Parere sul caso di Piergiorgio Welby del “Comitato per l’etica di fine vita”
Il caso
Il sig. Welby è affetto da una gravissima malattia neurologica giunta allo stadio terminale; conserva intatte le proprie facoltà mentali ed è pienamente capace di esprimere una volontà consapevole; sopravvive grazie a terapie di sostegno vitale (ventilazione assistita); chiede ai curanti la sospensione di tali terapie e la messa in atto di trattamenti volti ad evitargli sofferenze.
Il sig. Welby è affetto da una gravissima malattia neurologica giunta allo stadio terminale; conserva intatte le proprie facoltà mentali ed è pienamente capace di esprimere una volontà consapevole; sopravvive grazie a terapie di sostegno vitale (ventilazione assistita); chiede ai curanti la sospensione di tali terapie e la messa in atto di trattamenti volti ad evitargli sofferenze.
Il quesito:
”E’ eticamente legittimo, per il medico, procedere alla sospensione del trattamento di ventilazione assistita e alla contestuale somministrazione della sedazione, in accoglimento della richiesta del paziente?”
”E’ eticamente legittimo, per il medico, procedere alla sospensione del trattamento di ventilazione assistita e alla contestuale somministrazione della sedazione, in accoglimento della richiesta del paziente?”
Il parere:
Il Comitato per l’etica di fine vita ritiene che la richiesta del paziente debba essere accolta senza indugio e che la sospensione del trattamento accompagnata dalla messa in atto di terapie di controllo della sofferenza sia giustificata non solo sul piano etico e deontologico, ma già oggi anche sul piano giuridico.
Il Comitato per l’etica di fine vita ritiene che la richiesta del paziente debba essere accolta senza indugio e che la sospensione del trattamento accompagnata dalla messa in atto di terapie di controllo della sofferenza sia giustificata non solo sul piano etico e deontologico, ma già oggi anche sul piano giuridico.
Argomenti a sostegno del parere:
1. Il parere formulato si fonda, in primo luogo, sul rilievo che ad un individuo capace di scelte consapevoli, quale è, al di sopra di ogni dubbio, il sig. Welby, compete il diritto ad essere sottoposto soltanto a trattamenti ai quali abbia prestato il proprio consenso, e quando, come nel caso in questione, siano in gioco trattamenti prolungati nel tempo, il diritto a revocare il consenso, pur inizialmente prestato. Il diritto del paziente capace al rifiuto del trattamento terapeutico trova, sul piano morale, fondamento nel principio che impone il rispetto dell’autonomia degli individui sino alla fine della vita. Tale diritto trova, inoltre, pieno riconoscimento nel codice di deontologia medica attualmente vigente, il cui art. 32, all’ultimo comma, senza introdurre alcuna distinzione tra trattamenti salvavita e non salvavita, afferma «In ogni caso, in presenza di documentato rifiuto di persona capace di intendere e di volere, il medico deve desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento contro la volontà della persona». Sul piano giuridico, poi, pur in assenza di una disciplina che regoli in via generale la materia sul piano legislativo, il diritto del paziente capace al rifiuto dei trattamenti discende dal principio di volontarietà dei trattamenti sanitari. Tale principio è stato sancito dal seconda comma dell’art. 32 della Costituzione e da documenti normativi di carattere sovranazionale entrati a far parte dell’ordinamento giuridico italiano, quali la Convenzione sui diritti dell’uomo e la biomedicina (Oviedo 1997) e la Carta dei diritti fondamentali dell’unione europea (Nizza 2000), ed ha trovato applicazione in una consolidata ed autorevole giurisprudenza.
Prendendo le distanze dalla fuorviante interpretazione seconda la quale nel caso Welby sarebbe in gioco il riconoscimento del diritto all’eutanasia, il Comitato per l’etica di fine vita ritiene, dunque, che la richiesta del paziente possa, anzi, debba trovare accoglimento in quanto esercizio di un diritto, quale appunto il diritto al rifiuto dei trattamenti, già oggi riconosciuto dalle norme della deontologia e del diritto, oltre che dalla morale del rispetto delle persona. Tanto più che, nel caso specifico, la volontà negativa rispetto alla prosecuzione del trattamento non riguarda situazioni future ed incerte, ed è ribadita dal paziente avendo piena consapevolezza delle implicazioni che il rifiuto comporta.
2. Riconoscere, come è giocoforza fare sul piano etico, deontologico e giuridico, il diritto degli individui capaci a rifiutare trattamenti anche salvavita, non sarebbe, tuttavia, secondo taluni, sufficiente a legittimare e/o richiedere la messa in atto, da parte dei medici, di comportamenti idonei a dare attuazione al sopra richiamato diritto. In particolare, secondo questa opinione, nei casi in cui, come nel caso di Piergiorgio Welby, il rifiuto investe un trattamento la cui sospensione comporta un pericolo per la sopravvivenza, la sua sospensione, accompagnata da interventi volti ad evitare la sofferenza, sarebbe giustificata solo alla condizione che la continuazione desse luogo ad accanimento terapeutico. Diversamente, comportando la sospensione un pericolo per la vita, si potrebbe profilare uno stato di necessità che legittimerebbe il medico a ripristinare il trattamento rifiutato, disattendendo la volontà del paziente.
1. Il parere formulato si fonda, in primo luogo, sul rilievo che ad un individuo capace di scelte consapevoli, quale è, al di sopra di ogni dubbio, il sig. Welby, compete il diritto ad essere sottoposto soltanto a trattamenti ai quali abbia prestato il proprio consenso, e quando, come nel caso in questione, siano in gioco trattamenti prolungati nel tempo, il diritto a revocare il consenso, pur inizialmente prestato. Il diritto del paziente capace al rifiuto del trattamento terapeutico trova, sul piano morale, fondamento nel principio che impone il rispetto dell’autonomia degli individui sino alla fine della vita. Tale diritto trova, inoltre, pieno riconoscimento nel codice di deontologia medica attualmente vigente, il cui art. 32, all’ultimo comma, senza introdurre alcuna distinzione tra trattamenti salvavita e non salvavita, afferma «In ogni caso, in presenza di documentato rifiuto di persona capace di intendere e di volere, il medico deve desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento contro la volontà della persona». Sul piano giuridico, poi, pur in assenza di una disciplina che regoli in via generale la materia sul piano legislativo, il diritto del paziente capace al rifiuto dei trattamenti discende dal principio di volontarietà dei trattamenti sanitari. Tale principio è stato sancito dal seconda comma dell’art. 32 della Costituzione e da documenti normativi di carattere sovranazionale entrati a far parte dell’ordinamento giuridico italiano, quali la Convenzione sui diritti dell’uomo e la biomedicina (Oviedo 1997) e la Carta dei diritti fondamentali dell’unione europea (Nizza 2000), ed ha trovato applicazione in una consolidata ed autorevole giurisprudenza.
Prendendo le distanze dalla fuorviante interpretazione seconda la quale nel caso Welby sarebbe in gioco il riconoscimento del diritto all’eutanasia, il Comitato per l’etica di fine vita ritiene, dunque, che la richiesta del paziente possa, anzi, debba trovare accoglimento in quanto esercizio di un diritto, quale appunto il diritto al rifiuto dei trattamenti, già oggi riconosciuto dalle norme della deontologia e del diritto, oltre che dalla morale del rispetto delle persona. Tanto più che, nel caso specifico, la volontà negativa rispetto alla prosecuzione del trattamento non riguarda situazioni future ed incerte, ed è ribadita dal paziente avendo piena consapevolezza delle implicazioni che il rifiuto comporta.
2. Riconoscere, come è giocoforza fare sul piano etico, deontologico e giuridico, il diritto degli individui capaci a rifiutare trattamenti anche salvavita, non sarebbe, tuttavia, secondo taluni, sufficiente a legittimare e/o richiedere la messa in atto, da parte dei medici, di comportamenti idonei a dare attuazione al sopra richiamato diritto. In particolare, secondo questa opinione, nei casi in cui, come nel caso di Piergiorgio Welby, il rifiuto investe un trattamento la cui sospensione comporta un pericolo per la sopravvivenza, la sua sospensione, accompagnata da interventi volti ad evitare la sofferenza, sarebbe giustificata solo alla condizione che la continuazione desse luogo ad accanimento terapeutico. Diversamente, comportando la sospensione un pericolo per la vita, si potrebbe profilare uno stato di necessità che legittimerebbe il medico a ripristinare il trattamento rifiutato, disattendendo la volontà del paziente.
Il Comitato per l’etica di fine vita ritiene tali posizioni insostenibili e contrastabili con i seguenti rilievi.
Premesso che, in presenza del rifiuto di un trattamento consapevolmente espresso da persona capace, individuare se il trattamento in questione dia o meno luogo ad accanimento terapeutico non è rilevante per definire il corretto operare del medico, va comunque sottolineato che si può ravvisare accanimento terapeutico nei casi in cui vi sia insistenza nella messa in atto di interventi e trattamenti che non apportino beneficio alla salute del malato e miglioramento alla qualità della sua vita. Si tratta della felice definizione di “accanimento terapeutico” contenuta nell’art. 14 del Codice di deontologia medica, dalla quale si può desumere che la connotazione di un trattamento come accanimento terapeutico non può essere affidata a criteri puramente clinico-oggettivi, mettendo in gioco la valutazione della “qualità della vita” garantita al malato mediante i trattamenti, valutazione che non può spettare, quando ne è capace, altro che al soggetto della cui vita si tratta. Ancor prima, e senza bisogno di una legge che definisca l’accanimento terapeutico, il medico, nello specifico caso di Welby, può trovare conferma della legittimità, e della doverosità di una linea d’azione conforme alla richiesta del paziente anche nel divieto di accanimento terapeutico come definito a livello deontologico, dal momento che la terapia di sostegno attuata garantisce al paziente la sopravvivenza, ma non una qualità della vita da lui considerata accettabile.
Sia che si affronti la questione puntando l’attenzione sul diritto del paziente ad esprimere la sua volontà sulle cure, sia che lo si affronti avendo riguardo al divieto di accanimento terapeutico, l’elemento dirimente è sempre rappresentato dal punto di vista del paziente, nel quale il medico trova un vincolo e, al tempo stesso, un imprescindibile criterio per orientare la sua azione. Di fronte al rifiuto opposto da un paziente che considera esistenzialmente insostenibile la prosecuzione di un trattamento, il medico deve operare come se quel trattamento non fosse più disponibile, e, peraltro, continuare l’assistenza con gli ulteriori mezzi disponibili, trovando sostegno nell’ulteriore prescrizione deontologica (Codice di deontologia medica, art. 37) in base alla quale «in caso di malattie a prognosi sicuramente infausta o pervenute alla fase terminale, il medico deve limitare la sua opera all’assistenza morale e alla terapia atta risparmiare inutili sofferenze».
Privo di fondamento appare, a questo punto, l’argomento che, se pur legittimato a sospendere il trattamento, il medico sarebbe poi tenuto a ripristinarlo, in nome dello stato di necessità, qualora la sua sospensione desse luogo ad una situazione di pericolo di danno grave alla persona. Posto che, per definizione, la sospensione di un sostegno vitale comporta un pericolo per la sopravvivenza, il danno da cui il medico è tenuto a preservare il paziente è quello che gli potrebbe derivare da un mancato intervento volto ad evitare sofferenze. Resta, comunque, che, in questi casi, anche a livello giuridico, sul potere/dovere di intervento previsto dall’art. 54 del codice penale, che disciplina lo stato di necessità, prevale la norma costituzionale (art. 32) che richiede il rispetto della volontà del paziente.
Premesso che, in presenza del rifiuto di un trattamento consapevolmente espresso da persona capace, individuare se il trattamento in questione dia o meno luogo ad accanimento terapeutico non è rilevante per definire il corretto operare del medico, va comunque sottolineato che si può ravvisare accanimento terapeutico nei casi in cui vi sia insistenza nella messa in atto di interventi e trattamenti che non apportino beneficio alla salute del malato e miglioramento alla qualità della sua vita. Si tratta della felice definizione di “accanimento terapeutico” contenuta nell’art. 14 del Codice di deontologia medica, dalla quale si può desumere che la connotazione di un trattamento come accanimento terapeutico non può essere affidata a criteri puramente clinico-oggettivi, mettendo in gioco la valutazione della “qualità della vita” garantita al malato mediante i trattamenti, valutazione che non può spettare, quando ne è capace, altro che al soggetto della cui vita si tratta. Ancor prima, e senza bisogno di una legge che definisca l’accanimento terapeutico, il medico, nello specifico caso di Welby, può trovare conferma della legittimità, e della doverosità di una linea d’azione conforme alla richiesta del paziente anche nel divieto di accanimento terapeutico come definito a livello deontologico, dal momento che la terapia di sostegno attuata garantisce al paziente la sopravvivenza, ma non una qualità della vita da lui considerata accettabile.
Sia che si affronti la questione puntando l’attenzione sul diritto del paziente ad esprimere la sua volontà sulle cure, sia che lo si affronti avendo riguardo al divieto di accanimento terapeutico, l’elemento dirimente è sempre rappresentato dal punto di vista del paziente, nel quale il medico trova un vincolo e, al tempo stesso, un imprescindibile criterio per orientare la sua azione. Di fronte al rifiuto opposto da un paziente che considera esistenzialmente insostenibile la prosecuzione di un trattamento, il medico deve operare come se quel trattamento non fosse più disponibile, e, peraltro, continuare l’assistenza con gli ulteriori mezzi disponibili, trovando sostegno nell’ulteriore prescrizione deontologica (Codice di deontologia medica, art. 37) in base alla quale «in caso di malattie a prognosi sicuramente infausta o pervenute alla fase terminale, il medico deve limitare la sua opera all’assistenza morale e alla terapia atta risparmiare inutili sofferenze».
Privo di fondamento appare, a questo punto, l’argomento che, se pur legittimato a sospendere il trattamento, il medico sarebbe poi tenuto a ripristinarlo, in nome dello stato di necessità, qualora la sua sospensione desse luogo ad una situazione di pericolo di danno grave alla persona. Posto che, per definizione, la sospensione di un sostegno vitale comporta un pericolo per la sopravvivenza, il danno da cui il medico è tenuto a preservare il paziente è quello che gli potrebbe derivare da un mancato intervento volto ad evitare sofferenze. Resta, comunque, che, in questi casi, anche a livello giuridico, sul potere/dovere di intervento previsto dall’art. 54 del codice penale, che disciplina lo stato di necessità, prevale la norma costituzionale (art. 32) che richiede il rispetto della volontà del paziente.
Considerazioni conclusive:
Il caso italiano di Piergiorgio Welby ha avuto un precedente nel 2002 in Gran Bretagna nel caso di “Miss B”, una signora quarantenne in una situazione clinica assimilabile a quella del sig. Welby, alla quale l’Alta Corte Inglese ha riconosciuto il diritto ad ottenere dai medici la sospensione del trattamento di ventilazione assistita. Sulla decisione hanno, in quel caso, pesato, tra gli altri, l’argomento di principio che non si può sacrificare il diritto degli individui capaci a compiere scelte fondamentali, quali sono le scelte sui trattamenti medici, in nome di un “privilegio terapeutico” che consentirebbe sempre e comunque ai medici di individuare ciò che è bene per il paziente, e l’argomento di fatto che l’offerta della migliore assistenza non è, in taluni casi, sufficiente ad evitare che un individuo affetto da una malattia gravemente invalidante e, come nel caso di Welby, pervenuta allo stadio terminale, desideri interrompere i trattamenti dai quali dipende il prolungamento della sua sopravvivenza o, forse è più appropriato dire, del suo processo del morire. Il Comitato per l’etica di fine vita ritiene che tali argomenti meritino attenta considerazione se si vorranno compiere passi significativi nella direzione che porta a superare l’atteggiamento di rimozione di cu la morta è stata, a lungo, fatta oggetto, e se si vorrà contribuire a fare della morte dignitosa l’imprescindibile completamento di una vita dignitosa.
Il caso italiano di Piergiorgio Welby ha avuto un precedente nel 2002 in Gran Bretagna nel caso di “Miss B”, una signora quarantenne in una situazione clinica assimilabile a quella del sig. Welby, alla quale l’Alta Corte Inglese ha riconosciuto il diritto ad ottenere dai medici la sospensione del trattamento di ventilazione assistita. Sulla decisione hanno, in quel caso, pesato, tra gli altri, l’argomento di principio che non si può sacrificare il diritto degli individui capaci a compiere scelte fondamentali, quali sono le scelte sui trattamenti medici, in nome di un “privilegio terapeutico” che consentirebbe sempre e comunque ai medici di individuare ciò che è bene per il paziente, e l’argomento di fatto che l’offerta della migliore assistenza non è, in taluni casi, sufficiente ad evitare che un individuo affetto da una malattia gravemente invalidante e, come nel caso di Welby, pervenuta allo stadio terminale, desideri interrompere i trattamenti dai quali dipende il prolungamento della sua sopravvivenza o, forse è più appropriato dire, del suo processo del morire. Il Comitato per l’etica di fine vita ritiene che tali argomenti meritino attenta considerazione se si vorranno compiere passi significativi nella direzione che porta a superare l’atteggiamento di rimozione di cu la morta è stata, a lungo, fatta oggetto, e se si vorrà contribuire a fare della morte dignitosa l’imprescindibile completamento di una vita dignitosa.
Il Presidente del Comitato per l’etica di fine vita
Prof.ssa Patrizia Borsellino
e-mail del Comitato per l’etica di fine vita
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