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MANIFESTO PER UNA BIOETICA LIBERALE
 
E’ possibile nel nostro paese una bioetica liberale, una bioetica – intendo – che ponga deliberatamente al suo centro il valore dell’autonomia individuale, che riconosca una netta divisione tra sfera della morale e sfera della legge, che coltivi un autentico pluralismo etico?


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La nascita è sempre "culturale"
Maria Antonietta La Torre
La nascita è da sempre un evento tutt’altro che interamente naturale e anzi squisitamente culturale; ciascuno, divenendo madre e padre, arricchisce e in certa misura altera, antropologizzandola, la dinamica della riproduzione strettamente biologica. Il venire alla luce, l’essere partoriti, non costituisce un mero accadimento clinico, bensì, essendo il venire al mondo non solo di qualcosa, ma di qualcuno, rappresenta una novità assoluta e imprevedibile e di importanza essenziale. Il parto ha sempre avuto per l’umanità una dimensione simbolica, ma anche etica, psicologica, sociale, assai complessa, rispetto alla quale le attività “strumentali” di assistenza medica e paramedica prestate in suo favore appaiono accessorie; eppure, da quella strumentalità dipendono in molti casi la vita e la morte della madre e del bambino e questa “artificialità” è considerata un successo della medicina. Le attuali resistenze insinuano invece un nuovo dubbio sul potere e la liceità dell’operato della scienza, trasformando il “sacro” compito dell’allargamento della conoscenza in un pericolo. Sembra, infatti, che le pratiche finalizzate al controllo delle nascite e alla procreazione artificiale/assistita non siano considerate tout court successi della scienza biomedica, a differenza di altre scoperte, ad esempio quelle volte alla cura delle malattie: su di esse ciascuno ritiene di poter formulare giudizi di merito e di valore, trascurando di considerare che anche la sterilità è una patologia, ossia una condizione anomala rispetto al normale “funzionamento” dell’organismo.
La capacità di riflessione morale è forse l’unica cosa che ci distingue dagli altri viventi ed è ciò che maggiormente ci allontana dalla natura, eppure la natura viene trasformata in una sorta di entità normativa, in grado di “dirci” che cosa è lecito o non è lecito fare. Ma perché mai dovrebbe essere moralmente rilevante l’intervento artificiale sulla nascita, solo per il fatto di essere, appunto, artificiale? Quale giustificazione razionale ha l’affermazione (che sembra piuttosto appartenere alla sfera degli assiomi o del sentimento che non a quella delle argomentazioni) che il processo procreativo secondo natura è quello “giusto”? Esso è appunto naturale, ma non “giusto”, in quanto una simile valutazione appartiene ad altra sfera: quella della scelta (che non si limita a seguire i processi naturali, i quali non prevedono una scelta) e della valutazione della condotta, mentre ciò che avviene “secondo natura” precede (in senso logico e non temporale) la scelta.
Indubbiamente le nuove strumentazioni tecnologiche consentono “violazioni” della “natura” un tempo impensabili e quindi sollevano questioni inedite e talvolta sconcertanti. Per giunta tali interventi “artificiali” producono una sorta di frammentazione di un evento che nella sua complessità è ben più che la somma di una serie di procedure, poiché gli aspetti biologico, sociale, psicologico sono strettamente connessi, così come il legame genitoriale è una somma di fattori genetici, gestazionali, sociali. E l’esigenza di una riflessione bio-etica è sorta proprio dalla consapevolezza della insostenibilità della pretesa autoreferenziale della scienza, che necessita di criteri di giudizio della liceità che non possono essere ricondotti semplicemente al mito della tecnica e del progresso. Tuttavia, talvolta la riflessione (e con essa la legislazione) è inficiata da pregiudiziali ideologiche le quali non rispondono autenticamente al bisogno di benessere dell’umanità e alla richiesta di tenere in considerazione tutti i fattori in gioco, ma essenzialmente a rassicurare rispetto al nuovo, che è dirompente e perciò destabilizzante dell’ordine sociale e morale precostituito.
La medicina e la scienza devono orientare il proprio cammino, oltre che sulle proprie competenze interne, sugli interessi del più ampio numero possibile di individui e sui progetti di vita che questi formulano, il cui compimento esse possono facilitare. Le richieste, se motivate, meritano tutte adeguata considerazione. Nel Parere su “Venire al mondo” del 15 dicembre 1995, il Comitato nazionale per la bioetica ha affermato che “Le decisioni si prendono all’incrocio tra principi etici e realtà delle situazioni”. Ora, non sembra che tale ragionevole prospettiva sia sempre presente nei tentativi del legislatore di determinare rigidamente il lecito: molte volte il “senso comune”, che esso si sforza di assecondare, si sente offeso o colpito da qualcosa semplicemente perché è una novità che esula dalla norma sino a quel momento valida a garantire l’ordine sociale. E’ evidente che rispettando tali timori molti progressi non sarebbero stati realizzati.
Ogni pretesa di “mappatura” e regolamentazione dettagliata dei possibili casi, specie in un’epoca di rapidissima evoluzione delle tecniche, è destinata a disattendere le esigenze di donne e uomini reali se si chiude alla negoziazione e dimentica che nelle questioni morali il mero criterio della maggioranza non può avere cittadinanza. Nel “Manifesto per la libertà di procreare” elaborato dalla Consulta di Bioetica e dal Centro Studi Politeia si legge che “chi lo desidera può vedere nella donazione di ovuli e spermatozoi una profanazione. Ma chi non condivide quelle concezioni deve essere libero di considerare queste cose alla stregua della donazione del sangue e degli organi. Alle leggi chiediamo che mettano le condizioni per limitare i danni certi e non per configurare danni presunti, quali possono essere quelli derivanti da assunzioni soggettive sull’ordine della ‘natura’.” Persiste, invece, in alcuni Stati contemporanei, una sorta di “paternalismo” del legislatore nel voler decidere minuziosamente in questioni assai private. Ciò che è sotteso nel caso della nascita è un ancestrale primato del legame “di sangue”, il quale contraddice, per altro, il diritto di famiglia, che riconosce pari dignità a figli adottivi, concepiti fuori del matrimonio, ecc.. Quali maggiori garanzie fornisce in tal caso la “natura”? Forse che la riproduzione “secondo natura” assicura maggiore responsabilità da parte dei genitori? E la genitorialità adottiva non è altrettanto artificiale (ma altrettanto fortemente voluta e quindi, almeno in teoria, più responsabile), sebbene analogamente separi il concepimento e la genitorialità, eppure socialmente incentivata e approvata? Si teme una strumentalizzazione della nascita, ma è segno più evidente di strumentalizzazione intervenire con provette oppure assicurare incentivi economici alla procreazione? Si pretende di garantire al bambino nato grazie alla procreazione medicalmente assistita diritti e garanzie che non ci si preoccupa di assicurare ai bambini nati “secondo natura”.
Le leggi hanno soltanto il compito di regolare le condotte e non di affermare dei valori (o addirittura imporli), arrogandosi il compito di controllare la sfera della vita morale. Le tecniche per la procreazione medicalmente assistita non sono solo un’alterazione della “natura”, ma una risposta terapeutica a problemi fisiologici e anche un metodo per soddisfare desideri legittimi. Il già citato “Manifesto per la libertà di procreare” sottolinea che “la fecondazione assistita è stata messa a punto come rimedio alla sterilità e in quanto terapia essa non dovrebbe suscitare riserve in nessuno” e sostiene che la libertà di procreazione è uno dei diritti fondamentali della persona perché la realizzazione di tale obiettivo è determinante per il significato della vita e per l’identità di ciascuno. Non vi è dunque alcuna differenza se tale diritto viene esercitato con mezzi naturali o artificiali. Anche il controllo delle nascite attraverso la contraccezione è artificiale, ma, ad esclusione di quanti seguono speciali fedi religiose, non viene più considerato un tabù innaturale e, anzi, è fortemente incentivato nei paesi ove l’incremento della popolazione non è auspicabile. Non solo, quindi, quando si impongano regolamentazioni restrittive, si configura una discriminazione rispetto ad altre patologie per le quali si consente di adoperare qualsiasi mezzo utile, ma si trascura che simili tecniche favoriscono la possibilità di raggiungere l’ottimizzazione del benessere e della felicità. Se progresso è ogni pratica che consenta di accrescere l’armonia e di promuovere la realizzazione individuale, facilitare la generazione non solo è un obbligo, ma è senza dubbio un valore. La tentazione di porre dei limiti, per i quali non si trova altra motivazione che confini labili quali la definizione di “natura” o pregiudizi ideologici, nasce dal timore, forse, di non saper noi stessi valutare, controllare effetti e conseguenze, oppure da un malinteso paternalismo che esprime sfiducia nel cittadino e dimentica che la richiesta di certi interventi proviene da chi ha un vissuto di sofferenza, quel che la medicina ha come obiettivo di evitare. Favorire scelte libere e responsabili, non ostacolando la scienza, ma consentendo il controllo da parte dell’opinione pubblica, che non è in una condizione di minorità suscettibile di tutela, è l’unico compito che uno stato di diritto possa legittimamente assumere.
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