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di Tiziana Bartolini

Curare chi si ammala è un 'prendersi cura', una categoria delle relazioni umane che è oggi al centro dell'attenzione del mondo

L'epidemia causata dal coronavirus ci sta costringendo a rivedere e modificare - e in alcune zone dell'Italia anche a sospendere - comportamenti, consumi, organizzazione della vita quotidiana. Il fatto che sia la prima epidemia al tempo dei social media costituisce una novità di non poco conto rispetto alla velocità con cui informazioni, vere e false, si propagano amplificando paure e reazioni. L'incertezza è un sentimento diffuso: sui tempi (quanto durerà l'epidemia e l'emergenza?), sulle cure (arriverà un vaccino?), sugli effetti (effetti negativi sull'economia e sulle abitudini ormai consolidate come, per esempio, la possibilità di viaggiare liberamente), sulle scelte da fare e sul loro impatto nel presente e nel futuro prossimo. Ci domandiamo se questa epidemia sia destinata ad incidere in modo più profondo nella percezione di noi stessi/e nel mondo e sentiamo la necessità di soffermarci su alcuni aspetti con la professoressa Luisella Battaglia, professoressa di Filosofia Morale all'Università di Genova, componente del Comitato Nazionale di Bioetica e fondatrice dell'Istituto Italiano di Bioetica. Sarà un piccolo ciclo di brevi interviste che si soffermeranno su temi specifici che l'epidemia pone in evidenza. Iniziamo dal tema del PRENDERSI CURA.

Professoressa Battaglia, soffermiamoci sul tema del 'prendersi cura'. In sostanza quello che sta avvenendo negli ospedali oppure nelle zone rosse è proprio questo: c'è una attenzione particolarmente amplificata rispetto alle persone che hanno sintomi o che sono entrate in contatto con loro. Una categoria - il prendersi cura - che fino a due settimane fa poteva sembrare relegato a situazioni limitate è improvvisamente al centro della vita di milioni di persone. Quale è in questo senso la sua impressione?
Mi è tornata alla mente una riflessione della filosofa Judih Butler in Vite precarie – una raccolta di saggi scritti dopo la tragedia delle Twin Towers – circa la “possibilità di trovare un fondamento di comunità” a partire dalla condizione di vulnerabilità. A suo avviso, riconoscere di essere vulnerabili significa uscire da una prospettiva individualistica per accedere a una visione relazionale capace di recuperare il legame di responsabilità collettiva per la vita l’uno dell’altro. Oggi la minaccia incombente di un pericolo che ci coinvolge tutti, l’esposizione a un rischio da cui nessuno può sentirsi esente, può contribuire a rafforzare la percezione della nostra costitutiva fragilità: un sentimento nuovo per una società che si pensava invulnerabile, potenzialmente in grado di controllare tutto. Ecco che l’attenzione può divenire elemento etico fondamentale del prendersi cura e generare effetti costruttivi: solidarietà, empatia, l’aprirsi al vissuto delle persone col loro carico di sofferenze. È all’origine, certamente, della dedizione, talora eroica, di cui stanno dando prova medici, operatori sanitari che testimoniano coraggiosamente virtù legate alla professione medica - che rischiavano di essere dimenticate o sottovalutate nella crescente burocratizzazione dell’azienda sanitaria - ma anche della solidarietà espressa dai piccoli gesti quotidiani di chi sente di far parte di una società in cui gli individui si prendono cura gli uni degli altri. Una capacità che dovremmo riconoscere come elemento costitutivo della nostra umanità.

 

Quanto di positivo le sembra derivare da queste circostanze?
L’epidemia del corona virus è stata definita la prima emergenza globale che vive il mondo dopo la rivoluzione digitale. Avendo scatenato paure tanto profonde dovrebbe anche essere l’occasione di riflettere su tutto quello che sta cambiando sotto i nostri occhi. In una società come la nostra, ancora dominata dalla categoria del rischio, la paura del contagio e il timore di una contaminazione generalizzata hanno generato effetti distruttivi, originando spesso comportamenti che hanno portano alla stigmatizzazione di singoli individui o di fasce intere di popolazione. Dovremmo tuttavia chiederci se abbia attivato comportamenti solo distruttivi o se forse non stia suscitando anche sentimenti positivi che avevamo trascurato, se non smarrito. Taluni eventi che irrompono drammaticamente nelle nostre vite possono essere – lo si è detto - un’occasione per riconoscere la nostra comune vulnerabilità, l’appartenenza ad una comunità di destino.
La mia impressione, per fare un solo esempio, è che stiamo, sia pur faticosamente, ritrovando le radici della compassione, un sentimento probabilmente radicato nel nostro patrimonio biologico ma che ha bisogno di essere coltivato e, soprattutto, recuperato nel suo significato originario del “patire con”, della condivisione fraterna. Questo aspetto è evidenziato da Aristotele con una straordinaria sapienza psicologica. Secondo la sua analisi, la compassione ha bisogno, per manifestarsi, di tre condizioni. La prima è che un evento assai grave ha colpito qualcuno; la seconda è che esso non è dipeso dalla sua responsabilità; la terza è che noi avvertiamo di essere potenzialmente esposti allo stesso pericolo. In estrema sintesi, perché scatti la compassione occorre un triplice riconoscimento: quello della gravità di un evento; quello dell’innocenza della vittima; quello della nostra stessa vulnerabilità. Ora, queste condizioni mi sembrano tutte manifestamente presenti nell’esperienza dell’epidemia causata dal coronavirus in cui siamo chiamati a dare una risposta collettiva in termini di vera comunità e di fraterna solidarietà.

 

Il Festival di Bioetica (Santa Margherita Ligure 27 e 28 agosto 2020) sarà dedicato proprio al tema del 'prendersi cura'. Quale sarà il filo conduttore?
Il filo conduttore sarà l’esplorazione di una pratica – la cura, da intendersi come cura di sé, degli altri e del mondo - di importanza centrale nella nostra vita individuale e collettiva ma che troppo spesso è stata svalutata e considerata marginale, se non secondaria. Di grande rilievo, a questo riguardo, è stato il contributo di alcune studiose femministe impegnate a rivendicare il suo valore in ambito sia etico che politico. Tra esse, Carol Gilligan, Sara Ruddick, Carolyn Merchant, Joan Tronto. Se Gilligan ha inaugurato un filone di studi di estrema rilevanza imperniato sulla valorizzazione di una ‘voce differente’ in campo morale, Ruddick ha analizzato la ricchezza filosofica del ‘pensiero materno’ mostrando il suo legame con una politica della pace e Merchant, a sua volta, ha associato inscindibilmente, nella visione ecofemminista, liberazione della donna e liberazione della natura. Ma è stata soprattutto Joan Tronto a sistematizzare compiutamente tale variegata elaborazione teorica estendendo ad una dimensione davvero globale i confini dell’etica della cura. Come si legge in un saggio del 1990 scritto con Berenice Fisher, Toward a Feminist Theory of Caring, “Suggeriamo che la cura venga considerata come una specie di attività che include tutto ciò che facciamo per conservare, mantenere e riparare il nostro ‘mondo’ al fine di potervi vivere nel miglior modo possibile. Quel mondo include i nostri corpi, noi stessi e il nostro ambiente, tutto ciò che cerchiamo di intrecciare in una rete complessa di sostegno alla vita”. Il festival cercherà di evidenziare, a partire da questa definizione, una serie di percorsi attraverso cui la cura può configurarsi come un ideale per la vita politica e l’etica pubblica e realizzare una nuova e più matura idea di cittadinanza.

Intervista pubblicata anche in noidonne.org

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