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Le Metamorfosi della salute e i nuovi diritti

Raffaele Prodomo

La salute, come ci assicura anche il famoso proverbio, è tra i beni prioritari cui tende l’azione umana. L’interesse a prevenire e curare le principali malattie è sia al centro di decisioni individuali e private sia oggetto di dibattito pubblico, come tale comportante un livello etico-politico di decisione. La salute come sentire diffuso nelle società sviluppate è interpretata sempre più come un diritto umano fondamentale da tutelare almeno entro un livello minimo di decenza e con un margine di tolleranza per forme e stili di vita individuali. Inoltre, siccome l’arretratezza economica di molti paesi del mondo si associa a una incidenza maggiore di malattie e handicap, non si può trascurare il problema di un’azione internazionale di sostegno ai paesi poveri e svantaggiati.
Le due questioni, di cui la prima si colloca all’interno delle singole società ricche mentre l’altra ha il suo scenario nell’ambito della cosiddetta globalizzazione (caratterizzata da forti squilibri economici), sono complicate e aggravate dal fatto che, entrambe, vanno a interagire con una dinamica interna al progresso medico in sé considerato, ossia la tendenza a sviluppare tecnologie sempre più sofisticate e costose la cui utilità marginale si riduce progressivamente. In altri termini, si spende sempre più con vantaggi in termini di salute sempre meno evidenti e, soprattutto, con una evoluzione del quadro epidemiologico in cui prevalgono malattie croniche e invalidanti che riducono la qualità della vita.
La nostra tesi è che, così stando le cose, il progresso medico ha avuto la conseguenza di far proliferare non solo nuove tecnologie ma anche una pluralità di concezioni della salute che, se non proprio conflittuali, certamente sono tra loro diverse. Anche in questo ambito si sarebbe passati da un conflitto di tipo distributivo, in qualche modo classico, a un conflitto più propriamente identitario, secondo una interpretazione corrente dell’evoluzione delle controversie politiche particolarmente autorevole e plausibile[i].
Questa tesi, per ora solo enunciata, merita un maggiore approfondimento analitico.
Le metamorfosi della salute
La definizione di salute è fonte di controversie interpretative.
Da un lato abbiamo le definizioni scientifiche che tendono a delineare la perdita della salute in funzione dell’allontanamento da parametri fisiologici normali, ritenuti assoluti e tipici della specie. Questo modo di considerare il binomio salute-malattia fa della prima uno stato misurabile oggettivamente di corretto funzionamento del corpo come organismo. Di conseguenza, anche la malattia è uno stato oggettivo di squilibrio o disfunzione quantificabile e misurabile nell’ambito della conoscenza oggettiva fornita dalla medicina scientifica.
Dall’altro lato, invece, pur non rinnegando la metodologia scientifica (retaggio recente della medicina), si tende a pensare che non sia possibile definire la salute in modo descrittivo-oggettivo ma si debba sempre partire da un’opzione normativa. In questo modo si considera la salute più un valore che un fatto, ossia si pone al centro il carattere dinamico della relazione uomo-ambiente con la variabilità di fini e di interessi, la cui mancata realizzazione per cause fisiche pone in essere uno stato percepito come patologico. In questo modo si chiamano in causa nella definizione di salute percezioni soggettive, contesti culturali e situazioni storico-evolutive, tutte condizioni, come è facile prevedere, che comportano modifiche continue nella fisionomia del binomio salute-malattia.
Il dibattito tra queste due prospettive culturali è particolarmente acceso. La concezione normativa della salute è, in vario modo, sostenuta da filosofi della scienza, come Georges Canguilhem (che fin dagli anni cinquanta si interrogava sul normale e il patologico) ma non mancano incursioni epistemologiche da parte di antropologi come Byron Good o sociologi, come ad esempio Ivan Cavicchi, tutti riuniti dalla comune polemica contro un modello riduzionista e scientista della salute e della medicina alla cui difesa, al contrario, negli ultimi anni si sono posti autori come Giovanni Azzone e, con maggiore sincretismo, Paul Thagard[ii].
Il carattere relazionale e mutevole della salute appare corroborato anche da considerazioni di tipo evoluzionistico che più di recente si stanno affermando nel campo del sapere medico attraverso gli studi di Nesse e Williams, di cui si sono avuti echi anche nel nostro paese[iii].
Le stesse critiche all’OMS circa il carattere utopico della propria definizione di salute, vista non come semplice assenza di malattia ma come “stato di completo benessere fisico, psichico e sociale” sono valide se riferite a un’idea di salute quale stato di cose perfettamente realizzabile e addirittura programmabile nel tempo (come voleva il progetto, prima fallito poi ridimensionato, che prometteva la salute per tutti entro il 2000), mentre colgono meno nel segno se ci si colloca nella prospettiva di vedere nella salute un valore e un ideale al quale, per definizione, si può solo tendere asintoticamente senza che sia mai possibile raggiungerlo ed esaurirne completamente le manifestazioni. I nuovi diritti
Il carattere relazionale e contingente della nozione di salute-malattia emerge con evidenza paradossale nel momento in cui si esaminano i casi diametralmente opposti di due nuovi diritti affacciatisi alla coscienza collettiva negli ultimi anni: il diritto a rifiutare le terapie (fino alla rivendicazione estrema di un diritto a morire) e il diritto a un’assistenza minima.
Vediamo più da vicino come sono nate e come si sono configurate queste aspirazioni così lontane tra loro.
La prima rivendicazione è concepibile unicamente nel contesto di una società opulenta, ossia una società, come quella occidentale, dove si è consumata la transizione epidemiologica associata alla crescita economica. Si tratta del cambiamento, rilevato dalla statistica ma percepibile anche dall’esperienza comune, nella distribuzione delle cause di morte, con la prevalenza delle malattie cronico-degenerative rispetto alle malattie acute, segnatamente quelle infettive, che avevano sempre avuto un tragico primato storico. La trasformazione nella distribuzione statistica delle varie malattie, le cui cause principali sono da ricercare nelle migliorati condizioni igieniche dei centri urbani e nel più elevato tenore di vita complessivo, si è accompagnata, inoltre, al tumultuoso sviluppo della medicina scientifica. Le capacità terapeutiche sono cresciute in modo esponenziale abbattendo limiti che sembravano invalicabili, con un interventismo tecnologico non privo, tuttavia, di risvolti negativi. Spesso i medici si sono concentrati nel compito di riparare e ripristinare nel loro funzionamento organi e apparati malati ma hanno trascurato la considerazione del benessere individuale complessivo al quale dovrebbe tendere l’azione medica. Come conseguenza di tali comportamenti, non potendo sempre guarire si finisce col ritardare o prolungare il decorso di una malattia, in modo tale, però, da prolungare spesso anche le sofferenze e i disagi che ad essa si associano.
Tale stato di cose apre un problema di ordine generale e uno più specifico. In generale ci si deve reinterrogare circa gli scopi prioritari dell’assistenza medica, che, come si è visto, possono essere persi di vista nella foga della lotta contro le malattie. Più nello specifico ci si pone il problema di formulare un’etica di fine vita, allo scopo di capire se, di fronte a una malattia cronica o incurabile giunta a uno stadio finale, non sia più opportuno assumere atteggiamenti di accettazione realistica dell’inevitabile piuttosto che ostinarsi in assalti prometeici[iv].
Scopi e priorità della medicina, il rapporto tra il medico e la morte, la possibilità di rifiutare le cure o, addirittura, di chiedere un aiuto a morire, sono problemi tipici di società che vivono in condizioni di benessere diffuso con un facile accesso alle cure mediche più moderne e sofisticate. In queste circostanze si capisce come sia possibile rivendicare una sorta di nuovo e a prima vista paradossale diritto: il diritto di morire, inteso come volontà di non opporsi testardamente alla morte quando questa appare ormai inevitabile[v].
Lo spazio di scelta aperto dal riconoscere la potestà decisionale individuale in questo ambito (per ora quasi esclusivo dominio medico) è estremamente ampio e variegato. Infatti, è probabile che, di fronte a situazioni clinico-esistenziali quali quelle della malattia in stadio terminale, non ci siano reazioni unanimi e uguali per tutti: l’esperienza ci dice, al contrario, che le risposte sono varie e differenziate. Le richieste di chi deve decidere in tali drammatiche circostanze sono di vario tipo, c’è chi vuole combattere fino alla fine con le armi della medicina, accettando oneri e sofferenze anche a fronte di vantaggi minimi in termini di sopravvivenza e chi, invece, si affida alla medicina palliativa, rinunciando a lottare contro un male inarrestabile e chiedendo solo di non soffrire. Né si può escludere a priori che, di fronte a situazioni ingovernabili anche dalle migliori tecniche palliative, assuma un senso la richiesta di eutanasia attiva volontaria. Tali decisioni non possono non ispirarsi a molteplici stili di vita individuali e/o a una pluralità di concezioni complessive della vita di tipo sia religioso che filosofico, le cosiddette “metafisiche pubbliche” di cui parla Sebastiano Maffetone nei suoi ultimi scritti, per cui in ambito politico sarà necessario prevedere ampi margini di tolleranza[vi]. Assistenza sanitaria minima
Ad un estremo opposto rispetto alle questioni finora considerate si colloca il problema del minimo di assistenza medica che bisognerebbe garantire a tutti. Si tratta della questione di fornire assistenza ai popoli svantaggiati della terra, ossia in quelle realtà geografiche in cui la penuria di mezzi economici è assoluta e drammatica e ci si trova di fronte a situazioni pericolosissime da un punto di vista igienico con un armamentario medico il più delle volte, se non del tutto assente, rudimentale e insufficiente.
Come giustificare, in termini di giustizia internazionale e non come mero atto caritatevole, il dovere di fornire un minimo di assistenza in questi casi? Inoltre, ammesso che sia doveroso moralmente un intervento assistenziale, come fornire un’assistenza globale, ossia capace di manifestarsi a vari livelli della vita sociale?
Un intervento efficace e duraturo, infatti, dovrà proporsi di stimolare la crescita economica e le condizioni di vita generale se vuole modificare strutturalmente le cose. Allestire o potenziare esclusivamente l’assistenza sanitaria sarebbe una risposta miope e incompleta, in quanto è ovvio, ad esempio, che per debellare le malattie infettive bisogna sì avere a disposizione antibiotici e chemioterapici ma si deve anche puntare alla prevenzione; e la stessa prevenzione non può essere affidata solo ai programmi di vaccinazione di massa ma è molto più efficace se si nutrono meglio le persone da vaccinare e si progettano bonifiche ambientali. Si tratta di modificare radicalmente il senso dei nostri comportamenti nei confronti dei popoli svantaggiati, evitando, tra le altre cose, la tendenza a usarli come cavie privilegiate per la ricerca medica internazionale di farmaci che poi verranno usati dai paesi ricchi.
Povertà, fame, malattie sono emergenze internazionali da considerare inscindibili e da combattere globalmente con interventi medici, sostegno economico e, come indicato da autorevoli economisti, anche con robuste iniezioni di libertà e democrazia[vii].
Un diritto all’assistenza globale (comprendente anche quote di assistenza medica) è ormai quasi unanimemente riconosciuto ai paesi poveri del mondo, il correlativo dovere di aiutare è sentito in modo sempre meno eludibile dall’opinione pubblica internazionale, colpita emotivamente dalle immagini di estrema miseria che i mass-media propongono quotidianamente, e trova sempre più intellettuali e pensatori politici disposti a elaborarne le fondamenta teoriche[viii]. Conclusioni
Il diritto alla salute si declina in modi inimmaginabili fino a qualche tempo fa: quelle definite le metamorfosi della salute, ossia i cambiamenti storicamente condizionati nell’idea condivisa di salute e benessere individuale, non sono prive di conseguenze sul piano etico-politico.
Abbiamo visto che si pone il problema di stabilire un confine alla medicina sia verso l’alto che verso il basso, da un lato fissando limiti all’eccessiva intrapendenza tecnologica e, dall’altro, garantendo minimi di assistenza a chi ne è sprovvisto quasi del tutto. Una stessa esigenza di salute, quindi, per l’enorme variabilità dei contesti si manifesta con richieste contrapposte e apparentemente contraddittorie. Da qui sorge la necessità di pensare a forme federali di tutela della salute che, da un lato, ne salvino il valore universalistico (costituzionalmente protetto nel nostro Paese), dall’altro ne consentano la modulazione delle realizzazioni concrete in sede locale[ix].
Sembra quasi che la dignità umana possa, allo stesso modo, essere messa in discussione sia da troppa che da troppo poca medicina!
Dobbiamo abituarci a convivere con queste richieste conflittuali elaborando metodi per governarle. In questo senso sarebbe sbagliato collocarle sullo sfondo tradizionale dei conflitti di interesse, quello definito il conflitto distributivo, che si concretizza quando in ambito sociale si discute su come redistribuire beni relativamente scarsi. Il problema in questo caso della salute e dei nuovi diritti ad essa associati non è di redistribuzione quantitativa di risorse ma è più complesso. Sono chiamate in causa, infatti, identità individuali e collettive che, oltre a concezioni complessive della vita, elaborano anche idee della salute diverse tra loro. In definitiva, sembra che anche nel mondo della salute il conflitto sociale e politico si sia spostato dal terreno delle rivendicazioni economiche (conflitto distributivo) a quello della disputa sulla rilevanza e sul grado di accettabilità delle diverse culture presenti in un ambito statale circoscritto o, nel caso della giustizia tra i popoli, in ambito internazionale (conflitto identitario)[x].
Purtroppo questa evoluzione non significa che non ci siano, in ambito sanitario, anche problemi economici di allocazione di risorse scarse: in realtà il nuovo livello di problematicità non si sostituisce ma si somma a quello precedente, rendendo sempre più complessa la galassia dei nuovi diritti oggi potenzialmente rivendicabili grazie allo sviluppo scientifico della medicina.

[i] Si fa riferimento all’opera di Rawls e al dibattito da essa suscitato, in particolare il problema dei conflitti tra identità culturali diverse e la necessità di tollerare un pluralismo ragionevole è affrontato in J.Rawls, Il liberalismo politico, Comunità, Milano 1994. Per una interpretazione dei conflitti bioetici come conflitti tra diverse concezioni di valori con la conseguente necessità di tolleranza, si veda R.Dworkin, Il dominio della vita, Comunità, Milano 1994. Un utile resoconto delle principali questioni teoriche in riferimento alle questioni bioetiche si trova in F.Manti, Bioetica e tolleranza, ESI, Napoli 2000.
[ii] G.Canguilhem, Il normale e il patologico, Einaudi, Torino 1998; B.Good, Narrare la malattia, Comunità, Torino 1999; I.Cavicchi, La medicina della scelta, Bollati Boringhieri, Torino 2000; G.F.Azzone, La rivoluzione della medicina, McGraw-Hill, Milano 2000; P.Thagard, La spiegazione scientifica della malattia, McGraw-Hill, Milano 2001. Per un’analisi più accurata di questa controversia epistemologica, sia consentito il rinvio a R.Prodomo, La medicina tra misurazione e narrazione, in AA.VV., Medicina e multiculturalismo, Apeiron, Bologna 2000 pp. 4-25; Id., Oltre la dicotomia arte-scienza: la medicina come sapere storico integrato, in AA.VV., Le metamorfosi della salute, Apeiron, Bologna 2001 pp. 3-17.
[iii] R.M Nesse, G.C.Williams, Why We Get Sick. The New Science of Darwinian Medicine, Times Books, New York 1994 (trad. italiana: Perché ci ammaliamo, Einaudi, Torini 1999); G.Corbellini, Idee evoluzionistiche per la medicina, in AA.VV., Medicina e multiculturalismo, Apeiron, Bologna 2000 pp.25-49.
[iv] D.Callahan, La medicina impossibile. Le utopie e gli errori della medicina moderna, Baldini & Castoldi, Milano 2000; F.Voltaggio, L’arte della guarigione nelle culture umane, Bollati Boringhieri, Torino 1992; AA.VV., La fine della vita. Per una cultura e una medicina rispettose del limite, Apeiron, Bologna 2001
[v] H.Jonas, Il diritto di morire, Il Melangolo, Genova 1991.
[vi] S.Maffettone, Il valore della vita, Mondadori, Milano 1999; Id., Etica pubblica. La moralità delle istituzioni nel terzo millennio, Il Saggiatore, Milano 2001; esempi della variabilità di risposte individuali alle situazioni esistenziali di fine vita si possono trovare in R.Dworkin, Il dominio…, cit.; M.Coltorti, Informazioni per un consenso. Riflessioni derivate dall’esperienza clinica, in AA.VV. , Le metamorfosi … , cit. pp. 33-51 e in P.Borsellino, La malattia terminale: un difficile banco di prova per il consenso-informato, in AA.VV., Le metamorfosi … , cit. pp.77-97.
[vii] A.Sen, Lo sviluppo è Libertà, un libro dove si sostiene la tesi che libertà e democrazia non sono, come banalmente si tende a credere, meri effetti dello sviluppo economico ma ne possono, anzi, essere anche la causa più efficace. Una tesi che capovolge, a nostro avviso, le tesi iperliberiste della globalizzazione selvaggia a favore di una globalizzazione prima etico-politica che economica.
[viii] J.Rawls, Il diritto dei popoli, Comunità, Torino 2001. In questo libro il noto filosofo della politica americano immagina come utopia realistica una società dei popoli bene ordinati capace sia di tenere a freno l’arroganza e la violenza dei cosiddetti popoli fuorilegge che di aiutare concretamente i popoli più poveri e sfortunati.
[ix] I.Cavicchi, Salute e federalismo. Forma e contenuti dell’emancipazione, Bollati Boringhieri, Torino 2001.
[x] Per un’utile introduzione a questo tema si veda di A.E.Galeotti, Multiculturalismo. Filosofia politica e conflitto identitario, Liguori, Napoli 1999; M.A. La Torre, Il multiculturalismo come problema etico-filosofico, in AA.VV., Medicina e multiculturalismo, cit., pp.105-129.

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