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MANIFESTO PER UNA BIOETICA LIBERALE
 
E’ possibile nel nostro paese una bioetica liberale, una bioetica – intendo – che ponga deliberatamente al suo centro il valore dell’autonomia individuale, che riconosca una netta divisione tra sfera della morale e sfera della legge, che coltivi un autentico pluralismo etico?


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Amedeo Santosuosso

Corpi e soggetti: l’invenzione del sé, tra biotecnologie e categorie giuridico-politiche

(Giudice presso la Corte d’Appello di Milano; Presidente dello European Centre for Life Sciences, Health and the Courts dell’Università di Pavia - Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.)

(da Storia delle donne, 1 (2005), pp. 13-37, http://epress.unifi.it/riviste/sdd, ISSN 1826-7505, © 2005 Firenze University Press http://epress.unifi.it, per gentile concessione del Direttore della rivista, prof. Dinora Corsi e dell’Editore)

Abstract: The historical background of family relationship is outlined from a legal point of view. Then the impact of new biotechnologies, with special regard to the in vitro fertilization, is deeply discussed. Finally the question of who is the owner of rights and liberties (a fundamental issue that is constantly on the constitutional agenda and that has nowadays acquired new intensity due to the impact of life sciences and biotechnologies) is considered. After the end of the patriarchal legal systems and the progressive recognition of individual rights, such as racial, sexual, religious, and anti-discrimination rights, the question about who the (biological) entity is that these rights and liberties belong to seemed to have been solved for ever. Yet the question has again emerged in the last few decades.

La storia recente della regolamentazione giuridica dei rapporti uomo-donna, dei rapporti familiari e della filiazione mi pare che possa essere divisa in tre fasi, corrispondenti a tre livelli di problemi. La prima fase è quella che potremmo definire prima dell’uragano dell’uguaglianza e della libertà (paragrafo1), e giunge fino agli anni Settanta del secolo scorso, caratterizzata dagli ultimi residui di immobilità dei rapporti familiari basati su una ritenuta normatività naturale e assestati su un presupposto individualistico-autoritario, che trae le sue origini dal Codice Napoleone e che è inasprita in Italia nel periodo fascista. La seconda è quella della uguaglianza, della libertà e della artificialità nei rapporti familiari e di discendenza (paragrafi 2-6), ed è caratterizzata dal pressoché contemporaneo (nell’arco di un decennio) smantellamento delle disuguaglianze giuridiche (in Italia la legge di riforma del diritto di famiglia –1975– e una serie di sentenze della Corte Costituzionale), di affermazione della libertà rispetto al proprio corpo e di apertura delle possibilità date dalla fecondazione extracorporea (1978). La terza fase (paragrafo 7) è quella in corso, in cui numerosi elementi già presenti in precedenza si compongono in un quadro nel quale, acquisita (la possibilità de) l’artificialità in biologia, un profondo ripensamento delle categorie giuridico-politiche e di elaborazione culturale coinvolge concetti di base che si ritenevano immutabili o che erano dati per acquisiti come punto di riferimento: individuo, discendenza, accesso al contratto sociale, sono i principali.[i]
1. Prima dell’uragano
Il Codice Civile del 1939, per la parte relativa alla famiglia, è sensibile alla ideologia autoritaria dell’epoca e, per alcuni aspetti, costituisce un arretramento rispetto al precedente codice di epoca liberale: la famiglia è cellula costitutiva dell’organizzazione dello Stato; il padre-marito ne è il capo; egli è l’unico responsabile verso lo Stato per «l’indirizzo educativo conforme al sentimento nazionale fascista» ed è investito dell’autorità che gli deriva dalla patria potestà e dalla potestà maritale sulla moglie. Il Codice Penale del 1930 dà manforte punendo l’adulterio soltanto quando è commesso dalla moglie, secondo una visione sulla quale la Corte Costituzionale, ancora negli anni Sessanta, non ha nulla da obiettare: «la maggiore gravità della offesa che il legislatore, in conformità della comune opinione, riscontra nella infedeltà della moglie […] che conceda i suoi amplessi a un estraneo» e il pericolo della «introduzione nella famiglia di prole non appartenente al marito e che a lui viene attribuita per presunzione di legge» sono in linea con il principio di uguaglianza, se si parte dal presupposto (come fa la Corte) della situazione diversa che vi è tra uomo e donna.[ii]
L’affermazione giuridica della paternità è formale. Il padre del figlio nato durante il matrimonio è il marito della donna che ha partorito.La formula del Codice Civile del 1939, tuttora vigente, («il marito è il padre del figlio concepito durante il matrimonio»: articolo 231 Codice Civile) è un caleidoscopio di slittamenti di significato: è la posizione di marito che produce quella di padre ed è il concepimento durante il matrimonio che accredita il marito quale padre, mentre tutto ruota intorno alla donna-moglie-madre che, paradossalmente, rimane innominata. La paternità è tanto importante per l’ordine sociale da dover essere affermata (presunzione di paternità), accettando il rischio che chi è padre per il diritto non sia la persona che abbia, di fatto, contribuito alla procreazione. La donna coniugata è in una posizione di implicita centralità alla quale paga però il prezzo di non poter riconoscere un nato da sé come figlio naturale. È questa la tradizionale prospettiva secondo la quale la paternità riguarda la discendenza nei suoi aspetti non fisiologici, diversi e lontani dal fatto della generazione. D’altra parte, a dispetto di certa retorica sul vincolo di sangue, il fatto della procreazione nei suoi connotati fisiologici (dall’atto sessuale al parto), appare, se visto dalla posizione che il diritto assegna al padre, come un evento lontano, che si perde tra le cose difficili da ricostruire con precisione. Di qui il ricorso a elementi noti e accertabili (come un matrimonio legittimamente stipulato), per giungere a stabilire un fatto ignoto, la procreazione appunto.[iii]
I confini della famiglia sono rigidi e formali. La prole nata fuori dal matrimonio è bollata come illegittima, a differenza del precedente Codice (1865), che usava l’espressione più neutra di «nati fuori dal matrimonio». Anche l’adozione (fino al 1967) non allarga i confini della famiglia, visto che la sua principale finalità resta quella di «procurare all’adottato il beneficio patrimoniale di poter essere erede legittimo o legittimario dell’adottante, oltre che dei propri genitori e degli altri parenti» (Corte Cassazione 5 novembre 1959, n. 3277). Di fatto, in buona parte dei casi (il 42% a metà degli anni Cinquanta), gli adottati sono maggiorenni che conservano i rapporti giuridici e affettivi con la famiglia dei genitori e che possono accedere a una successione usufruendo di un regime fiscale nettamente vantaggioso.
Per la gran massa di figli adulterini, ai quali non è consentito l’ingresso in casa e che non possono essere riconosciuti né adottati, vi sono scarse possibilità di inserimento in una famiglia diversa. Il codice lascia aperta la via dell’affiliazione, un istituto debole, una sorta di “piccola adozione” come è chiamata da alcuni: essa non crea rapporti familiari sostitutivi di quelli venuti meno o mai sorti, ma assicura una forma di assistenza, meno precaria del ricovero in un istituto. La via dell’affiliazione è ampiamente percorsa, se si considera che dal 1939 al 1961 ve ne sono 43.463, al ritmo di oltre 2.500 l’anno, negli anni Cinquanta.
In sintesi, sia l’adozione che l’affiliazione hanno in comune «il fatto materiale dell’assunzione di un estraneo nell’ambito di una famiglia», nel linguaggio ruvido della Relazione al Re sul Codice Civile.
All’interno del matrimonio è rigidamente fissato il modo in cui ci si riproduce, secondo tre punti di riferimento: il Codice Civile, il Codice Penale e, sullo sfondo, ispiratrice, la Chiesa cattolica dell’enciclica Casti connubii (1930). La posizione cattolica, fondata sull’idea di ordine naturale voluto da Dio, porta alla condanna insieme di molte cose: dalle sterilizzazioni coatte dell’eugenica al divorzio, dall’aborto a qualsiasi tipo di controllo delle nascite, senza distinguere tra sterilizzazione o aborto coatti e volontari, tra contraccezione volontaria e divieto legale di contrarre matrimonio. La riproduzione deve quindi avvenire in modo “naturale”. I singoli possono autolimitare la propria capacità riproduttiva, ma solo con la scelta della «continenza volontaria esercitata per amore del Regno dei cieli». È esclusa, quindi, la sterilizzazione volontaria perché realizza uno «sdoppiamento della funzione copulativa da quella generativa», che permetterebbe alle donne «di godere sessualmente evitando le noie della gravidanza e i dolori e i pericoli del parto». Questa idea di Agostino Gemelli ha un’esplicita sanzione penale tra i «delitti contro l’integrità e la sanità della stirpe», con una pena fino a due anni di reclusione (articolo 552 del Codice Penale).
Non è lecita la contraccezione «perché illecitamente e disonestamente si sta anche con la legittima sposa, quando si impedisce il frutto della prole. Cosi faceva Onan, figlio di Giuda, e per tal motivo Dio lo tolse di vita», secondo le parole di Agostino riprese dalla Casti connubii. E il Codice Penale fa la sua parte punendo l’incitamento e la propaganda di pratiche contro la procreazione con una norma che la Corte Costituzionale, ancora nel 1965, considera legittima e non in contrasto con la libertà di manifestazione del pensiero.[iv] Non è lecito l’aborto e non è lecito, al momento del parto, sopprimere il feto, anche se ciò fosse reso necessario per la sopravvivenza della madre, perché viola il comandamento «non occides», ribadito dalla Casti connubii e da Pio XII nei suoi discorsi. Non è lecita la fecondazione della donna con modalità diverse da quelle naturali. È equiparabile all’adulterio e provoca turbatio sanguinis, violando il fondamento biologico di ogni rapporto di filiazione: non licet per la Chiesa dal 1897 e per i giudici negli anni Cinquanta.
A questo quadro giuridico, che pretende di far coincidere pienamente dato formale e dato biologico, corrisponde un quadro delle conoscenze biologiche sulla riproduzione, che è particolarmente limitato. All’inizio degli anni Sessanta, lo ricorda come esperienza vissuta Carlo Flamigni, per sapere se una donna era gravida si ricorreva ad alcuni test biologici che avevano un ampio margine di errore:
Si adoperavano rospi o rane, maschi (ogni ospedale aveva un terrario per questi animali): la tecnica consisteva nell’iniettare una piccola quantità di urine della donna nel sacco linfatico dorsale, per verificare poi se, come reazione alla presenza dell’ormone della gravidanza, si trovavano spermatozoi nella cloaca, cosa che d’abitudine capita a questi animali solo in un breve periodo primaverile.
In ginecologia, al di fuori dello stato di gravidanza, la possibilità di dosare gli ormoni era puramente teorica; in campo terapeutico le condizioni erano ancora peggiori.[v] Tale arretratezza non investiva solo l’Italia. Nel 1960 Carl Gottfried Hartman, raccogliendo in uno schema i problemi non risolti, scriveva:
Più di 150 domande vengono proposte in questo compendio. Esse rappresentano iati nella nostra conoscenza dei processi riproduttivi dell’uomo e di altri mammiferi […]. Questo comprensivo, anche se incompleto, inventario delle falle della nostra comprensione della riproduzione, raccolto per la prima volta ad opera degli sforzi riuniti di diverse autorità internazionalmente riconosciute, servirà per molti utili scopi.[vi]
2. Liberi e uguali
Dalla fine degli anni Sessanta l’idea di uguaglianza irrompe nelle relazioni familiari e travolge gerarchie e disparità. Sono clamorosi i ripensamenti della Corte Costituzionale sull’adulterio e sulla contraccezione. La Corte, che nel 1961 aveva confermato la disparità di trattamento tra uomo e donna nell’adulterio, pochi anni dopo, con una serie di sentenze storiche, cancella i reati di adulterio e di concubinato perché violano l’uguaglianza tra uomo e donna nel matrimonio e cancella la discriminazione, nella separazione, tra adulterio della moglie e adulterio del marito.[vii] Nel 1971 (sentenza16 marzo 1971, n.49) la Corte Costituzionale riconsidera anche il divieto di propaganda anticoncezionale e trova, ora, che esso è in contrasto con la regola fondamentale della libertà di espressione del pensiero. Elimina, quindi, dal Codice Penale quell’articolo 553, che pochi anni prima, nel 1965, aveva salvato in nome del buon costume. E può essere interessante notare che sono gli anni in cui anche negli Stati Uniti, con le sentenze del 1965 e del 1972 della Corte Suprema sul right of privacy, si afferma un orientamento liberale a proposito dei mezzi contraccettivi.
Si fa strada l’idea che nella famiglia l’eguaglianza sia fonte di una stabilità e di una unità, che invece può essere minacciata dalla disparità di posizione tra i coniugi; le eccezioni al principio di eguaglianza possono essere giustificate solo da esigenze di unità della famiglia, che non siano perseguibili in altro modo.[viii] A partire dagli anni Sessanta, in Italia come in altri paesi,[ix] la nuova posizione della donna nella famiglia e dei figli mette in discussione quell’assetto dei poteri maschili, e paterni, che era stato a lungo sostanzialmente stabile.
L’affermazione dell’uguaglianza è accompagnata da un’altra potente novità: il progressivo ridimensionamento del dato biologico, o vincolo di sangue (come ci si esprime all’epoca), come fondamento delle relazioni familiari. Un decisivo passo è costituito dall’adozione “speciale” (1967), la cui novità è di essere finalizzata ai bisogni affettivi e di assistenza della persona del minore, e non alla trasmissione del patrimonio di chi adotta. Soprattutto, questa nuova forma di adozione è “legittimante”: il che vuol dire che il minore adottato diventa indistinguibile dal figlio legittimo, sia all’interno della famiglia sia verso l’esterno, non essendo pubblicizzabile la sua vera storia anagrafica. La famiglia, secondo l’ispirazione della legge sull’adozione, è principalmente una comunità di affetti, nella quale la posizione e i diritti dei “genitori del sangue” sono funzionali ai compiti di assistenza ed educazione della prole che la Costituzione assegna loro.[x] Idee di questo genere minano alla radice le teorie, all’epoca ancora molto diffuse, che traggono spunto da un’espressione letterale della Costituzione («La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale»: articolo 29) e vedono nella famiglia un’entità naturale, fuori dalla storia.
L’adozione speciale, a dispetto del trito adagio adoptio imitat naturam e del suo apparente adeguarsi al modello legittimo basato sulla naturalità dei rapporti (in questo senso “legittimante”), più che rendere evidente la superiorità del modello “naturale” come modello sociale prevalente, mostra, paradossalmente, la possibile irrilevanza del dato naturale, o biologico, all’interno della famiglia legittima.[xi] Se per il diritto il dato caratteristico della famiglia è la comunità di affetti, sarà questo il requisito imprescindibile dell’esperienza familiare e quindi anche della filiazione, sia che i figli siano effettivamente procreati dai genitori sia che entrino nella famiglia per adozione: è l’apporto materiale dei genitori, il vincolo di sangue, a diventare una non necessità, e non viceversa. È la riproduzione senza sessualità.
Quando nel 1975 entra in vigore la riforma del diritto di famiglia l’uguaglianza nei rapporti e la perdita di peso del dato biologico (debiologizzazione) risultano accentuati. Novità principale è la parità dei coniugi, tra loro e verso i figli: la potestà non è più “patria”, ma “dei genitori” entrambi, con un’innovazione anche lessicale di portata storica. I figli nati fuori dal matrimonio cessano di essere discriminati rispetto a quelli legittimi. Inoltre, il regime giuridico del secondo riconoscimento si colloca su una linea di valorizzazione della componente affettiva, a scapito di quella biologica: quando un figlio è nato da una relazione tra non coniugati, il genitore che ha riconosciuto per primo (generalmente la madre) ha ora il potere di opporsi all’altro genitore che vuole riconoscere, anche senza contestare il suo essere ascendente naturale (di solito maschile, ma è accaduto anche per la donna). In questo modo l’interesse del figlio minore, e la realtà delle relazioni affettive già stabilite, diventano il criterio di orientamento che può portare a negare lo stesso accertamento di stato, e non solo a limitare la potestà. La paternità viene legata all’aspetto sociale e affettivo, con la conseguenza che lo status di figlio non deriva necessariamente dal dato biologico, ma dipende anche da valori spirituali e sociali di responsabilità che possono portare a contraddire la “verità” biologica.[xii]
La famiglia è in Italia, e in molti altri stati, un’associazione di liberi ed eguali, nella quale il vincolo tra i coniugi è privo anche del requisito della formale ineluttabilità: deve esistere e permanere solo la comunione spirituale e materiale,[xiii] in mancanza della quale è possibile anche il divorzio.
I percorsi dell’uguaglianza e della debiologizzazione si intrecciano e si potenziano reciprocamente. Emblematica è la progressiva parificazione della madre adottiva alla madre “naturale”, circa la possibilità di fruire dell’astensione post partum dal lavoro e, successivamente, dei riposi per l’allattamento e dei permessi per malattia del bambino: la madre naturale non è detto che allatti al seno e vi può essere quindi parità, anche materiale, tra i due tipi di madre, nel soddisfare l’esigenza principale del neonato, quale che sia la sua origine biologica, di assistenza e di vicinanza affettiva. Ma allora è anche vero che il padre, che, quanto a partecipazione al processo biologico della gestazione, è sempre un po’ “adottivo”, ben può valere, nella capacità di assistenza e di vicinanza affettiva, al pari di una madre, naturale o adottiva che sia. Ed è proprio sulla base di argomenti del genere che anche al padre (naturale, adottivo o affidatario che sia) viene riconosciuto il diritto all’astensione facoltativa e ai permessi per malattia del bambino.
3. Un versante maschile: rarefazione e impotenza
Nella famiglia, uguagliata all’interno e debiologizzata, il maschio/padre perde in termini di potere. Non è più titolare di alcuna potestà esclusiva su nessuno: cassata quella sulla moglie, resterebbe quella sui figli, ma essa è sempre più funzionalizzata ai diritti dei figli stessi, e comunque divisa con la madre. Il padre, però, guadagna terreno in campi che tradizionalmente non gli appartenevano, come le prime fasi di vita del bambino (si è detto dell’astensione dal lavoro o dei permessi per malattia). Soprattutto è l’adozione speciale a valorizzare la partecipazione del padre. Chi ha un minimo di esperienza di adozione e di affidamenti preadottivi sa che spesso, nelle prime fasi di inserimento del bambino, è la madre a mostrare maggiori segni di difficoltà, attribuibili probabilmente al fatto di aver “saltato” la fase della gravidanza. Il padre, al confronto, ha meno da perdere, visto che è il padre naturale che somiglia a quello adottivo, e non viceversa. La differenza dell’adottivo rispetto al padre che ha partecipato all’atto sessuale della procreazione finisce con l’essere costituita, per dirla con Jean Paul Sartre, esclusivamente da quelle «poche gocce di sperma che costituiscono il prezzo corrente di un bambino».[xiv] Veramente poca cosa e, dopotutto, poco rilevante, anche per il diritto: il padre è rarefatto.
All’interno del processo di distruzione e superamento del potere del maschio e del padre, che arriva a compimento in questi anni, vi è un aspetto di cui poco e malvolentieri parlano gli uomini: l’impotenza maschile. È il dramma del bell’Antonio, fatto di silenzi, di colpe scaricate sulle donne, di perizie processuali e di separazioni, e anche di tentativi di superare l’impotenza al rapporto o di generare, ricorrendo a un aiuto meccanico nel far sì che lo sperma raggiunga l’utero della donna oppure utilizzando lo sperma di un altro. È l’inseminazione artificiale, una tecnica relativamente semplice che consiste nell’iniettare, nel canale cervicale o nell’utero della donna, attraverso una siringa, lo sperma del marito o di un terzo, raccolto in precedenza a mezzo di masturbazione (o con tecniche più complesse).
Se si lasciano sullo sfondo il più celebre caso di concepimento senza coito dell’antichità –l’immacolata concezione di Gesù– e la discussione, contenuta nel Talmud, dell’ipotesi che il religioso sposi una vergine gravida, e altri casi narrati in testi storici, per i quali però non sono ovviamente disponibili riscontri oggettivi, le prime esperienze di cui si ha notizia risalgono alla fine del Settecento. Le fonti fanno riferimento alla inseminazione artificiale umana effettuata dal medico inglese John Hunter nel 1799, non molto dopo l’invenzione del microscopio e la scoperta delle funzioni dello sperma, e pochi anni dopo che Lazzaro Spallanzani ha ottenuto la gravidanza di una cagna con mezzi artificiali.
Dell’inseminazione artificiale come pratica clinica si parla dalla metà dell’Ottocento. La pratica è clandestina in Europa, per effetto delle condanne religiose e mediche, mentre negli USA viene condotta apertamente. Sul piano tecnico, l’utilizzo di seme di un terzo può avere un reale sviluppo solo dopo il 1938, quando, per la prima volta, viene congelato seme umano utilizzando una miscela di gas liquidi.
Si può quindi dire che l’inseminazione artificiale umana è pratica conosciuta da tempo, non isolata, e che non è affatto emersa solo negli ultimi anni. Già a fine Ottocento se ne occupa anche il Sant’Uffizio che, prendendo in considerazione l’illiceità del mezzo della masturbazione, emana il decreto del 17 marzo 1897 che si chiude con un laconico Non licere. Successivamente, nel 1949 (28 settembre), Pio XII conferma la condanna della fecondazione artificiale fuori dal matrimonio e di quella nel matrimonio, se il seme del marito è raccolto con modalità illecite (masturbazione). La condanna, che il Pontefice tiene ferma in successivi pronunciamenti, non è esclusiva della Chiesa cattolica. Anche alcune chiese protestanti e i rabbini di importanti comunità ebraiche, pur con toni meno netti (specie sulla masturbazione), esprimono contrarietà all’inseminazione artificiale, perché essa spezzerebbe la comunione totale e esclusiva tra gli sposi o perché, comunque, costituirebbe un atto di adulterio.
Negli anni Cinquanta, due famosi casi giudiziari, a Roma e a Padova, fanno uscire il problema dal ristretto ambito di ostetrici e moralisti, che ne ha fino a quel punto discusso in Italia, e lo portano sulle riviste giuridiche e in Parlamento.[xv] Ma, dopo di allora, l’argomento sembra andare in uno stato di quiescenza: una commissione del Concilio Vaticano II propone un documento di condanna, che però non giunge nemmeno in aula; l’enciclica Humanae Vitae (1968) non ne parla affatto; il dibattito su contraccezione e aborto, tra gli anni Sessanta e Settanta un po’ in tutto il mondo, ignora la fecondazione assistita; se ne parla nei lavori preparatori della riforma italiana del diritto di famiglia, ma senza seguito nel testo definitivo.[xvi] Eppure nel frattempo vi sono significativi sviluppi tecnici e scientifici, con gli esperimenti di Edwards e Steptoe sulla fecondazione in vitro, a metà degli anni Sessanta, e con i controversi analoghi tentativi di Daniele Petrucci a inizio degli anni Sessanta a Bologna.
Quella della fecondazione assistita fino agli anni Settanta appare una storia importante e riconoscibile, ma discreta, che non suscita nulla di paragonabile all’aborto e alla contraccezione. Ciò potrebbe dipendere dal fatto che la fecondazione assistita non è ancora una pratica molto diffusa, ma potrebbe anche indicare qualcosa di più: la storia tutta maschile dell’indicibilità dell’impotenza. L’inseminazione artificiale è dunque un rimedio soprattutto, anche se non esclusivamente, per l’impotenza maschile: l’incapacità al coito o l’assenza di spermatozoi viene superata con una fecondazione che prescinde dalla sessualità e che, quando il seme usato è di un terzo, esclude ogni apporto biologico, oltre che sessuale, da parte del maschio. L’inseminazione artificiale è in linea con il depotenziamento della figura tradizionale dell’uomo padre, e in linea con il percorso di debiologizzazione di cui si è detto. Alberto Trabucchi, commentando la sentenza di Roma, coglie esattamente quello che
sta per accadere:
L’attribuzione della paternità come fatto intersubiettivo non può fondarsi nel semplice fattore biologico […]. Pur consci della gravissima difficoltà della tesi che arriva ad ammettere un rapporto giuridico di paternità che prescinde dalla derivazione della vita fisica, ci sembra che, in correlazione con la negazione sopra fatta di valore decisivo nell’attribuzione della paternità al mero fattore biologico, si debba porre in evidenza il significato che può avere una concezione puramente giuridica della paternità nel matrimonio. È certo che la volontà di procreare non è assolutamente necessaria per l’esistenza della paternità sul figlio concepito nel matrimonio, ma se tale volontà non è necessaria, ci si chiede se per avventura non sia per diventare sufficiente in seguito ai nuovi ritrovati scientifici e alle loro pratiche applicazioni.[xvii]
Gli sviluppi successivi confermano che diventerà sufficiente, anche là dove non sono in gioco “nuovi ritrovati”, nel nuovo ambiente culturale che svalorizza l’apporto biologico di entrambi i genitori.
La quiescenza del dibattito sull’inseminazione artificiale può poi avere una spiegazione nel limitato interesse che esso suscita nelle donne, che sono coinvolte relativamente poco, e non sfavorevolmente. Non si può dimenticare che sono gli anni in cui inizia il protagonismo dei movimenti femministi e le donne incrementano il controllo della propria capacità riproduttiva. Inoltre, dopo il 1975 la madre-moglie ha anche la possibilità, alla nascita, di non dichiararsi madre coniugata e quindi di riconoscere il figlio, pur nato nel matrimonio, come naturale (articolo 250 Codice Civile). Formalmente si tratta di un potere perfettamente parallelo a quello che viene dato all’uomo coniugato di riconoscere i figli nati fuori dal matrimonio. Non è trascurabile, però, che quando è l’uomo a esercitare questa facoltà, il risultato immediato è una sorta di ampliamento delle relazioni parentali dal momento che a quelle del matrimonio, non messe in discussione, si sommano quelle esterne. Quando, invece, è la donna coniugata a riconoscere il nato da sé quale figlio naturale, il primo effetto che si produce è quello di escludere la paternità legittima, inibendo l’operatività della presunzione di paternità.
Con l’inseminazione artificiale le donne hanno cominciato ad affrancarsi anche dall’impotenza degli uomini, sia rinviando al mittente le accuse di sterilità, che spesso sono state fatte cadere ingiustamente su di esse, sia cominciando a disporre di un’alternativa all’impotentia coeundi o generandi dei mariti, senza rinunciare alla gestazione, come nell’adozione. Un vantaggio, questo, che potrebbe spiegare la «scarsa attenzione delle donne all’anonimia del donatore».[xviii]
4. Lo scandalo della natura violata: le donne e la Chiesa cattolica
Il 25 luglio 1978 nasce a Cambridge, in Inghilterra, Louise Brown: il primo essere umano frutto della fecondazione di ovociti umani in vitro. La tecnica della fertilizzazione in vitro comporta il prelievo dell’uovo, il suo incontro con gli spermatozoi in un terreno di coltura, la formazione (nello stesso terreno) di un embrione e il suo trasferimento all’interno della cavità uterina. L’idea di fertilizzare un ovocita in vitro nasce come tentativo di soluzione alla sterilità tubarica, una delle cause più frequenti di sterilità femminile.
Questo (inedito) scenario appare caratterizzato da tre punti principali. Per la prima volta nella storia dell’umanità la fecondazione avviene fuori dal corpo della donna, mettendo in discussione un dato fino a quel momento “naturale” sul quale si era fondato tutto il pensiero umano, dal linguaggio, secondo il quale si “viene alla luce” (come è stato fatto notare), alla dottrina delle religioni fino all’autorappresentazione delle donne. In secondo luogo, la fecondazione in vitro, a differenza delle precedenti tecniche, che rispondevano per lo più a difficoltà del maschio, parte dall’infertilità femminile e a essa risponde. Infine, apre in breve tempo nuove prospettive, quali il congelamento di embrioni e test genetici pre-impianto, nonché la donazione di ovociti e di embrioni. Le opzioni nella riproduzione aumentano tanto che qualcuno ne ha contate dieci, altri persino ventitré; in una posizione intermedia Flamigni ne ha contate sedici. L’attenzione sembra così tornare a spostarsi verso l’aspetto biologico (femminile) della riproduzione, in un contesto che invece appariva dominato dalla netta svalorizzazione del dato biologico (soprattutto maschile). Sembra quasi che la componente biologica della riproduzione abbia messo in atto le sue contromosse in un’epoca in cui la debiologizzazione, o perdita di rilievo della componente biologica, sembrava aver raggiunto la massima espansione.
Ve ne è abbastanza per dire che lo scandalo sulla fecondazione in vitro è, in primo luogo, uno “scandalo femminile”. Lo dimostra il tono delle reazioni. Il Feminist International Network, sorto nel 1979 e che dal 1985 prende il nome di Feminist International Network of Resistance to Reproductive and Genetic Enginneering, è esplicito nella Risoluzione del Terzo convegno mondiale tenutosi in Svezia nel 1985:
Il corpo femminile, con la sua capacità unica di creare vita umana, sta per essere espropriato e sezionato come mero materiale per la produzione tecnologica di essere umani. Per noi donne, per la natura, e per i popoli sfruttati del mondo questo sviluppo è una dichiarazione di guerra. L’ingegneria riproduttiva e genetica è un altro tentativo di porre fine all’autodeterminazione dei nostri corpi. Noi resisteremo allo sviluppo e all’applicazione dell’ingegneria riproduttiva e genetica. Sappiamo che la tecnologia non può risolvere nessuno dei problemi creati da condizioni di sfruttamento. Non è necessario trasformare la nostra biologia, ma è necessario trasformare le condizioni patriarcali, sociali, politiche e economiche. Noi vogliamo mantenere l’integrità e la corporeità della procreatività delle donne.[xix]
Naturalmente non tutte le posizioni femministe hanno questa virulenza e schematicità. Alcune hanno un atteggiamento di accettazione che a volte può anche essere entusiastico. Nelle posizioni femministe
si delinea una posizione prevalente: non sarebbe tanto l’inseminazione artificiale a suscitare opposizione, quanto il pericolo di essere “spossessate” dell’esperienza materna, intesa in primo luogo come esperienza del corpo […]. Sembrerebbe quasi che la resistenza femminile a portare la creazione della vita fuori del corpo sia l’ultimo baluardo rispetto a un esito di sviluppo della biologia, applicata alle tecnologie riproduttive, implicito nel discorso delle scienze occidentali.[xx]
È ciò che Marisa Fiumanò ha espresso nella «passione dell’origine» che le donne esigono di sperimentare nel modo più diretto, attraverso il corpo.[xxi]
Un punto particolarmente controverso riguarda il cosiddetto affitto di utero. Sulla libertà della donna di contrattare una prestazione del proprio corpo, il dibattito femminista è molto serrato. Carole Pateman critica in modo radicale il contratto che abbia a oggetto il corpo della donna:
Il contratto di maternità surrogata indica che è in corso un’ulteriore trasformazione del patriarcato moderno. In una forma nuova, contrattuale, sta ricomparendo il diritto del padre. […] Le implicazioni politiche del contratto di maternità surrogata possono essere comprese soltanto quando la maternità surrogata venga vista come un’altra clausola del contratto sessuale, come una nuova forma di accesso e di uso del corpo femminile da parte degli uomini.[xxii]
Carmel Shalev, all’opposto, sostiene che non costringere la madre surrogata a mantenere la parola data rafforza l’immagine tradizionale della donna «imprigionata nella soggettività del suo utero»:
Sarebbe allora la natura biologica ad impedire ad una donna intenzionata ad agire come madre surrogata di concludere un accordo vincolante con una coppia di genitori committenti: l’autonomia della sua volontà al momento della conclusione dell’accordo non potrebbe infatti essere intesa seriamente, in quanto soggetta ai mutamenti legati all’esperienza della gravidanza.[xxiii]
Insomma, la donna deve poter partecipare a queste negoziazioni come soggetto autonomo e responsabile, pena il riemergere dei luoghi comuni sulla “natura biologica” femminile.
Cesare Beccaria aveva auspicato che «lo spirito repubblicano soffiasse nelle domestiche mura».[xxiv] Con la fecondazione in vitro, e con gli accordi di surrogazione, sembra ormai che tale vento soffi nel corpo delle donne, nel loro grembo. Di questo ordine di idee partecipa sia chi denuncia l’essere diventato il corpo della donna «luogo pubblico» nel quale imperversa la logica maschile (che ha come presupposto l’esternalizzazione del feto e come mezzo principale l’anticipazione di soggettività giuridica dell’embrione), sia chi, come Shalev, rivendica alla donna, sbarazzatasi dei luoghi comuni sulla natura biologica femminile, il controllo razionale delle risorse del proprio corpo, rendendo il suo potere di dare la vita oggetto di contratto. Sia che si ricostruiscano le relazioni della nuova riproduzione in termini di opposizione tra poteri della sfera maschile-pubblica e libertà della donna, oppure in termini classici di libertà di contratto, in entrambi i casi le categorie utilizzate sono quelle proprie del discorso politico moderno, applicato al corpo delle donne. È un dibattito quanto mai in evoluzione. Anzi, se si osservano i cambiamenti delle posizioni di diverse autrici, dalla prevalente opposizione post ’78 verso posizioni di ragionata accettazione di una “possibilità”, si può dire che ci troviamo di fronte a una straordinaria prova di capacità di metabolizzazione sociale di una rilevantissima novità tecnologica.
5. La natura (biologica) della Chiesa cattolica
Lo scandalo della fecondazione extracorporea è una scandalo femminile, ma anche di chi sulla immutabilità “naturale” dei modi della riproduzione, e delle relazioni tra i sessi, ha investito: la Chiesa cattolica. La posizione attuale della Chiesa è espressa dalla Congregazione per la dottrina della fede nell’Istruzione Donum vitae del 22 febbraio 1987 dove si afferma che «la trasmissione della vita umana è affidata dalla natura a un atto personale e cosciente e, come tale, soggetto alle santissime leggi di Dio: leggi immutabili e inviolabili che vanno riconosciute e osservate»; la legge morale naturale in quanto «ordine razionale secondo il quale l’uomo è chiamato dal Creatore a dirigere e regolare la sua vita e i suoi atti e, in particolare, a usare e disporre del proprio corpo» comporta che «il dono della vita umana deve realizzarsi nel matrimonio mediante gli atti esclusivi e specifici degli sposi, secondo le leggi iscritte nelle loro persone e nella loro unione».[xxv] La successiva enciclica Evangelium vitae del 25 marzo 1995 ribadisce la condanna delle tecniche di riproduzione perché «dissociano la procreazione dal contesto integralmente umano dell’atto coniugale». In sintesi, per la Chiesa, esclusa la fecondazione eterologa, è ammessa solo l’omologa, sempre che avvenga secondo modalità lecite. È la base concettuale della legge italiana attuale in materia (Legge n. 40 del 2004).
Alla Chiesa vengono mosse varie critiche. Per il fatto di andare oltre il piano dell’autorità morale e di richiedere invece che tale posizione sia fatta propria dalle autorità statali, con divieti e punizioni di natura sostanzialmente eugenica, mentre in passato la Chiesa non aveva riconosciuto allo Stato un potere di intervento in tali campi. Oppure, per il fatto di essere contraria a ogni forma di interruzione della gravidanza e, nello stesso tempo, di tollerare che non nascano i figli che con le nuove tecniche di fecondazione avrebbero la possibilità di nascere.
È stato criticato, in modo particolare, il biologismo, o fisicismo, insito nella posizione cattolica, che cade nell’errore di identificare l’ordine biologico derivante dalla teleologicità del processo vitale con l’ordine morale.[xxvi] Un atteggiamento improntato a marcato biologismo è nuovo ed è proprio soltanto delle prese di posizione degli ultimi anni, mentre Pio XII, che a torto viene considerato fautore del biologismo, ha sempre accuratamente distinto, nelle sue prese di posizione sulla riproduzione umana,[xxvii] l’ordine biologico e quello morale. Ed è un atteggiamento che sembra avere un’eco in quegli autori cattolici che propongono come fondamento del discorso giuridico in bioetica il criterio della familiarità, intesa «come principio antropogenico» per il mezzo del quale «si costituisce l’individualità umana»: posizione questa che pare ispirarsi a una concezione quasi biologica del diritto naturale.[xxviii]
Rimane il fatto che il biologismo attuale della Chiesa è un orientamento recente che, non potendo essere spiegato con la tradizione, richiede di essere spiegato sia in sé sia per la sua grande capacità di diffusione in questi anni. Vi può forse essere un nesso tra l’attuale attaccamento biologico della Chiesa e il compiersi di quel lungo processo di distruzione di ogni forma di autorità terrena, processo di cui, per più di un verso, proprio la Chiesa è stata un potente motore. Si può ricordare, per esempio, che è il cristianesimo che introduce il modello familiare fondato sull’amore e rapportato a Dio e non più al pater; sono le posizioni della scolastica medievale che sono fatte proprie da Locke, sostenitore della modernità, contro Filmer, che difende il patriarcato; è la Chiesa che, nel conflitto tra genitori e figli, sostiene le ragioni della dignità dei figli come soggetti che, se agiscono secondo i dettami della fede, ben possono contrastare le ragioni dei padri;[xxix] è la Chiesa che per le questioni relative al corpo e alla vita ha sempre contestato il potere delle autorità civili in subditorum membra. In altri termini, lo stato attuale dell’autorità paterna, e cioè la sua totale inconsistenza, è in linea con alcune posizioni di fondo della Chiesa.
Oggi la ridefinizione cattolica dei rapporti parentali e delle relazioni tra i sessi è centrata sulla considerazione dell’ovulo fecondato come persona: la persona ha inizio con la fecondazione. Una posizione di una radicalità inedita che questa volta mette fuori gioco tutti gli argomenti che non siano fondati su dati strettamente biologici. Ma è significativo il noto dissenso di un grande filosofo cattolico, Jacques Maritain, secondo il quale
ammettere che il feto umano, dall’istante della sua concezione, riceva l’anima intellettiva, quando la materia non è ancora in nulla disposta a questo riguardo, è, ai miei occhi, un’assurdità filosofica. È tanto assurdo quanto chiamare bebè un ovulo fecondato.[xxx]
L’affermarsi di questa «assurdità filosofica» sembra riproporre un andamento simile a quando, tra Sei e Settecento, la Chiesa, a differenza delle legislazioni civili, riconosceva dignità alle scelte dei figli di contrarre matrimonio anche quando erano in contrasto con le volontà dei padri. Allora la Chiesa conferiva dignità pubblica di persone a uomini e donne che, in quanto sottoposte (anche da adulti) alla potestà del padre, ne erano prive, e ampliava così il numero dei soggetti, facendo coincidere (per la prima volta nella storia dell’Occidente) soggettività giuridica e individui nella loro fisicità: un’affermazione rivoluzionaria che minava alla radice il potere patriarcale. Oggi l’ampliamento della soggettività fino all’ovulo fecondato, nulla può più verso un potere paterno ormai inesistente e ha l’effetto principale di mettere fuori gioco le donne come soggetti capaci di fare scelte sulla procreazione e gli uomini che tali scelte compiono insieme a loro. Ne risulta, sul piano civile (che è l’unico di cui qui ci si occupa) un contributo potente non più alla fine delle strutture patriarcali, come forma di organizzazione sociale e giuridica (che è cosa ampiamente compiuta), ma alla destrutturazione di ogni idea di individuo libero e responsabile, alla quale pure il pensiero della Chiesa aveva contribuito. L’unico soggetto responsabile appare oggi essere … l’embrione!
È come se la Chiesa, di fronte alla crisi di tutte le autorità terrene, conscia dello stato in cui versa l’autorità paterna, e ormai anche materna, sia colta da una sorta di horror vacui dal quale si sente coinvolta essa stessa (la fine della figura del padre terreno rende difficile concepire il Dio padre), e si appigli perciò all’unico dato che appare certo, quello biologico. La posizione della Chiesa non si lascia classificare con facilità. È in sintonia con la posizione maschile tesa al controllo della sessualità e della capacità riproduttiva delle donne. Ma altrettanto sicuramente è in sintonia con quelle posizioni del femminismo che vedono nelle nuove tecniche di riproduzione un attentato al “naturale” potere procreativo delle donne e che delineano la verità biologica della procreazione come base di ogni corretta relazione parentale e costruzione della personalità.
L’ambivalenza della posizione della Chiesa spiega, forse, il seguito che ha avuto in Italia un certo proibizionismo verso le nuove tecniche che si è diffuso non solo tra le forze di ispirazione cattolica (come ci si poteva aspettare), ma anche in ambienti politici della sinistra o del femminismo, che ci si poteva aspettare fossero meno esposti a un’idea normativa di natura.
In conclusione, la Chiesa sembra volersi porre come punto di riferimento della memoria biologica dell’umanità, memoria nella quale pare immersa e compresa l’unica tradizione [in senso letterale] possibile. In tal modo potrebbe svolgere un’importante funzione di remora di fronte a cambiamenti la cui velocità rende difficile una tempestiva elaborazione sociale, se non fosse per due limiti fondamentali: da un lato, la negazione di dignità e responsabilità a tutto ciò e a tutti coloro i quali si discostano dalla normatività biologica (che equivale a escludere la possibilità che donne e uomini elaborino da sé i nuovi problemi) e, dall’altro, la pretesa di imporre la propria posizione a tutta la società attraverso le leggi e le istituzioni civili. Ma, in tal modo, quella che poteva essere una utile remora si trasforma in un autentico macigno che gli eventi si prendono cura di aggirare.
6. Etsi uterus non daretur: due idee di natura
In generale due idee di natura sembrano delinearsi: la prima, che ha tipica espressione nella Chiesa cattolica, secondo la quale la natura (e, in specie, alcuni processi biologici, come oggi conosciuti) ha una sua intrinseca normatività che non può essere violata; la seconda, secondo la quale la “naturalità” di processi biologici e riproduttivi senza l’intervento delle più recenti biotecnologie, è una opzione culturale, nella scelta della quale si fa esercizio di libertà, assumendo le relative responsabilità.
La fecondazione extracorporea sembra colpire, in primo luogo, la posizione di preminenza biologico/corporea della donna e, in secondo luogo, l’idea che, messa radicalmente in discussione l’intera architettura familiare e il potere del pater, residuasse poi, indenne, il potere delle donne come governo degli affetti e come controllo della capacità di perpetuazione della specie. In questo senso la rarefazione del padre coinvolge anche la madre.
La maternità surrogata sfida poi le donne a essere madri etsi uterus non daretur, indipendentemente e oltre il dato materiale della gestazione e del parto, così come per gli uomini, da più tempo, la paternità può essere etsi semen non daretur. Non vi è equivalenza tra uterus e semen né, allo stato, può dirsi che siano scomparsi, visto che la quasi totalità della popolazione mondiale si riproduce e continuerà a riprodursi secondo quella che fino a ieri chiamavamo “natura”. Vuol dire semplicemente che, quando ci si interroga su maternità e paternità, la ricerca del senso di esse va cercato senza alibi biologici.[xxxi]
Rarefatti il padre e la madre, sembra delinearsi una società in cui tutto è centrato sui figli e la libertà è libertà dei figli: tutti figli senza genitori, e quindi orfani. In termini più radicali è stato sostenuto che
la consapevolezza del “soggetto” dell’unicità dell’Io, ha messo in crisi, in modo irreversibile, la funzione simbolica della madre e del figlio. La madre non può più essere del tutto e soltanto “strumento”; il figlio non può più essere rappresentante del padre, così come il padre, nella sua unicità, non può più vedersi rappresentato da nessuno.[xxxii]
Ragionare etsi uterus/semen non daretur desacralizza il dato biologico. Ma il fatto dell’accoppiamento sessuale e della gestazione in corpo di donna potranno risultare inaspettatamente valorizzati, come scelta e non come necessità, come chance e non come punto di paragone per stigmatizzare nuove categorie di illegittimi.[xxxiii]
Probabilmente fra non molti anni, passato lo smarrimento, accetteremo alcune nuove frammentazioni delle figure di madre e padre e le ricollegheremo alla memoria della pluralità di figure del passato, quando vi erano i fratelli di latte, gli zii, le adozioni ordinarie, le affiliazioni ecc., e scopriremo che quello che è stato superato è un modello familiare ristretto, recente nella storia dell’umanità e irrigidito da una recente visione biologista della Chiesa cattolica, e non solo.
7. Un contesto più ampio: frammentazione e ricomposizione della persona fisica
La ridefinizione dei rapporti tra i sessi e della riproduzione si colloca in un contesto più ampio segnato dalle applicazioni biotecnologiche. È stato detto che con le biotecnologie «il corpo sta movendo verso la virtualità nella vita e nel diritto; che esso si sta dematerializzando attraverso la sua completa rappresentabilità in termini di informazione, sia fattualmente che giuridicamente». Più che di dematerializzazione del corpo, secondo il suggestivo ossimoro, credo si debba parlare di debiologizzazione delle relazioni che si costruiscono a partire dal corpo, relazioni che in passato sembravano (o di fatto erano) determinate dal fondamento biologico umano, dal quale traevano la norma, e che ora invece si esprimono in termini non biologici. In definitiva, quella che cade non è la materialità del corpo, ma la normatività della vecchia immagine del corpo, secondo una tendenza chiara già prima dell’avvento delle biotecnologie e manifestatasi nelle relazioni familiari, nei rapporti di filiazione e nell’idea di salute nella medicina, nonché nel counseling genetico.[xxxiv]
La perdita di peso del biologico si presenta, sul versante del soggetto, come chance di libera autodefinizione di sé, anche dei confini della corporeità. L’autodefinizione di sé può essere vista come lo sviluppo ultimo dell’attribuzione di senso di cui è caricato il soggetto che coinvolge non solo le cose che sono fuori di sé, non solo le scelte su cosa può essere fatto sul corpo, ma il suo stesso essere, e i suoi confini spaziali e temporali.
È inevitabile a questo punto un passo indietro, che riguarda l’idea stessa di persona fisica per il diritto e l’ordine politico.
Secondo l’idea tradizionale, che bene si trova espressa in Hans Kelsen, va posta una netta distinzione tra persona fisica naturale e persona fisica giuridica. Alla persona fisica naturale (che appartiene al campo della scienza e della biologia) è assegnato soltanto il compito di costituire la delimitazione biologica della persona fisica giuridica, che è soltanto un insieme di norme giuridiche. Ciò presuppone che vi sia coincidenza spaziale e storica tra la persona fisica naturale, come entità biologica, e l’ambito nel quale ricadono quei diritti e quei doveri che costituiscono la persona fisica giuridica.
La questione merita qualche attenzione. Il punto fondamentale è il seguente: il formalismo giuridico, una volta depurata l’idea giuridica di persona fisica da ogni residuo naturalistico biologico, non ha un autonomo criterio giuridico per stabilire quale sia il criterio unificatore delle norme che costituiscono la persona fisica giuridica. È significativo che proprio Kelsen ponga il problema in questi termini: «Che cos’è che costituisce questo tipo di unità [persona fisica per il diritto]? Quand’è che un complesso di doveri e diritti, un complesso di norme giuridiche, ha questo tipo di unità?»
La risposta che dà l’autore è la seguente:
La persona fisica è la personificazione di un complesso di norme giuridiche le quali, ponendo i doveri ed i diritti che formano il contenuto della condotta di uno stesso essere umano, ne regolano la condotta. […] L’essere umano non è la persona fisica ma, per così dire, soltanto la ‘delimitazione’ di una persona fisica. Il rapporto fra una cosiddetta persona fisica e l’essere umano, con il quale la prima è sovente erroneamente identificata, consiste nel fatto che quei doveri e quei diritti, che sono compresi nel concetto di persona, si riferiscono tutti al comportamento di quell’essere umano.[xxxv]
La persona fisica naturale è, dunque, la delimitazione biologica della persona fisica giuridica. Il presupposto di una tale costruzione teorica è che la persona fisica naturale, come entità biologica, abbia carattere stabile e non aleatorio e che, quindi, vi sia coincidenza spaziale e storica tra la persona fisica naturale e l’ambito nel quale ricadono quei diritti e quei doveri che costituiscono la persona fisica giuridica. Ma, alla luce degli sviluppi della medicina e delle biotecnologie, si può ancora dire che l’entità biologico-naturale individuale, che è l’essere umano, costituisca una delimitazione sicura della persona fisica giuridica? E che l’espressione linguistica persona fisica naturale abbia un non equivoco corrispondente naturale, appunto?
Questo presupposto e questa coincidenza, mai esattamente veri, sono oggi più che mai messi in discussione, da un lato, dagli interventi modificativi in campo bio-medico (si pensi soltanto ai trapianti), dall’altro, dal nuovo rilievo giuridico che le relazioni biologiche tra le persone stanno assumendo (si pensi ai dati genetici condivisi e ai conflitti che già stanno sorgendo) e, infine, dalla possibilità di creare nuove entità biologiche (ibridi, chimere o, nella prospettiva della Synthetic Biology, nuove entità, frutto dell’assemblaggio di bio-mattoni).
Si delinea, così, un quadro nel quale l’individuo appare frammentato, ove lo si consideri come riferimento costitutivo e elemento di base delle nostre società. E se l’uomo entità biologica non costituisce più la delimitazione sicura nella quale ricadono l’insieme di diritti e di doveri che costituiscono la persona fisica giuridica, quale risposta può essere data al sempre valido interrogativo di Kelsen: «Quand’è che un complesso di doveri e diritti, un complesso di norme giuridiche, ha questo tipo di unità?».[xxxvi]
In altri termini, diventato incerto o instabile il riferimento biologico, viene da chiedersi chi e come determini il chi, che unifica i diritti e i doveri della persona fisica giuridica.
Giunti a questo punto o si rinuncia all’idea che esista una persona fisica naturale, che valga in generale e che funzioni da centro di imputazione dei diritti e dei doveri che costituiscono la persona fisica giuridica, oppure bisogna dire che esistono molti modi possibili di persone fisiche naturali, e che ognuno di questi modi è frutto delle scelte liberamente fatte o anche delle scelte non fatte. Insomma, la persona fisica naturale potrebbe essere vista come una costruzione sociale, che si polarizza al livello della libertà del singolo, ed è quindi una costruzione, al tempo stesso, giuridica e scientifica applicata. L’unità “essere umano” si ricompone solo a livello del singolo e in un dato momento, per effetto di una peculiare interazione tra interventi e definizioni tecnico-biologiche e scelte personali e giuridiche. In questo senso si può precisare l’affermazione secondo la quale «la libertà stessa non appare più come attributo di un individuo dato, nella sua corporeità e quindi sessualità, ma come criterio ordinatore, connettivo della individualità stessa nella sua estensione attuale e nella proiezione futura e passata, criterio capace di fissare i confini di tempo e di spazio e, perché no, di genere. La libertà quindi non è qualcosa che può esservi o no, ma diventa requisito imprescindibile senza del quale non si dà neanche l’individuo».[xxxvii]
Allo stato delle cose non pare neanche sufficiente dire che l’affermazione l’individuo ha l’attributo della libertà deve leggersi come l’individuo è libertà. Non pare sufficiente per almeno un paio di motivi.
In primo luogo, perché questa libertà è, al tempo stesso, facoltà prevista dall’ordinamento e elemento costitutivo essenziale di quel centro (extragiuridico) al quale sono imputati i diritti e i doveri della persona fisica giuridica, centro senza del quale la persona fisica giuridica non ha più una delimitazione che la riduca a unità. La collocazione di questa libertà costitutiva della delimitazione della persona fisica naturale va risolta: essa o è estranea e preesistente all’ordinamento oppure, se è interna ad esso, è in una posizione necessariamente sovraordinata agli altri diritti e doveri, poiché costituisce il presupposto essenziale, senza del quale non si riescono a ridurre a unità e, quindi, neanche a concepire quei diritti e doveri nella loro connessione in una persona fisica giuridica. Una libertà del genere sembra presentarsi come una sorta di norma fondamentale (grundnorm) o, almeno, come un’autorità, che regola l’unità delle persona fisica-ordinamento e che, tra i suoi compiti, ha quello di rendere possibile il governo e la compatibilità delle diversità di cui siamo portatori. Ciò in quanto non solo siamo diversi uno dall’altro, ma lo siamo in modi molto diversi che possono essere compresenti o succedersi anche all’interno di una stessa storia biologica.[xxxviii]
In secondo luogo, perché l’affermazione l’individuo è libertà è esposta alla obiezione: libertà di chi? E esercitata da chi? Quesito al quale non può essere data una risposta del tipo è libertà dell’individuo, data l’evidente tautologia. Si può, allora, tentare una risposta spostando l’attenzione sullo sviluppo diacronico della storia individuale: a) la persona fisica giuridica è libertà presente, idonea a modificare nel futuro (anche prossimo) gli stessi confini e la stessa delimitazione biologica che la unificano; b) la persona fisica naturale, o essere umano biologico, è invece il prodotto storico della libertà esercitata in passato, prodotto mai definitivo e suscettibile di divisioni e integrazioni. Si può dire quindi che il chi della libertà ordinatrice della persona fisica è, di necessità, un essere umano dotato di piene facoltà intellettive, in un dato luogo e in un dato tempo, e delimitato per effetto delle scelte, fatte e non fatte, e prossimo a nuove diverse delimitazioni biologiche: un “chi” singolare e provvisorio.
Tutto ciò, se ha un senso in generale, deve pure averlo per i soggetti e per le relazioni che si stabiliscono con la nascita e il concepimento. E allora varrà per tutti, donne e uomini … alghe e batteri, quanto scrive Giorgio Manganelli in un passo che amo citare:
Dal momento in cui si è accorto che è impossibile non essere al centro del mondo, e che questo vale tanto per lui, quanto per ogni essere umano, o animale, o anche sasso, o alga, o batterio, egli ha dovuto accettare che due sole soluzioni sono date, a descrizione del comportamento da tenere in quella situazione. O il centro del mondo è attivo, ed allora il mondo, dotato e arricchito da infiniti centri, sarà infinitamente attivo; oppure dovrà essere assediato dalla totalità del mondo; più esattamente essere il bersaglio del mondo.[xxxix]

[i] In questo scritto utilizzo, in parte, alcuni miei precedenti lavori, ai quali rinvio per un completo apparato di note e per uno sviluppo più ampio dei presupposti di alcune argomentazioni. Qui ho lasciato soltanto le note di carattere strettamente giuridico (leggi e sentenze) e ho escluso, in linea di massima, il rinvio alla letteratura. I miei lavori sono: Corpo e libertà. Una storia tra diritto e scienza, Milano, Raffaello Cortina, 2001; Persone fisiche e confini biologici: chi determina chi, «Politica del diritto», 2002, n. 3, pp. 525- 547; L’incerto e instabile confine della persona fisica, «Aut Aut», 2003, n. 318, pp. 140-156.
[ii] L’adulterio è punito dall’articolo 559 del Codice Penale; la sentenza della Corte Costituzionale è la n. 64 del 1961; la norma sulla separazione è contenuta nell’articolo 151 Codice Civile.
[iii] La valorizzazione, più o meno marcata, del carattere formale della paternità è un punto decisivo per riconoscere le scelte politiche e sociali relative alla famiglia e ai rapporti al suo interno. Così non è un caso che il Codice Civile italiano del 1939 accentui, in una logica autoritaria, gli aspetti formali della famiglia e della paternità, ponendo restrizioni alla possibilità di riconoscere i figli nati fuori dal matrimonio e vietando le indagini sulla paternità nel caso di filiazione adulterina, in un’ottica quin-di che toglie rilievo all’atto di procreazione.
[iv] L’articolo sulla propaganda anticoncezionale è l’articolo 553 del Codice Penale; la sentenza della Corte Costituzionale è la n. 9 del 1965.
[v] Carlo Flamigni, Il libro della procreazione. La maternità come scelta: fisiologia, contraccezione, fecondazione assistita, Milano, Mondadori, 1998, p. 12.
[vi] Carl Gottfried Hartman, Physiological mechanisms of conception, citato da Carlo Castellani, La storia della generazione: idee e teorie dal diciassettesimo al diciottesimo secolo, Milano, Longanesi, 1965, p. 361
[vii] «La moglie adultera è punita con la reclusione [...]»: era il testo dell’articolo 559 del Codice Penale dichiarato incostituzionale per contrasto con l’affermazione che «il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi» con-tenuta nell’articolo 29 della Costituzione (in quanto l’adulterio del marito non era punito). Il principio di parità su cui si fonda la sentenza n. 126 del 1968 viene poi ribadito nella sentenza n. 147 del 1969, che elimina totalmente l’articolo 559 in que-stione. La sentenza sull’adulterio come causa di separazione è la n. 127 del 1968 e riguarda l’articolo 151 del Codice Civile.
[viii] Sentenza n. 46 del 1966 (vedi quelle sul regime patrimoniale della famiglia, quindi sia della moglie che dei figli: n. 133 del 1970 e 187 del 1974).
[ix] In Germania e in Francia l’attività di rinnovamento legislativo dei vecchi modelli familiari aveva avuto inizio già negli anni Cinquanta. Ma anche in Italia già dagli anni Cinquanta gli studiosi, soprattutto i costituzionalisti, avevano sostenuto la necessità di una immediata revisione dell’intera regolamentazione della famiglia alla luce dei principi della nuova Costituzione del ’48.
[x] Vedi Corte Costituzionale 10 febbraio 1981, n. 11, in relazione all’articolo 30 della Costituzione, «Il Foro Italiano», 1981, I, p. 1839.
[xi] Il processo di debiologizzazione non è univoco. Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta si sovrappongono due logiche diverse: quella del perdurante favor legitimitatis (di tipo conservatore della famiglia come dato formale) e il nuovo interesse per l’interesse del minore. Concorrono entrambe nel senso della debiologizzazione, che è la tendenza prevalente.
[xii] La sentenza della Corte Costituzionale n. 341 del 1990, subordina l’ammissibilità dell’azione di cui all’articolo 274, comma 1 del Codice Civile: «all’interesse del figlio» e all’assenza di rischi di pregiudizio per «gli equilibri affettivi, l’educazione e la collocazione sociale».
[xiii] Secondo la sentenza della Corte Costituzionale n. 181 del 1976 «la famiglia come società naturale fondata sul matrimonio è una realtà sociale e giuridica che presuppone, richiede e comporta che tra i soggetti che ne costituiscono il nucleo essen-ziale, e cioè tra i coniugi, esista e permanga la comunione spirituale e materiale», «Il Foro Italiano», 1976, I, p. 2336. La legge che introduce il divorzio in Italia è la n. 898 del 1970.
[xiv] Jean Paul Sartre, Le parole, tr. it., Milano, Il Saggiatore, 1994, p. 20.
[xv] La sentenza del Tribunale di Roma, 30 aprile 1956, è in «Giurisprudenza Italiana», 1957, I, sez. 2, p. 226 ss., con nota di Alberto Trabucchi, Fecondazione arti-ficiale e legittimità dei figli. La sentenza del Pretore di Padova, 7 novembre 1958, è in «La Giustizia penale», 1959, II, p. 101 ss.; la sentenza del Tribunale di Padova, 16 febbraio 1959, è in «Il Foro Italiano», 1959, II, p. 81 ss.
[xvi] I disegni di legge Falcucci (articolo 62 n. 5) e Gatti Caporaso (articolo 73 n. 5) prevedevano tra i casi in cui era ammesso il disconoscimento di paternità, anche quello in cui il figlio era nato da inseminazione artificiale eterologa della moglie: il progetto Falcucci ammetteva esplicitamente l’azione di disconoscimento; l’altro la ammetteva solo in mancanza del consenso del marito. L’on. Castelli si era opposto perché il solo fatto del richiamo all’inseminazione eterologa in un testo legislativo avrebbe potuto dar luogo alla supposizione di una sua legalizzazione (Camera, V legislatura, IV Commissione, resoconto stenografico, seduta 27 ottobre 1971, 997).
[xvii] Trabucchi, Fecondazione artificiale, pp. 221-222.
[xviii] Maria Luisa Boccia, Grazia Zuffa, L’eclissi della madre. Fecondazione artificiale, tecniche, fantasie e norme, Milano, Pratiche Editrice, 1998, p. 164.
[xix] Il testo in Maurizio Mori, La fecondazione artificiale, Roma-Bari, Laterza, 1995, pp. 36-37.
[xx] Boccia, Zuffa, L’eclissi della madre, p. 163 e 167.
[xxi] Marisa Fiumanò, La passione dell’origine, in Franca Pizzini, Lia Lombardi (a cura di), Madre provetta, Milano, Franco Angeli, 1994, p. 139.
[xxii] Carole Pateman, Il contratto sessuale, tr. it., Roma, Editori Riuniti, 1997, p. 272.
[xxiii] Carmel Shalev, Nascere per contratto, tr. it., Milano, Giuffrè, 1996, p. 126.
[xxiv] Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, Milano, Giuffrè, 1973, p. 121.
[xxv] Una puntuale ricostruzione e critica è in Mori, La fecondazione artificiale.
[xxvi] Così Ibidem, p. 89 e 91. La precisazione che «la possibilità dell’esistenza non è un nulla assoluto» è di Emanuele Severino, Il paradosso della Chiesa: vieta l’aborto e condanna al nulla i figli della provetta, «Corriere della Sera», 26 marzo 1998 (che critica parimenti le incongruità anche delle posizioni laiche). Sul rinvio alle leggi dello Stato vedi, per esempio, il paragrafo 19 della Evangelium vitae.
[xxvii] Mori, La fecondazione artificiale, p. 91.
[xxviii] Francesco D’Agostino, Dalla bioetica alla biogiuridica, «Transizione», 1989, n. 13-14, pp. 289-299; le citazioni che seguono sono tratte dalle pp. 291-293. L’autore è stato presidente del Comitato Nazionale per la bioetica.
[xxix] Si noti questo passo di Max Stirner (L’unico e la sua proprietà, tr. it., Milano, Adelphi, 1979, p. 167): «La libertà è la dottrina del cristianesimo: “Voi, fratelli miei cari, siete chiamati alla libertà; parlate dunque ed agite come persone che devono essere giudicate dalla legge della libertà”. Forse che dobbiamo rinunciare alla libertà per il fatto che essa tradisce ora la sua natura di ideale cristiano?».
[xxx] Jacques Maritain, “Approches sans entraves”. Scritti di filosofia cristiana, tr. it., I, Roma, Città Nuova, 1977, p. 98 (lo ricorda Mori, La fecondazione artificiale, pp. 80-81). Ed è una posizione che, con la sua rocciosa fermezza, porta la Chiesa a non avere argomenti, per esempio, per sostenere l’illiceità dell’aborto per motivi diversi, che non siano il riconoscimento all’embrione della qualità di persona.
[xxxi] Non è la prima volta che l’aspetto biologico passa in secondo piano rispetto a quello formale o giuridico. Già la famiglia romana, come entità giuridica, non si identificava con la famiglia naturale fondata sul rapporto coniugale e sulla filiazione. Noi oggi viviamo una nuova debiologizzazione, che, a differenza di quella romana (e di quelle autoritarie che ad essa si sono ispirate), è non autoritaria e porta all’accentuazione degli aspetti convenzionali (e cioè di libertà) dei rapporti tra i sessi e di filiazione, in un momento in cui il riferimento ai dati biologici è diventato sfuggente o mutevole, e comunque non univoco. Sono possibili oggi, tra uomini e donne, a proposito dei loro corpi e della riproduzione, convenzioni che, pur a parità di dignità e potere dei soggetti, hanno una forte caratterizzazione diseguale, che i termini giuridici tradizionali comprendono a fatica.
[xxxii] Ida Magli, Il potere nella famiglia, in In nome del padre, Roma-Bari, Laterza, 1983, pp. 310-311; nello stesso volume Franco Ferrarotti (Nostalgia dell’autorità, p. 3 ss.) nota come il movimento del ’68, nel combattere contro l’autorità e il potere, si trova a combattere contro il nulla, o meglio contro il simulacro arcigno e formale di un potere che è da tempo già finito.
[xxxiii] Un mio amico mi ha posto un quesito sulla sua esperienza di generazione: «qual è il momento in cui è stata realmente concepita mia figlia? Quando io e mia moglie la abbiamo sentita come fermo e definitivo progetto delle nostre vite in un’estate nei mari del Sud oppure quando si è formata come embrione dopo uno dei nostri incontri sessuali (molto belli) del successivo settembre oppure quando con grande gioia abbiamo scoperto che mia moglie era gravida in un test dell’ottobre oppure quando la abbiamo “vista” nei mesi successivi oppure quando?». Naturalmente non ho saputo rispondere. Certo però, almeno dall’esterno, il momento meno identificabile, e alla fine meno significativo, mi è sembrato quello in cui, in settembre, i due gameti si sono incontrati.
[xxxiv] Per i vari profili della debiologizzazione vedi, Santosuosso, Corpo e libertà, cap. 7 e 8. Avevo parlato di debiologizzazione nei rapporti di filiazione nell’intervento al convegno Il disagio della paternità. Effetti sociali della procreazione artificiale, svoltosi a Milano il 26 novembre 1994, i cui atti sono raccolti nel volume Mariateresa Fiumanò (a cura di), L’immacolata fecondazione, Milano, La tartaruga, 1996. La tesi della dematerializzazione del corpo è avanzata da Mariachiara Tallacchini, Bodyright. Corpo biotecnologico e diritto, «Biblioteca della libertà», 33, 1998, n. 147, p. 22 (da dove è tratta la citazione).
[xxxv] Hans Kelsen, Teoria generale del diritto e dello Stato, tr. it., Milano, ETAS, 1994 2 , parte I, cap. IX, lett. A e B.
[xxxvi] Il problema può astrattamente porsi anche per la persona giuridica, che, nella prospettiva kelseniana (vedi sopra), condivide con la persona fisica la giuridicità e l’ar-tificialità. E infatti Kelsen bolla alla stessa maniera, come residui animistici, sia il rife-rimento all’essere umano per la persona fisica sia il riferimento all’essere sovraumano o al superuomo per la persona giuridica. Il problema della riduzione a unità ha, però, tratti diversi. Per Kelsen, la persona fisica giuridica (persona giuridica in senso ampio) è ridotta a unità dalla delimitazione costituita dall’essere umano biologico, mentre la persona giuridica in senso stretto è ridotta a unità da un atto convenzionale, lo statuto. Secondo questo ordine di idee, oggi, che il riferimento biologico all’essere umano non delimita più, si dovrebbe giungere a una delimitazione convenzionale anche per la persona fisica giuridica, attraverso uno statuto definito all’interno della stessa persona fisica. Il che è un ulteriore modo per giungere allo stesso risultato della persona-fisica ordinamento (vedi avanti nel testo).
[xxxvii] Chiudevo così il mio Corpo e libertà, p. 308.
[xxxviii] Amartya K. Sen, Globalizzazione e libertà, tr. it., Milano, Mondadori, 2002, p. 52, sottolinea «l’inevitabile pluralità delle nostre identità». È interessante notare il ricorso al possessivo nostre, che presuppone la risoluzione del problema di chi? e di come ridotto/i a unità? (altrimenti non si può usare il nostre), che è giusto il tema affrontato in questo scritto.
[xxxix] Giorgio Manganelli, Centuria: cento piccoli romanzi fiume, Milano, Adelphi, 1995: il passo è tratto dalla centuria quarantotto.

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