vincoli e regole che comportano inevitabilmente l’esclusione parziale o totale di qualcuno dalla fruizione delle prestazioni stesse.
Sul termine stesso "razionamento" molte perplessità sono legittime L’uso di questo termine richiama la situazione rappresentata dalla ridotta disponibilità, in periodi di guerra, di generi alimentari e di altri generi di prima necessità. Proprio dal confronto con tale situazione emergono fondati dubbi, innanzitutto per lo scenario che evoca, e ancor più per le sostanziali differenze nel metodo e nelle conseguenze. Mentre infatti il razionamento dei generi alimentari e di altri beni, durante le guerre, comporta un’organizzazione delle modalità di distribuzione che, per quanto disagevole, consentiva a tutti - nessuno escluso - di fruire del minimo necessario, e consentiva anzi ai più bisognosi di ottenere quantità maggiori di alimenti, nell’attuale scenario della sanità sarebbe l’opposto. Il razionamento delle prestazioni sanitarie mira a escludere qualcuno dalla prestazione razionata, in genere proprio i più deboli. Esso inoltre prevede come legittimo il ricorso al mercato libero (in questo caso rappresentato dalla sanità privata) le cui prestazioni possono soccorrere le necessità degli esclusi o degli insoddisfatti, con l’evidente inequità legata a costi che ne rendono impossibile la fruibilità per tutti. Lo stesso mercato libero esisteva, è vero, anche in tempo di guerra, ma era un mercato illegale e severamente sanzionato ("mercato nero"). Invece il razionamento associato al libero mercato sanitario consente la fuga dal sistema, e la inequità che ne consegue viene legalizzata.
Una volta accertata, tuttavia, l’inevitabilità del ricorso a scelte anche tragiche nella sanità di oggi, si pone il problema di una giustificazione etica delle decisioni che a esso conseguono. Appare evidente che una convergenza di opinioni si sia venuta a creare circa la necessità che tali scelte avvengano in modo trasparente e concordato, piuttosto che con dinamiche spontanee e poco controllabili (razionamento occulto). Alla prima modalità infatti è possibile applicare determinanti etici che ne minimizzino gli aspetti di inequità. La seconda è invece priva di riferimenti etici e può essere causa di gravi discriminazioni.
In Italia e altrove il dibattito ha consentito di individuare con precisione, attraverso studi appropriati, le cause e le conseguenze negative (esclusioni) del razionamento occulto. La stessa vivacità non si riscontra, invece, nella realizzazione di metodologie eticamente fondate per l’applicazione di sistemi di scelta palesi, come invece è stato possibile riscontrare in altri paesi, anche europei. Le esclusioni e le inclusioni dei pazienti nei confronti di determinate cure vengono a volte decise dai medici attraverso scelte allocative che maturano "sul campo", in base a valutazioni cliniche di urgenza e/o appropriatezza diagnostica e terapeutica. Ciò presenta rischi che vanno dall’eccesso di potere personale conferito al medico alla maggiore difficoltà di contenere la spesa sanitaria, oltre alle possibili discriminazioni che possono derivare dall’applicazione di criteri di scelta arbitrari.
Il primo meccanismo è quello del franco diniego della prestazione richiesta, che può realizzarsi attraverso l’esclusione di categorie di pazienti (i cui bisogni non sono ritenuti sufficientemente urgenti perché possano essere soddisfatti) e attraverso la ridefinizione delle forme di intervento. Un altro meccanismo di razionamento occulto è la selezione effettuata direttamente dagli operatori sanitari a vantaggio di pazienti le cui situazioni patologiche offrano maggiori garanzie in termini di riuscita dell’intervento, di minor tempo impiegato, di maggiore significato clinico o di maggiore disponibilità del paziente stesso. Esiste inoltre la possibilità, definibile come deflessione, di indirizzare impropriamente il paziente verso altri servizi, non sanitari; oppure di creare vere e proprie situazioni di deterrenza che scoraggino il paziente inducendolo a rinunciare alla richiesta, tra le quali possono essere citate le difficili modalità di appuntamenti, o comunque qualsiasi barriera che di fatto renda più arduo l’accesso alla prestazione. Può essere classificata in quest’ambito anche la carenza di informazione chiara e comprensibile sulle modalità di accesso e sul tipo di prestazione. Numerosi studi, anche in Italia, hanno infatti evidenziato la lentezza e la cattiva qualità delle prestazioni ricevute da parte di famiglie a basso tasso di scolarità. Ben noto è anche il peso del meccanismo di dilazione, il cui esempio più tipico è costituito da liste d’attesa esageratamente lunghe. A ciò si associa il meccanismo detto di diluizione, cioè le disincentivazioni della domanda che si basano sulla riduzione della qualità percepita (comfort) della prestazione.
Si rileva, a proposito di tutti i meccanismi di razionamento occulto, la possibilità di un loro aggiramento attraverso rapporti di intermediazione che se in taluni casi percorrono vie legittime, in altri (conoscenze, amicizie, protezioni) si configurano come situazioni privilegiate (clientelari), che apparendo ai cittadini come l’unica soluzione possibile per accedere al proprio diritto possono favorire la diffusione di un atteggiamento complessivo di vera e propria "rinuncia sociale" al rispetto delle regole. Tutti questi meccanismi finiscono con il colpire in maggior misura fasce deboli di popolazione come gli anziani e le persone a bassa scolarità, e costituiscono quindi problemi che riguardano direttamente gli aspetti etici legati all’equità.
Un’altra rilevante area di meccanismi di razionamento occulto riconosce la loro causa negli squilibri territoriali che caratterizzano l’articolazione del Servizio sanitario nazionale. La minore qualità spesso riscontrabile nelle prestazioni erogate dalle strutture pubbliche del Sud e le frequenti difficoltà di accesso, contribuiscono a spiegare la maggiore spesa sanitaria di quelle aree, in parte attribuibile proprio alla necessità di ricorrere ai servizi privati. Il fenomeno dell’emigrazione sanitaria da queste regioni a quelle del Centro-nord rappresenta una conferma diretta della situazione di razionamento della prestazione rappresentato dalla quella forma estrema del meccanismo di diniego che deriva dalla mancata realizzazione di servizi pubblici di qualità nelle aree economicamente svantaggiate. L’auspicabile decentramento deve evitare l’intreccio perverso tra le diseguaglianze di fatto e quelle istituzionalizzate, che violino il criterio della "portabilità dei diritti" e accrescano le differenze tra gli abitanti delle diverse regioni.
In attesa del verificarsi di un’auspicabile crescita del dibattito e soprattutto di orientamenti riguardanti le scelte palesi, non può che essere apprezzata la tendenza attuale a limitare gli impatti negativi del razionamento occulto attraverso il ricorso a linee-guida e a studi di EBM in grado di migliorare omogeneamente gli standard decisionali dei medici. Essi infatti sono tuttora chiamati, in assenza di criteri alternativi palesi, a realizzare di fatto la selezione dell’uso delle risorse attraverso le scelte che compiono nell’attività quotidiana. In questo senso il ruolo del medico è fondamentale, così come l’autonomia che deve caratterizzarne le decisioni, nel rispetto delle regole della scienza e del valore della clinica.
Il CNB suggerisce che le amministrazioni sanitarie ricorrano più frequentemente ai comitati d’etica istituzionali per esaminare e valutare in modo interdisciplinare e pluralistico i criteri microallocativi soprattutto in riferimento alle scelte più delicate e aventi maggior risonanza civile.
In particolare sarebbe consigliabile, almeno a livello regionale, realizzare commissioni ad hoc etico-scientifico-amministrative che operino un monitoraggio continuativo e critico in merito all’impatto di nuovi sistemi organizzativi e finanziari introdotti negli ultimi anni. Uno è quello detto dei DRG (Diagnosis Related Group), il quale, accanto a indubbi vantaggi dischiude possibili rischi: contrazione del tempo comunicativo con il malato, deriva economicistica della decisione clinica, privilegio offerto a casistiche più remunerative. Un altro è la coesistenza nella stessa istituzione di due sfere di attività, quella di servizio per tutti e quelle a pagamento "intra moenia", che possono introdurre elementi discriminatori quali quelli che si correlano all’esistenza di due liste d’attesa, una dilazionata nel tempo e l'altra rapida, ciò che può implicare una diversa qualità ed efficacia della diagnosi e della cura. 12. Alcuni orientamenti
Sono importanti, nell’individuazione degli orientamenti da perseguire, le linee (Principles for action) che l’OMS ha espresso in tema di equità già dal 1990 (Margaret Withehead, The concepts and principles of equity and health). Esse riconoscono, per la lotta alle disuguaglianze nel campo della salute, le seguenti necessità: realizzare politiche di equità attraverso iniziative tendenti a migliorare le condizioni di vita e di lavoro; promuovere interventi finalizzati a diffondere nelle popolazioni stili di vita più salubri; decentrare progressivamente il potere dei cittadini in tema di salute attraverso il coinvolgimento della popolazione in tutte le fasi dei processi decisionali; coniugare politiche di valutazione di impatto sulla salute (health impact assessment) con azioni intersettoriali; realizzare livelli di reciproco coinvolgimento e controllo a livello internazionale; fondare il concetto stesso di equità nelle cure sul principio dell’accessibilità a tutti di un’assistenza sanitaria di livello elevato; basare le politiche per l’equità su ricerche, monitoraggi e valutazioni appropriati. Questi orientamenti, in sostanza, corrispondono all'esigenza di influire su ciascuno dei fattori che determinano il rapporto fra salute e malattia, e che contribuiscono all'accrescimento o alla riduzione delle "disuguaglianze inique", in quanto influenzabili dall'azione umana. Essi sono riassunti nello schema elaborato da Whitehead e Diderichsen, e si collocano attualmente all'esterno del "nucleo biologico" caratterizzato dal patrimonio genetico, dal sesso e dall'età.
Sulla base di questo schema, i seguenti principi generali possono valere come guida per le scelte morali e politiche sull'equità nella salute:
La tutela della salute, lo stile di vita, l’istruzione e le condizioni sociali costituiscono, nella loro integrazione, i punti principali di intervento.
Si deve ricercare un giusto equilibrio e un'efficace sinergia tra gli interventi che sottolineano la responsabilità degli individui per la propria salute, e quelli che fanno leva sulle responsabilità pubbliche per creare condizioni che promuovano la salute di tutti. Il senso di responsabilità di ciascuno per il benessere sociale complessivo deve congiungersi con una responsabilità collettiva, in grado di elaborare programmi istituzionali che innalzino la qualità del benessere di ciascuno.
Il raggiungimento di un più alto livello di equità non deve essere realizzato a scapito del livello di salute di una parte della popolazione. Il miglioramento della salute è una conquista il cui il frutto non è a somma zero.
Nell'indirizzarsi ai comportamenti individuali si devono promuovere programmi che mirano al loro cambiamento, collegati a programmi ambientali che incoraggiano l'adozione di stili di vita migliori. Tale sinergia è essenziale per rendere efficaci i programmi. La priorità deve essere data ai seguenti scopi:
Promuovere un sano sviluppo del bambino e dell'adolescente.
Scoraggiare l'uso del tabacco.
Promuovere diete alimentari non eccessivamente cariche di calorie, grassi e proteine, ma ricche invece di carboidrati, vitamine e minerali.
Promuovere l'attività fisica.
Invitare a un uso moderato, e in certi casi nullo, dell'alcol.
Prevenire e ridurre le lesioni e le violenze di ogni natura.
Operare per la prevenzione della sterilità, anche al fine di valorizzare la maternità e la paternità.
I cambiamenti socio strutturali devono includere:
L'alfabetizzazione generalizzata.
Il raggiungimento da parte di tutti di livelli di istruzione e di formazione adeguati per poter svolgere un'appropriata attività lavorativa.
Una più equa distribuzione del reddito attraverso la formazione della forza lavoro in direzione di lavori produttivi; un minimo salariale al di sopra dei minimi di povertà; la revisione degli scaglioni fiscali; l’introduzione di un'appropriata sicurezza sociale; l’adozione di opportuni trattamenti pensionistici.
La messa in opera di sistemi di universale accesso ai servizi sanitari, per tutti senza eccezione e in ogni momento.
Le misure volte a accrescere per tutti il senso di sicurezza fisica ed economica, e a ridurre le disuguaglianze tra sottogruppi di popolazione riguardo alla sicurezza.
Occorre adottare politiche di protezione e rafforzamento delle famiglie comprendenti:
Politiche economiche e sanitarie di attenzione alle differenze di genere.
Misure che assicurino le pari opportunità e l'equità tra i sessi nell'accesso a beni e servizi essenziali.
Misure che favoriscano le donne e riducano i pregiudizi di genere a livello delle comunità.
I concetti espressi dall’OMS trovano riscontro nella dichiarazione di Erice sull’equità e il diritto alla salute del 25 marzo 2001, che pone l’accento sulla gravità del problema delle disuguaglianze nel reddito e nella salute che affliggono l’umanità, e che non sono mai state così ampie come oggi. Di questo documento viene soprattutto richiamata nelle conclusioni, e può essere condivisa da questo documento del C.N.B., la necessità del coinvolgimento attivo di tutti ("ogni persona deve acquisire la consapevolezza delle disuguaglianze che si sono venute a creare nel mondo, delle cause che le hanno prodotte, dei meccanismi che le alimentano e le aggravano"). E’ da sottolineare inoltre la necessità che vi sia la più ampia partecipazione dei cittadini alle decisioni e alle scelte che riguardano la salute e l’organizzazione dei sistemi sanitari. In particolare deve essere richiesta alla comunità scientifica una partecipazione attiva e indipendente alla produzione di ricerche e valutazioni sui temi dell’equità, dello sviluppo sostenibile e della difesa della dignità e della vita di tutte le persone. Anche da questo impegno può derivare una maggiore capacità da parte della comunità scientifica di incidere con la sua autorevolezza nella definizione dei diritti e dei doveri delle autorità nazionali, degli organismi sovranazionali e delle organizzazioni commerciali, spesso sovranazionali anch'esse, le cui scelte possono anche essere in contrasto con gli interessi dei più deboli e dei più poveri.
Emerge quindi la contrapposizione tra una tendenza sconsiderata a non tener conto dei deboli e delle generazioni future, che potrebbe perfino condurre l’intero pianeta verso prospettive catastrofiche, e un atteggiamento illuminato che consideri i principi di uno sviluppo sostenibile, della solidarietà internazionale, dell'universalità dell’accesso e della fruibilità senza discriminazioni dei servizi sanitari ed educativi, con riferimento all'uguale dignità di tutti gli uomini.
Ciò premesso, è utile considerare alcune linee di intervento più normativo nelle questioni di giustizia sanitaria che fanno riferimento alla bioetica. Si presentano questi temi come linee che non hanno pretese di completezza né di sistematicità.
A) Accrescere le conoscenze sulle fonti di iniquità
Una prima via da privilegiare è quella di aumentare la disponibilità a livello delle istituzioni pubbliche delle conoscenze sulle principali cause della iniqua distribuzione della salute e dell’accesso all’assistenza medica disponibile (Costa e altri, 2000). Si tratta cioè di porre il nostro paese sullo stesso piano di quelli più avanzati nella conoscenza delle ineguaglianze sociali. Particolarmente importante è avere misure precise sulle differenze sociali nella distribuzione delle malattie e della mortalità. Molte delle questioni pratiche e anche delle stesse discussioni normative possono venire risolte di fronte ad evidenze empiriche. Sembra così anche nel nostro paese confermata la tesi generale, fatta valere da A. Sen, che la maggior fonte di disuguaglianza sociale sia da individuare nell’istruzione, oltre che nella disponibilità monetaria. Questo punto risulta particolarmente evidente per quanto riguarda le differenze nell’accesso a un bene come quello fornito dall’assistenza sanitaria, la cui fruizione richiede spesso capacità e informazioni particolari sulla salute. Queste conoscenze non possono non avere una ricaduta decisiva anche nell’ambito delle opzioni di pertinenza specifica della bioetica. Si tratta per esempio di includere sempre con chiarezza, nell’ottica di tali ricerche, anche lo studio delle condizioni della nascita e delle fasi successive della vita.
B) Non collegare l’accesso alle cure con le valutazioni sulla responsabilità morale personale
Un’altra indicazione di ordine generale, in grado di orientare le decisioni sull’equa distribuzione delle risorse per l’assistenza medica, è quella di non fare dipendere tali decisioni dalla volontà di penalizzare coloro che possono essere considerati moralmente responsabili delle loro malattie. Una posizione del genere influenza in particolare decisioni in cui si tratta di stabilire le priorità tra diverse persone (Harris, 1998), ma può influenzare anche le questioni macro-distributive (si pensi alla decisione sulle risorse da assegnare alla cura per l’AIDS, o per le malattie da fumo o per consumo eccessivo di alcool o per droghe, ecc.).
Qualora la limitatezza delle risorse suggerisse una selezione delle prestazioni, i criteri dovranno comunque corrispondere a motivazioni mediche e a principi di equità assunti in modo trasparente, evitando interferenze di interessi economici o professionali. Tuttavia, data la complessità e la delicatezza delle questioni coinvolte, l’approfondimento di tale argomento richiederà una trattazione più specifica.
C) Valorizzare le scelte personali
I casi di cui si occupa la bioetica mettono sul tappeto ancora più chiaramente sia l’esigenza di riferirsi, nell’affrontare questioni di distribuzione di risorse per la sanità, alla qualità delle vita delle persone coinvolte, sia la necessità di escludere qualsiasi interpretazione riduttiva e avalutativa di questa nozione. Molti dei casi di pertinenza della bioetica, sia che si tratti della nascita come della fine della vita che della cura, manifestano situazioni in cui le persone fanno valere scelte che acquistano un senso e uno spessore solo se collegate con il loro particolare modo di intendere la dignità e la qualità della vita. Proprio i casi della bioetica rendono manifesta la tensione di fronte alla quale si trova attualmente la giustizia sanitaria nei paesi sviluppati e retti da istituzioni liberal-democratiche: da una parte fare valere criteri che garantiscano a tutti le condizioni basilari di qualità della vita; dall’altra prendere atto che non si possono imporre modelli universali riguardo alle condizioni che rendono una vita dignitosa. Tale tensione va ovviamente sottoposta a verifica nelle singole situazioni, ma non sembra ci siano in generale procedure diverse da suggerire, rispetto a quelle scelte e realizzate da organi rappresentativi. Essi devono rendere pubblici in anticipo i criteri che intendono seguire sottoponendoli a discussione e considerandoli rivedibili, senza privilegiare nessuna concezione sostantiva di ciò che dà qualità a una vita. Al contrario, occorre che le persone coinvolte mantengano la propria autonomia e possano dare contenuto al tipo di aiuto pubblico a cui ritengono di avere diritto, in modo da condurre la propria vita con un grado di salute tale che sia a loro stesso giudizio degna di essere vissuta.
D) Dare priorità all’istruzione e all’acquisizione delle informazioni
Alla luce di quanto detto appare chiara la complessità del problema di un’equa allocazione delle risorse in materia sanitaria e la difficoltà di fare delle raccomandazioni particolareggiate, come in altri campi. E’ chiaro però che la prima esigenza riguarda la diffusione dell’informazione.
La stessa conoscenza, peraltro, è in se stessa una risorsa, il cui accesso deve essere disponibile per il maggior numero possibile di persone. Essa può in molti casi risultare importante quanto gli stessi mezzi economici e tecnologici, sia per la prevenzione che per la terapia. Questo perché, spesso, a ostacolare un corretto approccio all’una e all’altra, intervengono notizie e prassi distorte, e non solo a causa dell’arretratezza, ma anche dell’influenza di un’industria che a volte è interessata solo a vendere i propri prodotti. Si aggiungano il recente fenomeno della "medicina difensiva", che è tesa a evitare il contenzioso giudiziario, la quale può spingere all'eccesso di prestazioni diagnostiche e terapeutiche, anche invasive, come per esempio l'uso di tecniche più costose e sofisticate, anche quando non ce ne sarebbe bisogno. L’informazione stessa, quando è condizionata da pressioni particolaristiche e sottratte al dibattito pubblico e alla deliberazione democratica, può tuttavia divenire uno strumento in grado di favorire forme di razionamento occulto, come avviene quando alcune lobbies cercano di persuadere, spesso ricorrendo ad argomenti irrazionali, l’opinione pubblica e/o gli organi decisionali delle amministrazioni circa la maggior gravità e urgenza di cure di una patologia rispetto alle altre.
Lo sviluppo generale della conoscenza non dovrebbe limitarsi a un’opera di informazione, che metta in grado le persone di fare delle scelte consapevoli, ma estendersi a uno sforzo di formazione, che dia la possibilità di accedere a dei criteri corretti con cui operare queste scelte, gettando le basi di una cultura della responsabilità nei confronti della propria salute e di quella degli altri. A questo scopo potrebbe contribuire l’introduzione di temi dell’etica biomedica nelle scuole.
La conoscenza deve essere resa accessibile a tutti. Per questo scopo è indispensabile un dibattito pubblico permanente, di cui è necessario attivare gli spazi. In pochi campi come in quello dell’allocazione delle risorse sanitarie sono importanti la trasparenza e la partecipazione. Esse richiedono che i criteri di scelta vengano stabiliti, alla luce di informazioni tecnicamente fondate, attraverso un confronto a cui possano partecipare tutti i soggetti interessati. Dal punto di vista dell’equità, è inaccettabile che il monopolio delle decisioni in questa materia sia riservato a centri di potere che possono, attraverso i media, far passare le soluzioni da loro prescelte come ovvie o, almeno, come le uniche possibili. Allo stesso modo è inaccettabile che tale monopolio sia affidato a esperti la cui competenza tecnica non è sufficiente a garantire il giudizio etico. Resta la condizione che sullo sfondo del dibattito, per evitare che vi sia superficialità e demagogia, vi sia una reale consultazione di tutte le competenze e orientamenti disponibili, e una reale informazione che consenta decisioni consapevoli.
E) Per una nuova tavola di valori a livello globale
Nel Rapporto 1999 sullo sviluppo umano: la globalizzazione, prodotto dall’agenzia dell’ONU per lo sviluppo e la popolazione, si legge: "La sfida della globalizzazione non consiste nel fermare l’espansione dei mercati globali, bensì nel consolidare le regole e le istituzioni per una governabilità più forte - a livello locale, nazionale, regionale e globale - per far sì che la globalizzazione operi a favore degli individui, non solo a favore dei profitti".
In un momento in cui emergono istanze comuni, davvero universali (e tra queste il diritto alla salute, che esprime con la massima immediatezza una necessità ineludibile di tutela della persona), che sono in grado di poter costituire un efficace contrappeso a un’espansione mondiale, finora incontrollata, della sola logica economica, occorre ridefinire una nuova tavola dei valori che dovrà regolare i rapporti tra le diverse aree di un mondo divenuto ormai globale.
Appare, pertanto, auspicabile che l’O.M.S. assuma esplicitamente funzioni normative, contribuendo a formare quella che si potrebbe chiamare una "coscienza universale della sanità" e creando alleanze con le agenzie interstatali, le imprese produttive e le organizzazioni internazionali non-governative (ONG).
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