Direttive anticipate: brevi note
di Andrea Patroni Griffi
1. Quale fonte di disciplina per le direttive anticipate? L’adozione del parere del Comitato nazionale di bioetica in tema di direttive anticipate interviene in un quadro ordinamentale, in cui risulta assente ad oggi un’espressa regolazione normativa in materia, offrendo così un’importante strumento di considerazione del valore della volontà dell’individuo rispetto alle scelte tragiche dell’esistenza.
Certo, sia sul piano costituzionale – si pensi al significato che assume la dignità umana nella stessa giurisprudenza del giudice delle leggi – sia in ambito internazionale ed europeo – si pensi ai principi della Carta di Nizza o all’articolo 9 della Convenzione di Oviedo – sono deducibili norme che sembrano peraltro influenzare la stessa interpretazione di fattispecie classiche del diritto civile, consentendo forse nuove letture di disposizioni civilistiche previgenti.
C’è chi – è il ministro della Salute Girolamo Sirchia – ha considerato il parere il “primo passo per la formulazione di una legge sul testamento biologico”. In realtà, occorre qui distinguere nettamente sedi ed esercizio di funzioni ontologicamente assai distanti: una cosa, come è ovvio, sono il Comitato nazionale di bioetica e i pareri che esso adotta nell’esercizio delle proprie funzioni; altra cosa è il potere di legiferare del Parlamento in cui siedono i “rappresentanti della Nazione”.
Peraltro, la recente esperienza della legge n. 40/2004 in tema di procreazione medicalmente assistita mostra alcuni limiti, insiti all’adozione di normative di legge su temi tanto delicati quali quelli della bioetica. La certezza del diritto e, al contempo, il necessario ambito di flessibilità, “morbidezza” della regolazione giuridica costituiscono espressione di esigenze, ma prima ancora di valori, che dovrebbero permeare la disciplina normativa di ogni questione attinente alle bioetiche.
In tal senso, il cosiddetto “diritto giurisprudenziale”, la normativa deontologica, l’esercizio di funzione consultiva da parte di organismi tecnici pongono alcuni dubbi sul piano della tenuta del principio di certezza del diritto da un lato e costituiscono manifestazione di decisioni prese in sedi prive di rappresentanza nella regolazione di questioni dal forte significato politico; ma, al contempo, sono espressione di quella regolazione morbida, soft law, che consente meglio di sedimentare nella coscienza sociale una maggiore consapevolezza della problematicità delle questioni investite.
Il ricorso alla norma legislativa, dunque, in via di esemplificazione, potrà, e dovrà, esservi in materia di direttive anticipate, non avendo però la presunzione di regolare troppo nel dettaglio i contenuti e le forme della legittima dichiarazione di volontà dell’individuo, affidando invece al giudice, quale interprete privilegiato, quei necessari spazi ermeneutici, che soli consentono di garantire un certo grado di rispondenza della norma giuridica alla coscienza sociale e al mutare della stessa. L’obiettivo in termini di certezza del diritto, che non può non prefiggersi una futura disciplina legislativa in tema di direttive anticipate di fine vita, deve essere quello di delineare spazi “certi” all’autodeterminazione dell’individuo, senza però arrivare poi, proprio in nome di tale obiettivo dichiarato, a comprometterli nel concreto.
2. Direttive anticipate e dibattito sull’eutanasia. La stretta connessione tra il tema delle direttive anticipate e il dibattito sull’eutanasia è evidente; ma del pari evidente è la constatazione che la complessa e poliedrica questione eutanasica, che in realtà riguarda fattispecie tra loro molto diverse, non è di certo limitata al mero interrogativo circa l’ammissibilità delle direttive anticipate.
Questa non è la sede per svolgere anche solo un rapido cenno al dibattito sull’eutanasia. Sennonché è importante sottolineare come proprio la risposta all’interrogativo se la morte sia sempre e solo mero evento che si subisce o possa diventare oggetto di libertà – e di quale tipo di libertà - acquista chiara rilevanza giuridica sul piano del contenuto che possono assumere le direttive anticipate nel rispetto del vigente quadro legislativo penale, che prevede le fattispecie di aiuto al suicidio e di omicidio del consenziente. Semmai poi oggi si pone il problema di capire quale sia il campo di applicazione di tali reati. E’ indubbio infatti che il giudizio di disvalore sociale di certi comportamenti sia mutato nella coscienza collettiva, come emerge peraltro nella più recente giurisprudenza penalistica, resa a codice vigente, dove è ricorrente il sanzionamento di tali vicende con pene davvero minime oppure la stessa esclusione della rilevanza penale di tali condotte.
Nel parere reso dal Comitato nazionale di bioetica c’è un’espressa opzione contraria all’introduzione del ricorso all’eutanasia nelle direttive. Ciò non significa però che spazi per “decisioni di fine vita” siano assenti nel contenuto delle direttive anticipate.
E’ possibile qui solo rilevare come nel caso di direttive anticipate che dispongano nelle situazioni di fine vita diversi possano essere i valori in bilanciamento nelle differenti ipotesi.
Una cosa è la libertà di cura, che nel suo possibile contenuto può giungere ad includere la libertà di non curarsi sino alla produzione dell’evento morte, oppure la sospensione di cure di life sustaining; fattispecie “altre” sono, invece, il suicidio medicalmente assistito o i casi in cui ci si attiva per produrre l’evento morte, fermo restando il divieto dell’accanimento terapeutico. E’ certo poi che, nell’esperienza medica e di conseguenza nella casistica giurisprudenziale, la linea di confine tra queste diverse vicende non sempre viene individuata con facilità e frequenti sono i casi, che risulta complesso ascrivere all’una o altra categoria di vicende di fine vita.
In definitiva, in piena aderenza al valore personalista della nostra Costituzione e con il definitivo superamento di ogni residua tentazione della medicina paternalistica, la volontà del paziente, contenuta nelle direttive anticipate, non può non costituire, già a legislazione vigente, un elemento fondamentale di valutazione nell’operare il bilanciamento tra il diritto alla vita - che non può essere inteso nel nostro ordinamento tout court anche come diritto sulla vita, in quanto essa è bene indisponibile - e la dignità della persona nell’intero arco della propria esistenza sino al prodursi dell’evento morte.
L’avere fatto ricorso a direttive anticipate può così acquisire valore nella predisposizione di quelle terapie sulle quali il malato, se ne fosse stato in grado, avrebbe potuto direttamente esprimersi mediante consenso informato; così, in particolare, nel garantire il diritto alla libertà dal dolore, mediante il ricorso a cure palliative e alla terapia del dolore oppure per aiutare ad individuare la soglia vietata dell’accanimento terapeutico. Si può allora dire che le direttive anticipate possono divenire strumento per l’introduzione di una forma di “interruzione volontaria della sopravvivenza”, soltanto laddove nella disponibilità della volontà dell’individuo possa rientrare il rifiuto al ricorso alle cure.
Il riconoscimento delle direttive anticipate non consente dunque di disporre più di quanto è rimesso nel nostro ordinamento all’autodeterminazione della persona; permette però di fare acquisire valore alla dichiarazione di volontà di una persona che semmai non sarà più in grado, nel verificarsi di un certo accadimento, di prestarla. In tal senso, parafrasando D’Agostino, si può dire che “la vera posta in gioco nel dibattito sul testamento biologico (non può essere) la legalizzazione dell’eutanasia”, ferma restando la complessità di fattispecie di direttive anticipate relative a vicende che potranno semmai portare a disposizioni di volontà pro futuro per i casi più controversi, quali il rifiuto di nutrizione artificiale o di emotrasfusioni.
Certo, sia sul piano costituzionale – si pensi al significato che assume la dignità umana nella stessa giurisprudenza del giudice delle leggi – sia in ambito internazionale ed europeo – si pensi ai principi della Carta di Nizza o all’articolo 9 della Convenzione di Oviedo – sono deducibili norme che sembrano peraltro influenzare la stessa interpretazione di fattispecie classiche del diritto civile, consentendo forse nuove letture di disposizioni civilistiche previgenti.
C’è chi – è il ministro della Salute Girolamo Sirchia – ha considerato il parere il “primo passo per la formulazione di una legge sul testamento biologico”. In realtà, occorre qui distinguere nettamente sedi ed esercizio di funzioni ontologicamente assai distanti: una cosa, come è ovvio, sono il Comitato nazionale di bioetica e i pareri che esso adotta nell’esercizio delle proprie funzioni; altra cosa è il potere di legiferare del Parlamento in cui siedono i “rappresentanti della Nazione”.
Peraltro, la recente esperienza della legge n. 40/2004 in tema di procreazione medicalmente assistita mostra alcuni limiti, insiti all’adozione di normative di legge su temi tanto delicati quali quelli della bioetica. La certezza del diritto e, al contempo, il necessario ambito di flessibilità, “morbidezza” della regolazione giuridica costituiscono espressione di esigenze, ma prima ancora di valori, che dovrebbero permeare la disciplina normativa di ogni questione attinente alle bioetiche.
In tal senso, il cosiddetto “diritto giurisprudenziale”, la normativa deontologica, l’esercizio di funzione consultiva da parte di organismi tecnici pongono alcuni dubbi sul piano della tenuta del principio di certezza del diritto da un lato e costituiscono manifestazione di decisioni prese in sedi prive di rappresentanza nella regolazione di questioni dal forte significato politico; ma, al contempo, sono espressione di quella regolazione morbida, soft law, che consente meglio di sedimentare nella coscienza sociale una maggiore consapevolezza della problematicità delle questioni investite.
Il ricorso alla norma legislativa, dunque, in via di esemplificazione, potrà, e dovrà, esservi in materia di direttive anticipate, non avendo però la presunzione di regolare troppo nel dettaglio i contenuti e le forme della legittima dichiarazione di volontà dell’individuo, affidando invece al giudice, quale interprete privilegiato, quei necessari spazi ermeneutici, che soli consentono di garantire un certo grado di rispondenza della norma giuridica alla coscienza sociale e al mutare della stessa. L’obiettivo in termini di certezza del diritto, che non può non prefiggersi una futura disciplina legislativa in tema di direttive anticipate di fine vita, deve essere quello di delineare spazi “certi” all’autodeterminazione dell’individuo, senza però arrivare poi, proprio in nome di tale obiettivo dichiarato, a comprometterli nel concreto.
2. Direttive anticipate e dibattito sull’eutanasia. La stretta connessione tra il tema delle direttive anticipate e il dibattito sull’eutanasia è evidente; ma del pari evidente è la constatazione che la complessa e poliedrica questione eutanasica, che in realtà riguarda fattispecie tra loro molto diverse, non è di certo limitata al mero interrogativo circa l’ammissibilità delle direttive anticipate.
Questa non è la sede per svolgere anche solo un rapido cenno al dibattito sull’eutanasia. Sennonché è importante sottolineare come proprio la risposta all’interrogativo se la morte sia sempre e solo mero evento che si subisce o possa diventare oggetto di libertà – e di quale tipo di libertà - acquista chiara rilevanza giuridica sul piano del contenuto che possono assumere le direttive anticipate nel rispetto del vigente quadro legislativo penale, che prevede le fattispecie di aiuto al suicidio e di omicidio del consenziente. Semmai poi oggi si pone il problema di capire quale sia il campo di applicazione di tali reati. E’ indubbio infatti che il giudizio di disvalore sociale di certi comportamenti sia mutato nella coscienza collettiva, come emerge peraltro nella più recente giurisprudenza penalistica, resa a codice vigente, dove è ricorrente il sanzionamento di tali vicende con pene davvero minime oppure la stessa esclusione della rilevanza penale di tali condotte.
Nel parere reso dal Comitato nazionale di bioetica c’è un’espressa opzione contraria all’introduzione del ricorso all’eutanasia nelle direttive. Ciò non significa però che spazi per “decisioni di fine vita” siano assenti nel contenuto delle direttive anticipate.
E’ possibile qui solo rilevare come nel caso di direttive anticipate che dispongano nelle situazioni di fine vita diversi possano essere i valori in bilanciamento nelle differenti ipotesi.
Una cosa è la libertà di cura, che nel suo possibile contenuto può giungere ad includere la libertà di non curarsi sino alla produzione dell’evento morte, oppure la sospensione di cure di life sustaining; fattispecie “altre” sono, invece, il suicidio medicalmente assistito o i casi in cui ci si attiva per produrre l’evento morte, fermo restando il divieto dell’accanimento terapeutico. E’ certo poi che, nell’esperienza medica e di conseguenza nella casistica giurisprudenziale, la linea di confine tra queste diverse vicende non sempre viene individuata con facilità e frequenti sono i casi, che risulta complesso ascrivere all’una o altra categoria di vicende di fine vita.
In definitiva, in piena aderenza al valore personalista della nostra Costituzione e con il definitivo superamento di ogni residua tentazione della medicina paternalistica, la volontà del paziente, contenuta nelle direttive anticipate, non può non costituire, già a legislazione vigente, un elemento fondamentale di valutazione nell’operare il bilanciamento tra il diritto alla vita - che non può essere inteso nel nostro ordinamento tout court anche come diritto sulla vita, in quanto essa è bene indisponibile - e la dignità della persona nell’intero arco della propria esistenza sino al prodursi dell’evento morte.
L’avere fatto ricorso a direttive anticipate può così acquisire valore nella predisposizione di quelle terapie sulle quali il malato, se ne fosse stato in grado, avrebbe potuto direttamente esprimersi mediante consenso informato; così, in particolare, nel garantire il diritto alla libertà dal dolore, mediante il ricorso a cure palliative e alla terapia del dolore oppure per aiutare ad individuare la soglia vietata dell’accanimento terapeutico. Si può allora dire che le direttive anticipate possono divenire strumento per l’introduzione di una forma di “interruzione volontaria della sopravvivenza”, soltanto laddove nella disponibilità della volontà dell’individuo possa rientrare il rifiuto al ricorso alle cure.
Il riconoscimento delle direttive anticipate non consente dunque di disporre più di quanto è rimesso nel nostro ordinamento all’autodeterminazione della persona; permette però di fare acquisire valore alla dichiarazione di volontà di una persona che semmai non sarà più in grado, nel verificarsi di un certo accadimento, di prestarla. In tal senso, parafrasando D’Agostino, si può dire che “la vera posta in gioco nel dibattito sul testamento biologico (non può essere) la legalizzazione dell’eutanasia”, ferma restando la complessità di fattispecie di direttive anticipate relative a vicende che potranno semmai portare a disposizioni di volontà pro futuro per i casi più controversi, quali il rifiuto di nutrizione artificiale o di emotrasfusioni.
3. Efficacia delle direttive anticipate.
E’ stato sottolineato come le direttive anticipate costituiscano la nuova frontiera del consenso informato (Prodomo). E’ evidente però che la non attualità temporale del consenso rispetto al verificarsi degli eventi, anche ipotetici, che si intendono regolare pone ai giuristi questioni ulteriori rispetto a quelle classiche del consenso informato. Tra il consenso informato relativo ad eventi presenti e certi e la decisione presa in considerazione di un evento futuro e, semmai, incerto intercorre una differenza sostanziale sul piano giuridico. In tal senso, la direttiva più che una manifestazione di consenso si sostanzia in un’anticipazione di consenso, data, come dire, rebus sic stantibus e in quanto tale revocabile ovvero, per così dire, a certe condizioni, “superabile”.
Il fatto che si sia preferito fare qui riferimento non a espressioni quali testamento di vita, biologico o altre, bensì al termine direttive anticipate ed utilizzare un tale nomen juris vuole fare emergere quale elemento significativo della natura di queste dichiarazioni la loro natura per l’appunto di “direttive”, come tali vincolanti relativamente alla direzione che indicano, ma non necessariamente in tutto il loro contenuto, che peraltro non potrà non formare oggetto di valutazione e interpretazione in primis da parte dello stesso medico.
Sono noti i caratteri che il consenso informato deve rivestire per potere essere legittimamente prestato nel nostro ordinamento. E’ chiaro che le stesse esigenze di informazione siano presenti quali requisiti essenziali per prestare in maniera valida le dichiarazioni di volontà contenute nelle direttive anticipate. Queste non possono essere validamente redatte senza la piena conoscenza del significato di quanto si dispone. E si può entrare in possesso di tale conoscenza solo se si è in grado di accedere e di recepire informazioni complete nel contenuto e semplici nel linguaggio, pure se riguardanti fatti di natura medico-scientifica.
E’ questo un ulteriore punto che appare come fondamentale, anche al fine di evitare che il ricorso alle direttive anticipate sia messo nella concreta disponibilità solo di chi è culturalmente attrezzato a ricevere informazioni dall’elevato tasso tecnico-scientifico, con discriminazione di tutti coloro che per un handicap culturale non fossero in grado di ricorrere ad un tale strumento di autoderminazione preventiva della propria salute.
E’ stato sottolineato come le direttive anticipate costituiscano la nuova frontiera del consenso informato (Prodomo). E’ evidente però che la non attualità temporale del consenso rispetto al verificarsi degli eventi, anche ipotetici, che si intendono regolare pone ai giuristi questioni ulteriori rispetto a quelle classiche del consenso informato. Tra il consenso informato relativo ad eventi presenti e certi e la decisione presa in considerazione di un evento futuro e, semmai, incerto intercorre una differenza sostanziale sul piano giuridico. In tal senso, la direttiva più che una manifestazione di consenso si sostanzia in un’anticipazione di consenso, data, come dire, rebus sic stantibus e in quanto tale revocabile ovvero, per così dire, a certe condizioni, “superabile”.
Il fatto che si sia preferito fare qui riferimento non a espressioni quali testamento di vita, biologico o altre, bensì al termine direttive anticipate ed utilizzare un tale nomen juris vuole fare emergere quale elemento significativo della natura di queste dichiarazioni la loro natura per l’appunto di “direttive”, come tali vincolanti relativamente alla direzione che indicano, ma non necessariamente in tutto il loro contenuto, che peraltro non potrà non formare oggetto di valutazione e interpretazione in primis da parte dello stesso medico.
Sono noti i caratteri che il consenso informato deve rivestire per potere essere legittimamente prestato nel nostro ordinamento. E’ chiaro che le stesse esigenze di informazione siano presenti quali requisiti essenziali per prestare in maniera valida le dichiarazioni di volontà contenute nelle direttive anticipate. Queste non possono essere validamente redatte senza la piena conoscenza del significato di quanto si dispone. E si può entrare in possesso di tale conoscenza solo se si è in grado di accedere e di recepire informazioni complete nel contenuto e semplici nel linguaggio, pure se riguardanti fatti di natura medico-scientifica.
E’ questo un ulteriore punto che appare come fondamentale, anche al fine di evitare che il ricorso alle direttive anticipate sia messo nella concreta disponibilità solo di chi è culturalmente attrezzato a ricevere informazioni dall’elevato tasso tecnico-scientifico, con discriminazione di tutti coloro che per un handicap culturale non fossero in grado di ricorrere ad un tale strumento di autoderminazione preventiva della propria salute.