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MANIFESTO PER UNA BIOETICA LIBERALE
 
E’ possibile nel nostro paese una bioetica liberale, una bioetica – intendo – che ponga deliberatamente al suo centro il valore dell’autonomia individuale, che riconosca una netta divisione tra sfera della morale e sfera della legge, che coltivi un autentico pluralismo etico?


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Un manifesto per gli allevamenti
E’ possibile fare della Bioetica in zootecnia ? A pamphlet for cattle-breeding
What about Bioetich in zootechny? Giuseppe Pallante
medico veterinario
(specialista in Clinica Bovina, specialista in Diritto e Legislazione Veterinaria)

Riassunto
Le performance attuali degli animali in allevamento hanno messo in luce i limiti di una zootecnia appiattita esclusivamente al valore funzionale dell’animale, determinando una dipendenza di necessità nelle scelte decisionali a svantaggio della libertà di operato e dell’assunzione diretta di responsabilità.
BSE, Sars e Influenza Aviaria rappresentano solo le manifestazioni più evidenti di un malessere che nel tempo ha contribuito a determinare una frattura dialogica prima ancora che di fiducia tra i principali attori (produttore/consumatore).
Una nuova saggezza biologica, la Bioetica, rappresenta un bisogno improcrastinabile nel campo delle produzioni degli alimenti di origine animale capace di rifornire di nuova linfa un settore che ha portato le sue produzioni agli estremi con tutti i possibili mezzi (genetici e tecnici) e ridotto l’intera materia soltanto e unicamente al suo valore commerciale.
Spetta al medico veterinario quale sintesi di garanzia professionale per il produttore e sanitaria per il consumatore ricucire la frattura attraverso un’immagine credibile di sé e del proprio operato recuperando i contenuti culturali e sapienzali che da sempre hanno rappresentato il “di più” della professione.
Il ruolo che emerge per tutte le figure coinvolte è quello di un bisogno di un’etica delle responsabilità condivise chiamata a guidare le decisioni all’interno di situazioni problematiche e sempre più conflittuali affidata al rispetto di tutti i soggetti, dove centrale non risulti l’atto in sé ma il soggetto che agisce.

Abstract
The current performances of cattle-breeding have brought out the limits of today’s zootechny, evened on the sole functional value of the animal, making thus the decision-making processes depend on necessity, to the detriment of the freedom of action and the direct taking of responsibilities.
In recent years, BSE, SARS and Avian Disease were only some of the most evident symptoms of a malaise that progressively contributed towards determining a dialogic split, and one of trust, between the main actors (producer/consumer) and the professional and scientific world.
It is only right and fair to ask oneself where zootechny is going and what instrument could somehow counterbalance the technical drift of this profession, in order not to fall into justificatory positions shirking off one’s responsibility.
A new biological wisdom, Bioethics, is an irremissibly need in the field of productions of animal origin in order to supply with new lymph a sector that has taken its productions to extremes with all available (genetic and technical) means and reduced the whole matter only and solely to its commercial value.
It is for the veterinary surgeon, as a synthesis of professional guarantee for the producer and sanitary guarantee for the consumer, to mend this tear by giving a credible image of him/herself and his/her actions and recovering those cultural and thoughtful contents that have always been the ‘added value’ of this profession.
What stands out for all the involved subjects is the need for an ethics of shared responsibilities, where the central issue is not the act in itself but the acting subjec

I valori etici non possono essere separati dai fatti biologici. (V.R.Potter, Bioetica la Scienza della Sopravvivenza)

In questa epoca, in cui simbolo di buona managerialità è interpretato assai più dai tagli di bilancio che dal volume degli investimenti è consentito parlare di etica nel settore zootecnico?
E ciò ha senso tanto più quando dall’esborso non può attendersi un pari ritorno economico, e, ancor meno, un profitto?
Il problema di correlare la Bioetica con le produzioni zootecniche è comprensibile in quanto per definizione si può considerare la stessa quale ponte tra la conoscenza biologica, la scienza dei sistemi viventi, e l’etica, per indicare la conoscenza dei sistemi umani di valore[1].
Una etica applicata che richiede una sapienza biologica oggi rappresenta una necessità indispensabile nel comparto delle produzioni di origine animale per dare nuova linfa ad un settore appiattito alla sola zoo-tecnica, che ha esasperato le produzioni con tutti i mezzi (genetici e aziendali) e ridotto il tutto solo ed esclusivamente al valore commerciale.
Ciò è meglio comprensibile se si considera che quando V. R. Potter coniò il termine Bioethics[2], secondo sue stesse dichiarazioni, fu influenzato da C. H. Wodington, professore di genetica animale a Edimburgo e autore del volume The Ethical Animal.
Le performance attuali degli animali in allevamento hanno messo in luce i limiti di una zootecnia appiattita esclusivamente al valore funzionale dell’animale, e all’ipotetico reddito spendibile dalle sue produzioni, selezionando le specie esclusivamente in funzione della tecnologia che la disciplina elabora: capezzoli per mungiture meccaniche, piede tecnologico da adattare al cemento, per non dire di integratori, stimolanti e correttori che quotidianamente compongono la razione alimentare[3] con il risultato che da oltre trenta anni non si fa altro che studiare e parlare di tecnopatie in termini sanitari.
Nel tempo la selezione si è sviluppata per singole voci - un sottoinsieme di sottoinsiemi che compongono singoli parametri - con il risultato di perdere la visione complessiva dell’animale, una sorta di patchwork genetico cucito alla meno peggio attraverso linee di sangue e razze spesso agli antipodi, e non solo in termini geografici.
Di tutto ciò è consapevole l’allevatore?
O forse che oggi la sua figura non rappresenti altro che il prestatore d’opera di indirizzi e di scelte cadute dall’alto[4]?
Come è pensabile che un allevatore trovi le giuste motivazioni per impegnarsi, quando a giorni alterni si costruisce un castello che immancabilmente viene distrutto il giorno dopo, addossando a lui e solo a lui i danni?
Oggi non siamo più di fronte a semplici strumenti tecnici, ma ad una forza potente - la tecnologia nel suo complesso - che sta trasformando in modo radicale le aziende agricole e da ultimo le nostre società - in termini di etica e consapevolezza - introducendo una brutale e ingannevole semplificazione del sistema, sintetizzata nei soli termini di aumento delle produzioni e contenimento dei costi quali unici modelli di riferimento per restare a galla sul mercato globale con risultati del tutto falsati rispetto alle aspettative indotte.
Un quadro dall’apparenza lineare e ineccepibile ma che presenta pericoli insiti spesso anche solo nella definizione delle parole, parole che ci vengono presentate concettualmente in modo totalmente diverso da quanto poi esse rappresentano nei fatti.
Per definizione le voci che compongono il capitale aziendale sono costituite da tre parametri:
1) le risorse naturali
2) le risorse umane
3) le risorse finanziarie
Di queste, la prima ad essere svilita è stato il capitale naturale, una continua perdita di valore a seguito di un processo di spaesamento dell’allevamento a) da qualsiasi realtà territoriale, b) dall’ambiente, attraverso la totale sottovalutazione di eventuali danni.
Centrale caduta di valore è toccata al soggetto animale che nel tempo si è ridotto a semplice e ingombrante strumento finalizzato alle produzioni e che una volta esaurita la sua funzione perde qualunque ulteriore valore: in tal senso la riduzione dell’animale a numero di matricola aziendale la dice lunga anche solo rispetto al patrimonio di zoonimia presente nella cultura rurale!
Svilito il capitale animale veniva di conseguenza svilito chi in esso investiva - l’allevatore - e quanti per essi si adoperavano, in primis il veterinario[5].
Privato dell’autorevolezza professionale il medico veterinario col tempo ha ceduto alla tecnica i più svariati ruoli gestionali dei diversi aspetti della mandria, senza sviluppare alcuno spirito critico ma adeguandosi passivamente ad essa e circoscrivendo nel tempo la sua azione a soli interventi correttivi - di sempre più basso profilo - con la conseguenza di essere esautorato dalle scelte decisionali e rimpiazzato in tutto dal fattore, con il solo risultato di limitare il suo ruolo al puro esercizio delle incombenze burocratiche.
Così il capitale umano ha perso ogni valore: la disoccupazione e le offerte di opportunità di lavoro in altri settori hanno ridotto il grande valore culturale e di saperi dell’allevatore a mero tecnicismo dove una bassa manovalanza col tempo si è andato a sostituire ad esso e magari, per quanto richiesto, a fare anche meglio.
La ripetitività dell’azione, la programmazione degli interventi e la gestione di massa di “valori” esclusivamente quantitativi - ciò è quanto richiesto e quanto può offrire l’animale macchina - hanno sradicato ogni necessità di sapere specifico anche solo di sapienza; in questo modo la professionalità si è talmente impoverita che altri lavori sono risultati comunque più appetibili.
In un periodo in cui si avverte grande ansia di cambiamento sociale le moderne tecniche di allevamento hanno provocato la perdita di un modello culturale radicato, causando un disorientamento profondo di un’intera generazione di allevatori che oramai non ha più la capacità di essere libero ma che si vede solamente imporre regole intorno a sé.
Infatti privato della grande portata etica della propria attività, l’allevatore, emarginato del suo sapere, anzi proprio in virtù della sua cultura - che sempre più cozza con l’imperativo tecnico dilagante - si è limitato a leggere il proprio quotidiano in soli termini remunerativi e a confrontare lo stesso con una serie di lavori simili per reddito, senza altro valore aggiungere o pretendere: una apparente semplificazione del proprio lavoro ma in ultima analisi della propria vita.
Da ultimo le stesse risorse finanziarie – ultimo baluardo per cui giustificare un’impresa - sembrano, di giorno in giorno, sgretolarsi.
Il dominio dell’apparato calcolante o della ragione economica, così come la definisce il filosofo Umberto Galimberti, alla cui razionalità si sottomettono sia i datori di lavoro che ogni tipo di lavoratore del settore (operai, tecnici e professionisti) risolve ogni attività lavorativa nell’ambito della ragione tecnica.
Una ragion tecnica capace di espellere l’uomo dalla scene della storia come soggetto di bisogni, in quanto i suoi bisogni hanno la possibilità di essere soddisfatti solo se compatibili con la redditività del calcolo economico, mentre come soggetto di azioni (siano esse lavorative, siano esse imprenditoriali) la sua rilevanza è data dalla sua produttività in ordine alla redditività economica, in riferimento alla quale, l’uomo e i suoi scopi sono ridotti a semplici grandezze variabili nel calcolo delle possibilità di guadagno e di profitto[6]. Il mito del di più e del meglio
Molti di quelli che negli ultimi anni hanno cercato di migliorare i loro allevamenti affidandosi ciecamente allo strumento della zootecnia si sono ritrovati alla fine con il chiudere l’attività[7] (vedi tab. 1 e tab. 2 ).
Se si vuole che gli allevamenti fioriscano si dovrebbe essere tutti interessati a capire come funzionano, a quali scelte sono sottoposti, quali sono i vincoli e quali le modalità di produzione.
In quanto agenti morali per noi tutti è fondamentale cercare di capire questo fenomeno non fosse altro perché la zootecnia contribuisce alle nostre scelte alimentari e quindi a soddisfare un nostro bisogno essenziale.
Storicamente la genetica in termini zootecnici ha voluto dire essenzialmente selezione: alle sue origini quasi esclusivamente fenotipica successivamente anche genotipica.
La sostanziale differenza tra la selezione descritta e riconosciuta in natura e quella zootecnica è che se nel primo caso la sopravvivenza e la capacità riproduttiva sono il risultato globale di un bilancio tra molteplici fattori ambientali e costituzione genetica individuale, nel campo delle specie domestiche di interesse zootecnico questo ruolo di selezione naturale è assunto dall’uomo[8].
Lasciando da parte la selezione naturale e concentrandosi solo su quella operata dall’uomo, come quella praticata in zootecnia, è possibile suddividerla grosso modo in due grandi famiglie: quella tradizionale, funzionale e applicata ad un problema contingente, e quella più contemporanea, tutta laboratorio, ovvero le grandi praterie degli organismi geneticamente modificati incluso quello (in mancanza di fantasia) della clonazione ovvero dei replicanti: con la brevettazione si chiude il ciclo della reificazione dell’alterità animale: l’animale esce dal consesso del mondo biologico per entrare nella categoria degli artefatti, dei prodotti, delle cose.[9]
In entrambe le 2 grandi aree il percorso è pressappoco identico: si pone un problema o forse sarebbe più giusto dire, gli si crea un bisogno ad hoc, quindi si cerca la soluzione (mai più di uno beninteso, altrimenti si inflazionerebbe il mercato) e tutti (dal produttore al consumatore) ci si adegua.
La vacca da latte, ad esempio, nel corso degli ultimi anni è stata analizzata e riprogettata per ottimizzare esclusivamente le parti che meglio servono all’uomo, a solo nostro uso e consumo: dalla doppia coscia alla mammella .
Una sorte di eugenetica zootecnica con il preciso scopo di produrre individui sempre migliori (!).
Pur ammettendo che ci fosse un consenso generale riguardo alcuni caratteri biologici da privilegiare, siamo sicuri che selezionare questo o quel carattere genetico non avrebbe portato alla lunga danni per altri parametri che non si erano al tempo previsti?
Le equazioni per singoli voci (latte, proteine, grasso, incremento ponderale, ecc.,) per cui si è da sempre in zootecnia selezionato geneticamente, hanno semplificato un quadro oltremodo complesso, in quanto, una caratteristica che si potrebbe considerare favorevole in sé, ma che abbassi anche di poco l’identità biologica di specie, può risultare negativa per tutti gli individui.
Senza entrare nell’eccessivamente tecnico qui è sufficiente ricordare come ogni carattere biologico dipende dall’azione combinata di diversi geni e che lo stesso gene contribuisce per lo più alla definizione di diversi caratteri biologici.
Di conseguenza è quasi impossibile avere un “effetto puro” per qualsiasi progettazione genetica: la biologia si difende, ogni cellula, ogni organismo, ogni popolazione, ogni ecosistema, nonché la terra nel suo complesso, tendono a resistere ai cambiamenti bruschi di qualsiasi natura[10].
Aldo Leopold ci ricorda come una cosa è giusta quando tende a preservare e proteggere l’integrità, la stabilità, la bellezza della comunità biotica. E’ sbagliata quando tende altrimenti[11].
Ma quale è effettivamente il contributo che la Bioetica può offrire per rifondare la zootecnia?
Cresciuto nel risentimento di classe[12] e nelle promesse di un’ideologia soprattutto votata a rinnegare la tradizione e l’amore simbiotico[13] verso il suo animale e l’ambiente che gli appartiene, all’allevatore non è rimasto che condividere l’idea di una tecnica dispensatrice di facili guadagni, un totemismo metafisico cui affidarsi per riscattare quella nostalgia del primordiale ed emergere dal branco del premoderno cui la società contemporanea lo rilega.
Quello che ci offre V. R. Potter è che i valori etici non possono essere separati dai valori biologici: ciò con cui ora dobbiamo fare i conti è che l’etica umana non può essere separata da una realistica comprensione dell’ecologia nel senso più ampio[14].
Bisogna prendere atto che è finito il tempo in cui era opinione diffusa far credere che la zootecnia potesse sintetizzarsi nell’esclusivo “di più e meglio” espanso all’infinito.
Oggi in mancanza di nuove ed organiche scelte Bioetiche è impensabile far fronte alla crisi del settore zootecnico, e ciò perché i risultati fin qui ottenuti dalla sola zootecnia hanno portato le aziende in un vicolo cieco dove l’unico strumento per la loro sopravvivenza è l’eterna correzione di una strada lastricata di errori.
Tra i motivi negativi finora conseguiti dalla zoo-tecnica e che pesano sul futuro degli allevamenti risulta evidente che: 1) Nessun artificio tecnico ha rappresentato un modello di valorizzazione dell’animale nel suo insieme.
2) Nessun obbiettivo di selezione genetica finora ha previsto un miglioramento della qualità della vita dell’animale.
3) Nessuno obbiettivo zootecnico e genetico ha contemplato la possibilità che le specie animali di interesse zootecnico continuassero a sopravvivere anche in mancanza dell’intervento dell’uomo. Il quesito imprescindibile per chiunque voglia descrivere la zootecnia contemporanea è: come raccontare un cambiamento costante e frenetico?
Come arrestarsi e guardare intorno quando l’idea stessa di una pausa di riflessione è impossibile?
Quando tutto cambia sempre - e ogni giorno obbiettivi diversi e contradditori si affacciano nel richiedere nuove soluzioni - la mente smette di registrarli, ovvero di riflettere e si limita ad eseguire (sic) senza più stupirsi.
I ritmi frenetici e gli obbiettivi impellenti assopiscono la percezione ed è necessario fare un grande sforzo per continuare ad osservare il tutto rileggendo in maniera critica ciò che sta accadendo, mentre lo stesso è in continuo movimento.
In sostanza la necessità di fornire risposte concrete e, di farlo nei tempi stretti dettati dall’urgenza, impone di non concentrarsi più sui singoli casi anche in presenza di un disaccordo tra i soggetti coinvolti nella decisione, affidandosi a chi la risposta la possiede già bella e confezionata.
Nel tempo si è fatto strada l’esigenza di spostare l’attenzione dal livello condiviso - e tra le voci anche quelle di natura etica - alla esclusiva scelta pratica maturata per restare sul mercato[15].
Un circolo vizioso folle e sempre più veloce così come lo richiedono i tempi attuali e a cui è impossibile porre un freno se non attraverso un totale cambiamento di rotta, consapevoli che la principale caratteristica che distingue l’approccio scientifico a un problema da quello non scientifico (comunque sia chiamato) è la consapevolezza che un’idea non è necessariamente valida solo perché sembra giusta al suo possessore e lo fa sentire bene[16].
La dipendenza dell’animale dall’uomo e l’uomo dalle scelte zootecniche ha fatto si che oggi nessuno può garantire una vita sana ad un animale con 100 quintali di latte a lattazione se non attraverso una serie di interventi tecnologici, sanitari e alimentari.
Una dipendenza e interdipendenza con continui correttivi che gravano esclusivamente sull’allevatore e in ultima istanza sulla vita dell’animale.
Oggi è necessario stabilire un sistema di priorità diverso da quello a cui ci si è affidati, perché tanto, troppo, si è atteso senza alcun successo credibile: una rincorsa continua all’ultimo ritrovato, all’ultima tecnologia, all’ultimo farmaco; con il solo risultato di tamponare le falle sempre più grandi che si sono venute a realizzare.
Ciò che resta in assoluto di più tragico è l’incapacità a fare tesoro degli errori effettuati, ma perpetuare accumulando errori su errori, con l’illusione che forse la prossima sarà la volta buona.
Se c’è la necessità di mantenere la zootecnia negli allevamenti per mantenere un determinato standard a cui non è più possibile a giorni d’oggi rinunciare, la Bioetica può favorire scelte che in qualche modo contribuiscono a far star bene, e star bene spesso è la prima cosa di cui si ha bisogno.
Introdurre la Bioetica negli allevamenti ci permette di riesaminare il percorso fin qui intrapreso cercando strade migliori e saperi condivisi che si intersecano tra più discipline e non attraverso l’appiattimento che la sola tecnica propone.
La Bioetica si presenta dunque come un “esercizio costitutivo” di promozione e tutela di tutti i soggetti in campo, mediante il riconoscimento del valore unico e individuale di ciascuno delle risorse: naturali, umane e buon ultimo, finanziarie. Il punto critico: risorse finanziarie e mercati globali La parola globalizzazione, ogni qual volta si parla di prodotti alimentari ricorre con insistenza nella mente del produttore, ma sono sempre gli stessi schemi di pensiero a scontrarsi di continuo: mercati globali come sinonimo di liberalizzazione contro localismo, ovvero protezionismo, in una contrapposizione che non consente di porre veramente in luce tutto il campo delle politiche possibili.
Un pensiero che si impone forte, una sorta di aut/aut , necessariamente parziale ma agevolato dalla ampiezza dei fenomeni che percepiamo e che quotidianamente ci martellano, in alternativa al possibile et-et , indubbiamente più articolato a confronto con le nostre limitate conoscenze di come va il mondo.
In effetti, a ben esaminare, il mercato reale globale oggi si rappresenta come il luogo dove si affrontano iperpotenze o super potenze che poco lasciano di margini di trattativa a chi tale non è, con risultati assai lontani dal quel liberismo descritto nei manuali di economia che ci si vuole far credere.
In conclusione c’è molto più pericolo di forme di protezionismo nei mercati globali - i famosi cartelli delle multinazionali - dove pochi soggetti determinano la politica mondiale, che non nei tanti piccoli produttori, dove è più difficile confrontarsi e trovare una politica di accordo comune, essendo spesso diverse le motivazioni alla base (culturali, ideologiche ma anche territoriali, di identità, ecc.), lasciando, così al solo mercato, ovvero al consumatore, reale libertà di scelta.
Al contrario protezione nelle produzioni non necessariamente può voler significare protezionismo, ovvero assistenzialismo e scarsa concorrenza.
La protezione se ben pilotata si manifesta in forma pluridimensionale e assume forme dinamiche con effetti positivi su tutti gli attori del processo, a partire dai vantaggi che se ne possono ricavare dal territorio (ad es. la sostenibilità ambientale) per finire alle scelte dei consumatori che premierebbero (ora si! su di un mercato realmente diversificato) chi più in sintonia con il proprio sentire (non agganciati come oggi al solo parametro economico, ma anche etico, sociale, nutrizionale, culturale, territoriale, ecc. ecc.).
In altre aree di intervento pubblico quale l’insegnamento o la ricerca infatti non si parla di protezionismo proprio perché si è consapevoli che solo nella difesa delle propria autonomia professionale può nascere una forza lavoro, non solo più produttiva, ma in particolare più capace di innovare a vantaggio di tutta la società.
Inoltre un sistema di protezione sociale rappresenterebbe un formidabile incentivo all’assunzione individuale del rischio, all’innovazione e al gusto dell’iniziativa imprenditoriale.
Iniziativa imprenditoriale che proprio nel settore zootecnico sembra la più svantaggiata, tanto da essere sempre meno appetibile per le nuove generazioni, sempre più emarginate da un sistema che richiede loro solo tecnologia e prassi a cui adeguarsi.
L’ipotesi di un nuovo appeal professionale innescherebbe un circuito virtuoso non solo alla base (nelle produzioni) ma in conseguenza in tutti i settori ad esso connessi, dagli eventuali fornitori al consumatore, dal territorio circostante all’ambiente tout court, dalla ricerca alla professione veterinaria.
Il fatto che l’intera società non abbia ancora richiesto agli allevatori di farsi carico del costo di deterioramento del territorio e della rottura degli ecosistemi rappresenta già in sé la necessità di individuare a breve le eventuali modifiche da porre in veci dell’attuale modello di produzioni e di allevamento.
Prendendo uno degli ecosistemi più fragili dell’Europa come quello dell’Arco Alpino ci si dovrebbe chiedere come dovrebbero essere valutate, ad esempio, le bovine in loco?
In base alla esclusiva quantità di latte che annualmente viene prodotto, oppure in relazione al fatto che nel medesimo periodo la loro popolazione contribuisce alla gestione del territorio e al mantenimento del Sistema Alpi, compreso le risorse umane?
Nel 1981 due ecologi dell’Università di Stanford, Paul e Anne Ehrlich proposero l’ “ipotesi dei rivetti” in cui veniva paragonato un ecosistema ad un aereo composto da tanti sottoinsiemi (i rivetti) che lo tengono insieme.
La perdita di singoli sottoinsiemi non modifica all’apparenza né l’aereo né la sua funzione, ma a lungo andare sarà proprio la mancanza di questi “rivetti” soppressi ad accelerare il suo degrado:
Gli ecosistemi, come gli aeroplani ben costruiti, dispongono di una serie ridondante di sottosistemi e di altre caratteristiche “progettuali” che consentono loro di funzionare anche dopo una serie di maltrattamenti. Di una dozzina di rivetti, o di specie, si potrebbe non avvertire la mancanza. D’altro canto, l’estrazione di un tredicesimo rivetto dal flap di un’ala, o l’estinzione di una specie chiave coinvolta nel ciclo dell’azoto, potrebbe provocare un grave incidente. [17]
Gli Stati dispongono di un ampio arsenale di strumenti mirati a seconda degli obbiettivi prepostisi da usare saggiamente, evitando qualunque intervento di natura general generica, o ancor peggio, di distribuzione a pioggia, o clientelare politica.
Attribuire un valore finanziario alle prestazioni etiche per le aziende non dovrebbe essere più difficoltoso del raggiungimento degli obbiettivi tecnici e delle modifiche genetiche suggerite quotidianamente: è evidente che ciò richiede dei tempi, ma essi non sono più lunghi di un qualsiasi obbiettivo atteso, e comunque risulterebbero prive di quelle controindicazioni cui periodicamente serve poi porre rimedio.
E’ necessario per tutti comprendere come un insieme di scelte etiche condivise potrebbe offrire vantaggi ad un intero sistema (ambientale, territoriale, sociale, umano, finanziario), mentre gli obbiettivi zootecnici ancora oggi garantiscono un profitto diretto nella migliore delle ipotesi esclusivamente a chi ne fa uso. Il nodo centrale: le scelte condivise Partendo dal pensiero Kantiano che tutti i principi etici sono principi per tutti, non resta altro che stabilire delle priorità condivise.
Una prima riflessione si pone quindi su cosa si dovrebbe fare, e cosa non si dovrebbe fare[18].
Risulta evidente che in aree come la medicina veterinaria, la zootecnia e le biotecnologie la richiesta di una adeguata specializzazione e competenza pone gli allevatori nell’inevitabile condizione di asimmetria.
Diviene pertanto necessario spostare il focus sulle questioni etiche per permettere ad ogni singolo attore di esprimere il proprio personale contributo senza risultare deficitario e nel contempo andando oltre l’esclusiva utilitaristica[19] proposta o richiesta.
In questi casi un esercizio costitutivo - la Bioetica - pone tutti nella necessità di interrogarsi, ad esempio se adottare i geni delle bovine all’attuale stile di vita ipertecnologizzato (capezzoli standard per mungitrici meccaniche, piede adattato per pavimenti di cemento, ecc.) piuttosto che adottare lo stile di vita ad un patrimonio genetico selezionatosi nei secoli.
Quando la tecnologia viene applicata alla vita biologica - umana e non umana - nascono una serie di problemi di ordine morale[20] che meriterebbero una speciale considerazione, fosse anche per le sole conseguenze che possono scaturire da certe modalità.
Per giustificare determinate scelte occorrerebbe quanto meno spiegare perché si tende ad approvare moralmente tutta una serie di misure anche molto invasive. Appellarsi al mero fatto che altrimenti si resterebbe fuori da ogni mercato significa assumere come risposta una tesi che abbisogna invece di giustificazione.
Accettare in linea di principio senza altro interrogarsi, significa cedere all’imperativo tecnologico che ci porta a colonizzare il mondo con le nostre creazioni.
Il criterio di demarcazione non può in nessun modo essere un’ingenua equazione di costi/beneficio ma la risultante ben più articolata di accrescimento o riduzione della qualità della vita per gli umani e i non umani.
La Bioetica con il suo ruolo di “cerniera” apre al dialogo ricucendo la frattura secolare, troppo comoda ed esemplificativa per molti, tra conoscenza biologica e finalismo etico, proponendo una saggezza biologica che richiede per ognuno uno sforzo su di sé: vivere insieme per costruire un destino comune.
A volte momenti di crisi - come quella che sta vivendo il settore zootecnico attuale - possono risultare estremamente importanti perché, se svolti con spirito libero, offrono la possibilità di arricchirsi grazie al dialogo tra le diverse componenti.
Al contrario, negare ogni diversità o pluralità, riducendo ogni percorso ad imbuto, sarebbe devastante: bisogna darsi i mezzi per poter far coesistere il riconoscimento ad una propria identità e lo sforzo necessario per favorire un progresso non invasivo.
Bisogna guardare il presente con occhi disincantati, ripercorrere le tappe del lungo cammino attraversato e le modifiche che negli ultimi decenni hanno coinvolto il settore, soffermandosi su ognuna di esse.
Avanzare ovvero progredire non necessariamente vuol dire essere sempre pronti ad accettare l’ultimo ritrovato o l’ultima tecnologia, supinamente, ma diventare consapevoli delle scelte e dei condizionamenti cui inevitabilmente ci si sottomette.
Le attuali lacune della zootecnia sono riconducibili ad una conoscenza forviante e di parte di nuovi bisogni e di nuovi obbiettivi non condivisi, se non attraverso la sensazione della soluzione ad un problema contingente, o generato ad hoc.
In questa prospettiva il medico veterinario deve soprattutto impedire che le esigenze di singoli comparti - sorveglianza, selezione e controllo - fungano da motore riposizionando la centralità delle scelte condivise e della conoscenza delle varie professionalità messe in campo.
Un’unica forza preponderante non si presta a vantaggio di nessuno e men che meno alla professione veterinaria: i principi etici sono i candidati più comprensibili e promettenti per l’incremento degli scambi di conoscenze e di condivisione delle scelte.
Invece di valutare i vantaggi e gli svantaggi in modo globale, siamo intrappolati in una gara per decidere chi “ha vinto” o chi “ha ragione”: ragione e torto derivano da una logica causale unidirezionale.
Sicuramente le gare sportive soddisfano questo approccio ma in una complessa situazione di gruppo vi sono grossi svantaggi[21]: 1) si finisce con il provocare una guerra di parole
2) si smette di ascoltarsi reciprocamente
3) si usano i propri argomenti come arieti
4) si manca di dare all’altra persona riconoscimento e soddisfazione per i punti con i quali si concorda
5) le dimensioni complesse della realtà vengono ridotte

Spesso è molto più incisivo ascoltare idee su cui riflettere che non verità da “mandar giù”: non bisogna mai dimenticare che il linguaggio è contagioso!
Concetti quali consenso informato e alleanza terapeutica, ad esempio rappresentano sicuramente strumenti professionali conosciuti e già a disposizione di tutti, ma bisogna fare in modo che entrino nelle pratiche quotidiane onde evitare facili soluzioni o accettare compromessi di necessità al solo scopo di svolgere la parte del comprimario in scelte che di fatto emarginano il veterinario sempre più dal contesto aziendale.
I consigli, le raccomandazioni e le riflessioni che possono svilupparsi nel confronto non si esauriranno nel protocollo scientifico adottato, ma devono saper dire qualcosa che va “oltre” .
Dall’applicazione di scelte condivise (vedi tab. 3) ci si aspetta che l’identità e le attitudini di tutti gli attori coinvolti nel settore siano più importanti delle esclusive produzioni e del mercato.
Tutto ciò è diventato necessario per recuperare un senso alle azioni e alla professione, liberando tutti dai vecchi lacci che ancora costringono a rappresentare e rappresentarsi in maniera inerziale e antietica: la posta in gioco è la conquista dell’autocoscienza.
Autocoscienza che inevitabilmente si materializza dal momento che non si dipende più da scelte altrui (imposte o di necessità) ed in cui ci si rispecchia, ma attraverso un processo autonomo e responsabile.
Le scelte condivise rappresentano lo snodo di un lungo percorso di recupero di identità e di valori che portano ad incrementare nuove energie nel settore attraverso l’uso consapevole di sinergie professionali. Quale Bioetica: un manifesto per gli allevamenti
L’attuale tecnologia obbliga tutti ad essere etici[22] [23].
In nome del progresso, si è distrutto un ordine e si sono annichiliti saperi secolari, sostituiti dalla specializzazione delle professioni, dalla meccanizzazione, con conseguenze immense sull’ambiente e sull’alimentazione con effetti che sono sotto gli occhi di tutti, e dei quali è prevedibile l’acutizzarsi nell’immediato futuro.
Il primo grande compito del veterinario aziendale oggi è quello di cogliere questo momento di crisi nel settore e compiere tempestivamente scelte intelligenti necessarie, perché l’insieme delle tecnologie messe in campo dalla zootecnia si risolvano in un rafforzamento complessivo di tutti i protagonisti non ultimo quello del valore animale.
Di fronte ad una realtà complessa, nella quale convivono società del rischio e società della conoscenza, il veterinario non deve scegliere tra il bene e il male, ma farsi mediatore ribadendo la sua storica e insostituibile funzione di garante della sicurezza e del valore delle parti in gioco.
Le questioni bioetiche sono ormai considerate centrali nel dibattito culturale e scientifico, e la medicina veterinaria non può abdicare al dovere intellettuale di esercitare l’arte analitica in suo possesso, di distinguere i differenti casi, e valutarli nel merito specifico in virtù di un sapere zooiatrico e deontologico.
La storia della moderna zootecnia insegna che le forze della natura non possono facilmente essere manipolate per i bisogni a breve termine dell’uomo senza che la società incorra in molte conseguenze a lungo termine che non sempre possono essere previste[24].
La sfida lanciata dalla Bioetica non riguarda soltanto la necessità di trovare nuovi equilibri in zootecnia tra la logica del profitto tout court ed un modello sostenibile, ma investe lo stesso modo d’intendere il lavoro.
L’assunzione di un certo numero di principi come base condivisibile può fungere da apripista all’interno della professione, facendo emergere sensibilità e modo di vista decisamente più articolati che l’attuale panorama lascerebbe intravedere.
In tal senso la Bioetica può fornire il suo contributo attraverso alcune linee di intervento che possono essere così riassunte: 1) Evitare una zoo-tecnica che non preveda una conoscenza condivisa
2) Evitare una zoo-tecnica che prenda il sopravvento con lo scopo unico di adeguarsi a scelte imposte
3) Evitare una zoo-tecnica che veicoli messaggi semplicistici e forvianti senza una attenta analisi delle modalità, dei tempi e delle eventuali ricadute
4) Evitare una zoo-tecnica decontestualizzata dalle opportunità del territorio
5) Evitare una zoo-tecnica non rispettosa dell’ambiente
6) Evitare una zoo-tecnica non rispettosa della salute dei consumatori
7) Evitare una zoo-tecnica non rispettosa della salute e della sicurezza degli operatori
8) Evitare una zoo-tecnica non rispettosa della salute e del benessere animale
9) Evitare una zoo-tecnica che porti ad una perdita del valore di servizio delle singole figure
10) Evitare una zoo-tecnica che non preveda una responsabilità etica e sociale dell’azione. Questo linee mettono in evidenza come i fattori influenti nella crisi attuale del comparto non sono tanto quelli economici, come semplicisticamente si vuol far credere, quanto piuttosto quelli sociali e culturali.
Non sono riferimenti retorici: la zoo-tecnica è piena di promesse, ma se guardiamo al mondo reale ci scontriamo con risultati catastrofici in ogni parametro da essa veicolato.
Pur considerando probabilmente la disciplina zootecnica come uno stadio necessario nell’evoluzione della domesticazione degli animali da reddito, non bisogna confondere la causa con il suo effetto.
A questa tendenza bisogna reagire, non solo per fuggire ad una deriva esclusivamente tecnicista ma al pericolo vero di una totale debacle che coinvolgerà inevitabilmente l’intero settore[25]. Conclusioni
Sono consapevoli i veterinari della grande opportunità che può offrire la Bioetica alla valorizzazione della professione?
Il veterinario da sempre ha più compiti: garantire salute e benessere alla mandria e indirettamente all’uomo, aiutare l’allevatore a crescere e immancabilmente crescere ed evolvere noi stessi sia in termini professionali che umani.
I risultati attuali della moderna zootecnia impongono una nuova alleanza che si risolva in un riconoscimento di complementarietà tra discipline mediche e bioetiche capace di ripensare alcuni aspetti fondamentali della ricerca in zootecnia e di concentrare massimamente l’attenzione su temi e problemi, concettuali e metodologici, oggi sempre più centrali.
A mio parere due sono i fatti che al momento sembrano poter essere evidenziati come limite ad un processo di diffusione della pratica Bioetica nell’esercizio della professione veterinaria.
La principale ragione della trascuratezza credo stia nella formazione: l’elevato aggiornamento professionale richiesto negli specifici ambiti di intervento (clinico, chirurgico, legislativo, alimentare, ecc.) prevedono un dispendio di risorse che spesso esaurisce tutte le (poche) forze ancora disponibili del quotidiano operare in campo.
Il secondo motivo penso sia imputabile ad una scelta unidirezionale in termini professionali tra principi generali (e quindi anche etici), e conseguenti tecniche specialistiche; dove l’attenzione si concentra troppo sul secondo aspetto a discapito del primo.
L’acquisizione di una formazione etica, libera all’improvviso uno spazio dinanzi alla professione non solo in termini di autonomia, ma di pensiero e valorizzazione dell’azione.
Uno spazio tra libertà individuale e individuali necessità che può essere responsabilmente colmato e che permette a ciascuno di raggiungere un certo grado di soddisfazione senza specifiche costrizioni o compromessi.
Un modesto investimento nella formazione, con più attenzione verso i principi generali potrebbe fruttare enormi benefici alla stessa tecnica messa in campo ponendola in un piano di equità tra forze e non solo quale unico metodo di giudizio o di scelta.
D’altro canto non è più pensabile ad un processo collettivo di auto-assoluzione attraverso l’esclusiva applicazione delle regole deontologiche a cui si ispira la professione: ragioni evidenti quotidianamente confortano l’affermazione che non è più possibile affidarsi all’esclusiva operatività garantita dalla norma deontologica quale strumento di autoregolamentazione dei doveri di una professione.
Nel momento in cui la pratica medica tende a far ricorso a categorie di più ampia portata come ad esempio la qualità delle produzioni o il benessere animale il professionista deve saper interpretare e giustificare questi interventi attraverso specifiche competenze.
In questa prospettiva la norma deontologica, se ha una specifica competenza per inquadrare e motivare il comportamento professionale del veterinario, non c’è l’ha nel fornire indicazioni sostanziali nei confronti di scelte di fondo culturali, etiche e ambientali con cui non è più possibile non confrontarsi.
Una significativa testimonianza a riguardo è il rapporto conclusivo (Belmont Report, 1978) dei lavori a cui è arrivato oltre trent’anni fa il primo Comitato Bioetico Statunitense, la National Commission for the protection of human subjets of Biomedical and behavioral research (1974-1978) dove tra le altre considerazioni risulta esplicitato a chiare lettere l’opportunità del passaggio dalle norme deontologiche ai principi etici:
I Codici sono costituiti da norme, alcune generali, altre specifiche, che guidano i ricercatori e i Comitati di Revisione Istituzionali nella realizzazione dei loro compiti. Spesso queste norme non giungono a coprire le situazioni complesse: a volte entrano tra loro in contraddizione ed è quindi difficile interpretarle ed applicarle. Principi etici più generali serviranno da base per formulare, criticare e interpretare le norme particolari [26].
Oggi che incombono scelte decisive per il futuro di noi tutti si pone il problema di una necessaria “contaminazione” tra più saperi, perché la posta in gioco sta risultando così alta che è impensabile che un singolo attore o una singola professione da solo possa determinare l’esito delle scelte.
Il profilo che emerge è dunque quello di un bisogno per tutta la categoria di un’etica delle responsabilità condivise, chiamata a guidare le decisioni all’interno di situazioni problematiche e sempre più conflittuali, affidata al rispetto di tutti i soggetti, dove centrale non risulti l’atto in sé, ma il soggetto che agisce. T E O R I E E T I C H E
(basi o modelli di riferimento) P R I N C I P I
(guide generali dell’azione) R E G O L E O N O R M E

(guide specifiche dell’azione, leggi)

G I U D I Z I P A R T I C O L A R I

(determinano la decisione)

Modello applicativo con cui procedere nei percorsi condivisi

Tab. 3

Aziende con allevamenti per regione. Anni 1990 - 2000

Tab. 2

Tab. 1 Fonte ISTAT
Dati on line
http://censagr.istat.it/principalirisultati.pdf

[1] V.R. Potter (1975) Humility with responsibility – A Bioethics for Oncologist: Presidential Address, in “Cancer Research”, 35 , p.2297
[2] V. R. Potter (2000) Bioethics: Bridge to the Future , Prentice Hall, Inc., Englewood Cliffs, New Jersey; tr. It. Di R. Ricciardi , Bioetica : ponte verso il futuro, Sicania, Messina.
[3] AAVV a cura di A. M. Rivera (2000) L’universo alimentare dell’animale domestico è stato completamente stravolto: si è passati dall’alimento povero, ma naturale e in linea con la sua fisiologia, all’alimento ricco, che tuttavia nasconde, sotto la ricchezza proteica ed energetica, striscianti minacce di contaminazione. A partire dagli anni Ottanta la zootecnia diventa un’attività di riciclaggio. Non c’è sostanza che non possa essere utilizzata per placare la fame del grande golem zootecnico: paglia trattata con ammoniaca, polpa di bietole esauste, panelli di estrazione degli oli …. e quant’ altro.; in Homo Sapiens e mucca pazza: Antropologia del rapporto con il mondo animale; Dedalo, Bari; p. 135-136.
[4] R. Marchesini (1996) …l’operatore zootecnico è punto di confluenza di diverse spinte ben più forti, ha a che fare con partner ben più competenti e convincenti, per esempio l’industria farmaceutica a cui la zootecnia è stata data in pasto al pari di altre comparti quali la sanità e l’agricoltura. Logiche economiche sì, ma non a vantaggio dell’allevatore. Le stesse università, non immuni da medesimi vincoli, hanno fornito basi teoriche per questa mentalità sfornando agro-zootecnici e veterinari convinti della necessità di trasformare l’attività di allevamento in attività altamente meccanizzata. ; in Pollo Alla diossina o mucca pazza: cosa si mangia oggi? Dagli allevamenti industriali alla nostra tavola; F. Muzzio ed., Padova, p. 248.
[5] R. Marchesini (2001) Il veterinario era colui che preservava il capitale animale: faceva partorire le femmine gravide, dava consigli sull’alimentazione dei capi, sugli andamenti di stagione, sulle patologie che si affacciavano sul territorio, sul modo migliore di gestire tale patrimonio, ma soprattutto era chiamato a intervenire ogni volta che una particolare noxa minacciava la vita o le prestazioni dell’animale. Presente nel rito della macellazione, nel verificare la salubrità delle carni, nel momento magico del parto, nell’acquisto e nella vendita del bestiame, il suo era un compito che andava oltre la semplice consulenza zooiatrica, per assumere il profilo dell’amico e dl confidente. Bioetica e Scienze Veterinarie; ESI, Napoli; p. 47
[6] U. Galimberti (2007) Capitale uomo. Quando la ragione diventa valore d scambio; in occasione del II edizione del Festival dell’Economia, Trento; inserto de La Repubblica, 23/05/07; p. 47.
[7] ISTAT (2007); Alla data del 22 ottobre 2000, le aziende agricole italiane che praticano l’allevamento di bestiame risultano essere 675.835, pari al 26,1% del totale. Si tratta di un dato inferiore del 35,2% a quello rilevato nel 1990,che indica l’abbandono della pratica zootecnica da parte di un gran numero di aziende. L’analisi per classe di superficie totale mostra, tuttavia, che la contrazione ha interessato in misura assai più notevole le aziende piccole e medie (fino a 10 ettari) e in misura più ridotta le aziende di grandi dimensioni (oltre i 10 ettari). http://censagr.istat.it/principalirisultati.pdf
[8] E. Borgioli (1985) Genetica e miglioramento degli animali agricoli; Ed agricole, Bologna; p.179.
[9] A. M. Rivera (a cura di) (2000); Op. cit.; p. 142.
[10] E. Boncinelli (2003), Bioetica dal vivo; in aut aut a cura di L Boella; 318, 2003; p. 23.
[11] A. Leoplod (1949) , A Sand Country Almanac; Oxford University Press, New York, p.224.
[12] R. Marchesini (2001) Il processo di industrializzazione, voluto e pianificato, richiama nei grandi centri urbani ingenti masse di persone che desiderano costruire un futuro migliore per i loro figli. La cultura rurale viene desertificata dalla spoliazione delle sue risorse umane. E’ un grande esodo che coinvolge milioni di persone che nel giro di pochi decenni lasciano il luogo natio, il lavoro, le tradizioni. Questo cambiamento porta a considerevoli mutamenti nel panorama zootecnico, è la cultura stessa a trasformarsi, dando vita a situazioni che anche da un punto di vista imprenditoriale si presentano totalmente differenti.; R. Marchesini, op. cit., p. 48.
[13] A. M. Rivera (a cura di) (2002) Secondo Jean-Pierre Digard (1990) il rapporto con l’animale corrisponde ad una specifica vocazione dell’uomo, cosicché – sempre secondo tale autore - il processo di domesticazione può essere definito come “antropologia di una passione” ; op. cit. ; p. 124.
[14] V. R. Potter (2002) Bioetica. La scienza della sopravvivenza; a cura di F. Bellino, Levanto editori, Bari; p.59
[15] A.M. Rivera (2002) … presso l’Università dell’Illinois è stato sviluppato un ES (Exspert System) per aiutare l’allevatore nella decisione di sostituire gli animali presenti in azienda. Questo ES fornisce suggerimenti circa l’opportunità di vendere le manze, le vacche in produzione o gli animali a fine carriera sulla base dei dati produttivi, riproduttivi e genetici, dei costi di alimentazione, del prezzo del latte, ecc. .; op. cit. A. M. Rivera; p. 134.
[16] V. R. Potter (2002) , op. cit. , p.75.
[17] Y. Baskin (2005) Extinction: The Causes and Consequences of the Disappearances of Species, P. R. Ehrlich / A. H. Ehrlich ; New York: Random House, 1981, pp. XII-XIII; brano tratto da Il pasto gratis. La complessità della natura come chiave dello sviluppo umano; Instar libri; Torino; p. 19.
[18] Y Baskin (2005) …gli appelli di matrice etica alla salvaguardia delle specie sono tutt’ora predominanti, e sono sostenuti dalle tradizioni spirituali della maggior parte delle culture che considerano la vita sul Pianeta una questione morale. Nel migliore dei casi, l’etica della tutela ambientale del mondo occidentale fa leva sul senso di responsabilità, sul dovere di proteggere e di prendersi cura degli unici compagni dell’uomo sinora conosciuti nell’universo. Malgrado il suo nobile intento, tale impegno morale si è rilevato insufficiente per la difesa dell’ambiente. Continuiamo, infatti, a degradare e impoverire le comunità biologiche a un ritmo senza precedenti. Le cause di una simile follia sono complesse: dalla disperazione provocata dalla povertà alla pura ignoranza o persino all’assoluta indifferenza riguardo agli effetti delle nostre azioni. Nella loro storia, spesso le società umane hanno deplorevolmente accantonato gli imperativi morali nel momento in cui acquisivano stili di vita più confortevoli e prosperi. , in Il pasto gratis: la complessità della natura come chiave dello sviluppo umano; op. cit., pp. 14-15.
[19] L. Battaglia (2002) E’ in nome di tali valori umanistici che sembra possibile superare il “ minimalismo etico” ovvero quella sorte di parsimonia morale o avarizia di sentimenti che fa coincidere le barriere della nostra specie coi limiti estremi della moralità.; in Alle origini dell’etica ambientale; Dedalo, Bari; p. 67.
[20] I. Kant (1984) Poiché gli animali posseggono una natura analoga a quella degli uomini, osservando dei doveri verso di essi osserviamo dei doveri versi l’umanità, promuovendo con ciò i doveri che la riguardano; in I doveri verso gli animali; Laterza, Bari, p. 273.
[21] J. K. Liss (1988) La Comunicazione ecologica; edizioni La Meridiana, Bari.
[22] Y. Baskin (2005) E’ tempo di integrare il nostro senso del dovere nei confronti del Pianeta, in qualità di suoi amministratori,con un senso di autoconservazione, riconoscendo che, a dispetto del nostro crescente distacco dalla natura, da lei dipendono anche le società urbane.; op. cit. , p. 263.
[23] R. Holloway (2004) … sono sempre più gli scienziati convinti che sia proprio la natura a costituire la migliore base per l’etica, perché ci spinge a vivere con prudenza e a prenderci cura gli uni egli altri, così come a occuparci della terra su cui viviamo, se vogliamo sopravvivere e prosperare; in Guardare lontano: per una spiritualità senza religione; Ponte alle Grazie, Milano, p.36.
[24] V. R. Potter (2002) ; op. cit., p.85.
[25] U. Galimberti (2007) Se il pensiero è limitato al calcolo tipico della ragione strumentale, forse le imprese che si regolano esclusivamente su questo tipo di pensiero si precludono la capacità di anticipare e governare i cambiamenti, col risultato che avranno sì una storia, ma non un futuro, per aver trascurato il capitale umano che ha ritmi di accumulazione radicalmente diversi dal capitale finanziario.; op. cit. p. 47.
[26] The Belmont Report. Ethical Principles and Guidelines for the protection of human subjects of research. National Institutes of Health, Regulation and Ethical Guidelines. Via internet: http://ohsr.od.nih.gov./guidelines/belmont/html

 

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